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Autore: Ronnie02    27/07/2011    3 recensioni
Edward è un insegnante di piano nel liceo di Chicago e vive con la sorella Alice, medico di fama mondiale, e sua figlia Nessie.
Il suo problema? Si perde spesso nel passato, nella vita che aveva avuto con la sua... Bella. Ma dove si trova ora, il suo amore più grande?
Spero di avervi incuriositi!
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Renesmee Cullen, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Ed eccoci finalmente con il primo capitolo! Grazie per chi ha recensito, chi ha letto, chi ha inserito la storia tra le preferita/seguite/da ricordare!
Avete fatto bene xD

Ora vi lascio alla lettura





Capitolo 1- Un disastro con boccoli di rame

 


“Ti prego, basta! Ti supplico!”, continuava a lamentarsi mia sorella Alice mentre il mio disastro con i boccoli ramati le cantava da mezz’ora la canzone che oggi le avevano insegnato a scuola di canto.
Quando lo faceva una volta era fantastico, mi rendeva davvero orgoglioso, quando erano due era okay e così alla terza volta che la sentivi cantare, ma dalla quarta in poi ti chiedi per quanto tempo ne avrà ancora.
A che punto eravamo ora?
Alla decima e Alice stava impazzendo sul serio.
“Papà perché non canti con me?”, mi propose la mia piccolina smettendo di torturare mia sorella per qualche secondo.
“Sì, Edward, vieni qui anche tu!”, disse Alice pregandomi di lasciarla andare con lo sguardo. Le sorrisi in risposta.
“Va bene, arrivo Nessie”, dissi. Ma fu lei a correre sorridente verso di me, lasciando zia Alice in pace.
Così aprii le braccia, in modo che riuscisse a tuffarsi nel mezzo quando sarebbe arrivata.
Nessie. Renesmèe Carlie Cullen.
Mia figlia. Il mio orgoglio dalle guance rosee.
Aveva da poco compiuto dieci anni, il 10 di settembre, e come regalo le avevo donato un piccolo microfono, vista la sua già sfrenata passione per il canto. Lo usava tantissimo, anche troppo e toccava a me e ad Alice sopportarla.
Già, perché quella santa donna di mia sorella, da quando la madre di Renesmèe se n’era andata dopo ventiquattro ore dalla nascita della piccola, mi aveva offerto di vivere con lei per tenere d’occhio la peste e aiutarmi. Un uomo da solo era ovvio che non sarebbe stato in grado di occuparsi di pannolini e piagnistei notturni. Soprattutto se aveva diciannove anni e la donna che credeva la ragione della sua vita è fuggita.
Alice, per lei, si era comportata meravigliosamente, l’aveva cresciuta con me come una sua figlia ed era stata davvero come una mamma.
Ma non lo era. La sua mamma era una stronza che aveva preferito andarsene a recitare davanti ad una cazzo di telecamera, invece di prendersi le proprie responsabilità da madre.
Nessie lo sapeva, conosceva il nome di sua madre, anche se aveva mantenuto il segreto. Le lo riferii appena fu abbastanza sveglia da notare la somiglianza fra lei e la donna che il cartello pubblicitario al cinema mostrava.
Come l’aveva presa? Reagiva sempre in base all’umore alla conoscenza di avere una mamma attrice e fuggitiva.
Se era felice se ne stava davanti al pc, sulla pagine di Google con le foto della madre e si chiedeva se un giorno sarebbe tornata per portarla in qualche set cinematografico.
Ma quando la tristezza s’impossessava di lei, cosa più comune, si rannicchiava sul letto, giurando che se l’avesse vista, in qualsiasi contento fosse, le avrebbe gridato quando fosse stata una tremenda madre, perché non era con lei.
Perché c’ero io quando faceva i primi passi, la cullavo io quando piangeva di notte a sei mesi, la faceva divertire Alice quando io cercavo di darle da mangiare lavorando come un matto. C’eravamo io e mia sorella, non lei.
E questo a volte Nessie non lo capiva. Una notte la tenni abbracciata per ore, cantandole dolci canzoni per cercare di fermare gli spasmi del pianto.
Quella figlia di puttana non avrebbe dovuto andarsene, facendola soffrire così, e forse quella notte non pensava nemmeno a sua figlia che mai aveva visto, ma stava scopando con il nuovo sex simbol del  momento, tanto per accrescere la sua popolarità.
“Ti voglio bene, papà”, mi sussurrò Nessie, baciandomi la guancia mentre stava comoda tra le mie braccia.
“Anch’io tesoro”, rispose sorridendole. Era per quello che vivevo. Per lei e per nessun altro.
Per la mia Nessie!
 
