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Autore: screaming_underneath    26/07/2011    10 recensioni
[Storia scritta per l'iniziativa "OS dell'Estate"]
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La prima estate di Leah e Sam. Prima di essere grandi, prima dell'amore e dell'imprinting maledetto che ha condotto un personaggio della Saga che adoro nel dimenticatoio.
Un castello di sabbia pericolante, una bimba dal costumino a gonnellino, un ragazzino un po' sbruffone e una paletta.
Tutto inizia da qui.
"Sicuro? Allora io sono Lee Clearwater. Leah. E tu, tu sei Sam" sorrise lei. Per qualche strano motivo, ad entrambi piacque il suono dei loro nomi, così vicini, così completi, assieme.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leah Clearweater, Quileute
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
- Questa storia fa parte della serie 'Lupus in fabula'
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Ad Ania e Cate, che mi hanno fatto amare questo personaggio.





 

Sandcastles



 

I gorgheggi della bimba risuonavano per la spiaggia, alti e dolci come quelli di un fringuello. Se ne stava seduta vicino al bagnasciuga, un piede intrappolato sotto il sederino, l'altro allungato quasi a lambire le onde dell'oceano, che lente e pacifiche arrivavano a momenti con il loro sussurro da sirene.
Cercava invano di mettere in piedi un castello di sabbia, usando un secchiello di uno stinto arancione e una paletta troppo grande per le sue piccole dita grassoccie di bimba. Il costumino, intero con una stampa a motivo floreale e un simpatico gonnellino, ondeggiava al vento caldo di metà estate.

Il ragazzino si avvicinò, quasi timoroso di deconcentrarla: gli occhi scuri di lei erano socchiusi e carichi di determinazione mentre per l'ennesima volta riparava la torre pericolante, con uno sbuffo scocciato. Rimase a guardarla un altro poco, affascinato da quel visino rotondetto da bambina della prima infanzia che però, nonostante tutto, aveva un non so che di serio, di adulto.
«Ciao. Posso aiutarti?» si buttò infine il ragazzino, avvicinandosi quasi fino a sfiorare l'orlo del gonnellino della bimba. Lei, senza dire nulla, scosse la testa, i capelli corti e neri che le ballavano ovunque, infilzando innervosita una parete della cinta muraria con bastoncino. Quella, per ripicca, cadde lo stesso.
«Uff. Caduta. Chi sei? Io mi chiamo Lee», annunciò lei, alzandosi di scatto. Lanciò un'ultima occhiata alla sua opera incompiuta, scocciata, per posare gli occhi sul bambino, studiandolo interessata.
Lui si ritrasse un po', spaventato dallo sguardo dell'altra. Non doveva avere più di tre anni, ma il suo visetto diceva chiaramente che
odiava essere disturbata mentre era al lavoro. Con un piglio molto da grande, la bimba si posò le mani sui fianchi, aspettando una risposta. Un maschio! Un maschio l'aveva disturbata, facendole cadere il castello. Erano tutti uguali, quelli. Bastava vedere il suo fratellino, che ad appena due anni non combinava altro che disastri...
«Beh? Come ti chiami?» chiese di nuovo Lee, soffiandosi via un ciuffetto di capelli dagli occhi. Il sole le brillava davanti al viso, morente nel rosso della sera. Dovevano essere quasi le sette, e sapeva che tra poco sua madre sarebbe venuta a chiamarla, affacciandosi dal fondo degli scalini scolpiti nella roccia che da casa sua portavano alla spiaggia di LaPush.
«Sam. Sam Uley, per la precisione», mormorò lui, tirando però su la testa nel pronunciare il suo cognome. Ne era orgoglioso perché tutti, nella riserva, rispettavano il nome degli Uley. Era il capo, lui, come suo padre. Pensava erratamente che gli altri ragazzini dovessero portargli rispetto, perché era il più grande, e faceva parte di una famiglia importante. 
Non aveva fatto i conti però con quel turbine floreale che aveva di fronte, e che a sentire il suo nome gli era piombato addosso come una furia, armato di unghiette taglienti e della grossa paletta. 
«Tu-hai-fatto-male-a-Jake! Non-si-fa!» scandì la bimbetta, accompagnando ogni parola gridata forte con quella sua voce sottile con una scudisciata della pala di plastica dura. Il ragazzino, sorpreso, non reagì, lasciandola continuare fino a quando un colpo più ben assestato lo raggiunse ad un orecchio, di taglio. Sibilando per il dolore, Sam Uley, cinque anni, si gettò a terra, portandosi le mani alla testa per proteggersi dalla furia della ragazzina.
«Pu-puoi smettere?» gridò, la voce soffocata dalla sabbia contro cui era premuto. Lei, rossa in viso e con il fiatone, assestò un ultimo colpo alle natiche del bambino, rannicchiato a sedere all'insù con la schiena scura al sole. Dove era stato colpito e non aveva la protezione del costume, la pelle stava volgendo ad un rosso preoccupante, perdendo quella sfumatura bronzea caratteristica di tutti gli indiani Quilieute.
«Tu hai fatto male a Jake. Non si fa», sentenziò di nuovo Lee, mollando la paletta per incrociare meglio le braccia al petto come faceva sempre sua madre. Guardò il ragazzino piena di disprezzo, come solo una bimbetta di quasi quattro anni può fare, invelenita. Il suo amichetto Jacob aveva un braccio ingessato e lei sapeva con certezza che a fargli del male al suo era stata quella melanzana che aveva lì davanti.
Per uno strano motivo – pensando a quel ridicolo soprannome che sua madre usava col suo fratellino Seth quando faceva lo scemo – capì che in realtà, Jake o non Jake, Sam Uley gli piaceva. Lo squadrò di nuovo, adesso con curiosità e senza rabbia. Non si era ribellato come facevano il più delle volte gli altri ragazzini, quando li picchiava. Se ne era stato buono buono, a farsi prendere a palettate. Nella sua logica di treenne, questo lo qualificava come amico, anche se aveva fatto del male a Jacob.
Gli si accovacciò vicino, toccandogli una spalla arrossata dalla sabbia e dalle botte. Sam era ancora chiuso a riccio, con la testa incassata tra le spalle: aspettava che quella strana bimbetta, con gli occhi tanto adulti da fargli paura, tornasse a picchiarlo. Sapeva di meritarsi quelle botte: aveva davvero fatto male a Jake Black, e se ne dispiaceva. Senza volerlo, lo aveva spinto giù dagli alti scogli davanti casa sua, facendolo atterrare sopra uno spunzone di legno vecchio lasciato a marcire al sole. Sua madre lo aveva punito proprio bene, quella volta.
«Ma sanguini! Oh!» sentì gridare la bimba vicino al suo orecchio destro, quello colpito. In effetti, da quella parte sentiva un dolore sordo, pulsante, diffuso per tutta la testa. Delicatamente, ci passò le dita sopra, preparandosi alla fitta di dolore, che, in effetti, arrivò: gemette, schiudendo finalmente il bozzolo in cui si era rifugiato e sedendosi lentamente. Il mondo, gira gira, tornò finalmente ad essere uno solo, così come la faccetta che gli era davanti, tutta accartocciata in una smorfia.
Lee non voleva fare davvero male a quel ragazzino, solo spaventarlo un po', ma la vista del sangue le aveva messo addosso una fifa blu. Adesso il suo nuovo amico sarebbe dovuto andare all'ospedale e sua mamma l'avrebbe picchiata, perché non si deve dar fastidio ai ragazzini più grandi.
«Scusa», mormorò lei, con gli occhi lucidi. Stava per scoppiare a piangere, lo sapeva. Per non farsi vedere, puntò gli occhi sul rosso sangue del cielo – un'altra giornata estiva che moriva, diceva sempre suo papà – posando le mani sulla sabbia calda. "Smettila di piangere, Lee. Le lacrime sono per i maschi, no?"
Scosse la testa, i capelli corti che ondeggiavano con lei, ma una calda goccia iniziò lo stesso a scendere lenta sulle sue guance.
«Non fa niente, ci voleva. Amici come prima?» sentì la voce di Sam in un orecchio. Era calda e dolce, molto bella. Come quella che suo papà usava per parlare alla mamma, a volte. Le piacque.
«Sicuro? Sicuro sicuro di non aver male? Allora io sono Lee Clearwater. Leah. E tu, tu sei Sam», sorrise lei, gli occhi ancora lucidi ma più sereni. Il suo nuovo amico stava bene, e il piccolo taglietto nell'orecchio sembrava molto meno importante, ora che lo guardava bene.
Il ragazzino sorrise. Aveva trovato una nuova amica, anche se l'aveva picchiato, facendoci la figura della melanzana piagnucolona.
Per qualche strano motivo, ad entrambi piacque il suono dei loro nomi, così vicini, così completi, assieme. Non era lo stesso che con Jake, nono, pensò Lee.
«Mi aiuti a fare il castello, Sam?» chiese lei, dopo un po' che fissavano il sole estivo scendere lento per spegnersi nell'oceano. Prese per mano Sam, tirandolo in piedi con tutta la forza di cui era capace.
Con un tonfo, ricaddero uno sopra l'altro, mucchiettini di gomiti e gambe e braccia, e quel contatto tra le loro guance fu una breve scintilla, troppo breve perché nessuno dei due capisse veramente di cosa si fosse trattato, ma comunque qualcosa
Rimasero lì, nella sabbia calda di LaPush, a ridere come matti. Entrambi sapevano di aver trovato un nuovo amico.
Amico per la pelle.
 