“Sei bellissima”, le disse mentre si pettinava i capelli i una lunga treccia, già vestita con la sua divisa scolastica. Lei si voltò, illuminò la mia giornata con il suo sorrisone dolce e, dopo aver chiuso la treccia con un bel elastico blu elettrico, mi corse incontro.
La presi in braccio come il giorno prima, deciso, per non farmi prendere dal suo peso da decenne e non più da neonata, e le baciai i capelli di rame.
Perché crescevano così in fretta? Già mi mancava imboccarla con le pappette preparate che Alice andava a comprarle. Mi faceva così ridere vederla sbrodolare perché non voleva le verdure. Con le sue piccole manine che mi chiamavano quando tornavo a casa.
“Che fai oggi?”, le chiesi mettendola giù e portandola mano nella mano in cucina, per fare colazione insieme.
“Josh mi dedicherà la sicura vittoria della partita di football”, mi rispose tranquilla.
“Aspetta, chi è Josh? Quale partita di football?”, chiesi già traumatizzato. Era arrivata la fatidica ora del discorso? A dieci anni? Oddio…
“Tranquillo papà, è il mio migliore amico e vincerà la solita mezza partita che fanno durante l’intervallo tutti i giorni. E’ molto bravo, ma non è il mio tipo”, disse decisa con quella sua voce bianca.
Alice, prepara il divanetto: mi serve uno psicologo!
“E vediamo... chi sarebbe il tuo tipo?”.
“Tu!”, rispose dolce baciandomi la guancia, alzandosi anche con le punte dei piedi.
Nessie, la mia ancora fortunatamente piccola tenerona!
Così si sedette sul tavolo, aspettò che le dessi il suo solito bicchiere di succo e la sua solita brioche alla crema e intanto giocherellò con la sua treccia.
Preparata la colazione le la porsi e lei cominciò a mangiare tranquilla, agitando le gambine che non raggiungevano da sedute il pavimento, con un modo molto infantile.
“Ehilà”, tuonò Alice entrando in casa mentre io bevevo il mio solito caffè. “Ciao bellimbusto!”, disse salutandomi e scompigliandomi i capelli rossi come quelli di mia figlia, “E ciao anche a te, tesoro!”.
“Zia Alice, oggi mi accompagni a scuola?”, chiese Nessie mettendo giù la sua brioche per bere un po’ di succo.
“Certo, va bene”, rispose Alice felice. Lei adorava mia figlia! “A meno che quel possessivo di tuo padre non ti voglia portare lui”.
Renesmèe allora, per colpa del dono di sua madre del perfetto labbruccio da cane bastonato, mi «convinse» a lasciarla andare con la zia.
L’avrei lasciata andare comunque, non ero davvero così possessivo, ma mi piaceva restare al gioco.
Renesmèe corse ad abbracciare sua zia e, quando entrambe ebbero finito di mangiare, uscirono di casa.
Alice era la proprietaria della mente più acclamata al mondo, e infatti era la direttrice dell’ospedale più famoso di Chicago, dove vivevamo ora. Mi ricordo ancora che, quando era uscita dal master e aveva cominciato la solita gavetta ad inizio carriera, continuava a fissare male quel pezzo di carta che testimoniava laurea di cento e lode in medicina.
“Che cazzo ho studiato a fare per tutta la metà della mia vita se mi ritrovo a fare l’assistente di una mezza scema che non distingue un tumore da una polmonite?!”, si lamentava. Poi andava da Nessie e si distraeva coccolandola.
Ma poi qualcuno aveva capito il suo genio e a trentaquattro anni, cinque anni in più di me, era una celebrità assoluta nel mondo medico.
Io invece?
Io mi ero solo diplomato, avevo avuto una mezza storia fortunatamente non gossippata con una stella nascente di Hollywood, l’avevo messa incinta e mi ero ritrovato solo e con una figlia di un giorno.
Non potevo permettermi, né per tempo né per denaro, l’università e così andai nel liceo locale ad insegnare musica.
La mia passione per il piano e la mia bravura li avevano convinti ad assumermi meglio di quella carta straccia che anche un’università come la Julliard avrebbe potuto darmi.
Forse Alice non aveva così torto agli inizi…
Così, visto che oggi il mio orario da professore prevedeva la prima ora libera, feci con comodo. Finii il mio caffè, mi sistemai per bene e poi uscii di casa, passando dal bar di Emmett McCarty, mio ex compagno di liceo nonché mio migliore amico.
“Ehilà, bellissimo”,mi disse vedendomi arrivare. “Il mio tesorino come sta?”.
“Ciao Emm. Va bene, ma lunedì pomeriggio è crollata un’altra volta”, gli rivelai sedendomi nel mio solito posto al bancone, davanti a lui.
“Figlia di puttana”, commentò. Anche lui adorava Nessie e da piccola, ma anche adesso, la portavo sempre a giocare qui con Emmett. Era ormai la mascotte del bar!
“Hai sentito? Nel prossimo film sarà la madre più buona del mondo”, mi rivelò ancora tirando fuori un giornale.
 
Bella Swan al lavoro per il suo prossimo Oscar!
Da quando sabato pomeriggio abbiamo fotografato Bella mentre arrivava all’aeroporto di Toronto con la sua nuova fiamma Riley Biers, conosciuto sul set di Dark Night, ha riposato un giorno ed ora è all’azione. Oggi ha cominciato le riprese di Better Late Than Never, nuovo film dalle alte aspettative. La storia narra di una madre sola con due gemelli, Cloe e Fin, in attesa che l’amore la colpisca di nuovo per dare finalmente un padre ai bambini. Con lei, come coprotagonista maschile, reciterà il nuovo Don Giovanni di Hollywood, Noah Midlight, divenuto famoso per il suo ruolo del bel mago in Magic Night. Riley infatti ha rinunciato a tutti i suoi impegni per i prossimi mesi per restare con Bella durante le riprese. Che sia nato un triangolo amoroso tra Bella, Riley e Noah?
 
“Si vede che sa recitare”, dissi buttando il giornale fuori dalla mia portata per evitare che la curiosità mi spingesse a guardare anche le foto. Vederla sarebbe stato fatale, anche solo per immagini sfuocate.
Poi salutai Emmett ed uscii, per dirigermi alla scuola.
Parcheggiai l’auto davanti all’entrata, nel momento esatto in cui suonò la campanella. Perciò corsi verso l’aula di musica, dove già mi attendevano diciotto ragazzi, tra i quali due su cui contavo davvero. Liam e Maggie, di provenienza irlandese, erano i miei più bravi studenti e stavano già progettando, come me alla loro età, il loro provino per la Julliard. Quanti ricordi vagavano nella mia mente mentre mi spiegavano il motivo delle loro scelte musicali.
Soprattutto un particolare flashback si stagnò nella mia testa.
 