**


Ti alzi, di scatto, spolverandoti il fondo del vestito comprato per l'occasione.
Lo stesso sole che va spegnendosi sulla solita spiaggia, sul solito mare. Un'estate identica, sotto molti punti di vista, a quella di tanti anni prima, eppure così diversa.
Sono passati anni, tanti, troppi anni, anche se per un momento, ancora una volta, ti è davvero parso che il tempo si fosse fermato, e che un Sam cinquenne ridesse assieme a te, danzando davanti ad un castello di sabbia miracolosamente in piedi, puntellato da stecchi e sassi di sostegno.
Sorridi, un sorriso triste, pieno di malinconia per quella Leah che sei e non sei più, verso il giorno che muore. Un vento leggero ti muove i capelli, corti come allora, accarezzandoti la pelle, in un turbinio di ricordi. Anche gli occhi, in fin dei conti, sono gli stessi: occhi troppo da grandi, troppo adulti. Occhi che hanno visto e non vorrebbero vedere più.
Con un sospiro, torni indietro, mentre una bimba, sui cinque anni, sfreccia accanto a te, un secchiello in mano e un costumino a fiori con una buffa gonnella, che ricorda un po' quello che era stato il tuo, anni fa.
La loro figlia.
Te la lasci alle spalle.
La musica ti colpisce le orecchie, orecchie da lupa, orecchie che hanno ascoltato, ascoltato troppo, e grazie al cielo non sentono più.
«Mille auguri!» La voce di qualcuno – forse tuo fratello – sovrasta tutte le altre, fragorosa e troppo felice per il tuo stato d'animo.
Un festone davanti a te, ti accoglie. 
Sam & Emily, Just Married.

Ti getti nella mischia, il sorriso adesso congelato in una smorfia non ben definita, falso, terribilmente doloroso. Lo fai per lui.
Mentre danzi, al braccio di Seth, guardi ancora verso il mare, incorniciato dal festone floreale, dove le lettere scritte in oro rilucono verso di te.
Vorresti poter andartene via, lontano, ma non puoi.
Vorresti che a quel nome subentrasse il tuo, di nuovo, per sempre.
Vorresti non aver mai conosciuto quel ragazzino smilzo, una sera di oltre vent'anni f, e vorresti non averlo mai preso a palettate, né notato quanto fosse simpatico, così melanzana com'era.
Vorresti non esserti mai innamorata, ma ormai, la frittata è fatta, avrebbe commentato tuo padre, fosse stato lì.
Vorresti non esserti mai trasformata, per poterti stringere al petto del tuo papà, come una volta, ed essere consolata.
Vorresti non essere sola al mondo, così come sei.
Ma lo sei, e non puoi rimediare. E allora danzi, e cerchi di non pensarci. Perché lo ami, e faresti di tutto per farlo felice.

I tuoi, sono soli castelli di sabbia pericolanti, che non possono star su. 

E l'unica cosa che puoi fare è cercare di tenerli in piedi per lui.
 

 

 

 

 

   
 
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