“Quando hai il provino?”, mi chiese Bella mentre camminavamo verso l’aula di teatro, guardati da tutti, per andare alle sue prove di Romeo e Giulietta. Lei ovviamente faceva la protagonista.
“A luglio. Spero che vada tutto bene, sono così teso”, dissi io stringendomela contro per rilassarmi. “Penso alla Julliard da quando sono nato e non posso sbagliare”.
“Vedrai che farai un figurone”, mi sorrise entrando nella stanza e salutando la professoressa di teatro. Era alta, con lunghi capelli biondi e gli occhi marroni ma colorati di azzurro grazie alle lenti a contatto dipinte.
“Grazie”, le dissi baciandola prima che entrasse nello spogliatoio per vestire i panni di Giulietta.
“Che cosa porterai?”, mi chiese finito il bacio.
“Penso Rossini”, dissi spostando la ciocca marrone che copriva il suo bel viso con i suoi occhi di cioccolato. “I maggiori autori italiani mi piacciono tantissimo”, risposi immaginando quale opera fare.
“Sì lo so”, rispose salutandomi sul serio, stavolta. “E spero che mi dedicherai la riuscita della tua ammissione, vero?”.
“Ma certo”, dissi baciandole la guancia e lasciandola andare a cambiarsi. Io la Julliard, lei i provini per un’opera teatrale a New York. Saremmo stati felici, no?
 
La lezione finì in fretta ed era meglio che mi assentassi un attimo a bere o sarei svenuto sul colpo. Ricordarla era come una bomba a mano, ma il mio cuore mi obbligava a non dimenticarla.
Ormai era parte di me, maledizione!
Uscii un secondo, lasciando gli alunni del primo alle prese dei tasti d’avorio del piano. Alla fine me ne andai dal bagno, dove mi lavai la faccia diverse volte per portare via il ricordo di lei. Chiamarla così mi faceva sentire meglio. Il suo nome era meglio che restasse un tabù.
Andai a prendere le fotocopie che avevo fatto giorni prima per i nuovi alunni e le riportai in classe, sfoderando il mio sorriso va sempre tutto alla grande.
La mattina passò così, tranquillamente, tra canzoni facilissime a più complesse, in base alla classe che trovavo in aula. L’ultima ora mi toccava il secondo anno, perciò mi preparai alla noia.
Non erano molto incapaci dopo un anno di pianoforte, ma di certo non erano come Liam o Maggie.
Passando un ora con canzoni facili e accordi da primo anno, visto che l’estate aveva portato via anche gli ultimi ricordi delle lezioni precedenti, arrivò il suono della fatidica campanella e di conseguenza e i sospiri felici dei miei alunni.
“Professor Cullen?”, mi chiamò Sarah Floh, mentre stavo portando via le mie cose.
“Si Sarah?”, chiesi vedendo che non diceva più niente. Sembrava imbarazzata.
“Liam mi ha detto che andrà alla Julliard. Com’è andarci?”, mi chiese sedendosi davanti a me.
Stavolta ero io che diventavo imbarazzato. “Non sono mai andato alla Julliard. Problemi... personali”.
“E’ sposato signor Cullen?”, mi chiese con occhi strani, come se volesse indagare sul mio passato.
“No… ma non credo sia affari suoi, signorina Floh”, la ripresi mettendo la mia borsa a tracolla sulla spalla e chiudendo la tastiera del piano vicino a me.
“Mi dispiace… non volevo metterla in imbarazzo. Volevo solo sapere perché un pianista come lei non sia andato alla Julliard”, disse alzandosi veloce con occhi di scusa.
“La vita è imprevedibile, miss Floh. Puoi immaginarla, puoi organizzarla, puoi decidere tutto il tuo futuro… ma alla fine niente va come vorresti”, le dissi andando via.
Parlare del motivo per cui non ero andato all’università artistica e musicale più famosa del mondo mi faceva male, troppo male.
Uscii dalla scuola, presi la macchina e tornai a casa. Appena notai la bambola di Nessie sul comodino all’entrata, la bambola che Alice le aveva regalato anni fa e che era diventata la sua preferita, mi sentii meglio. L’elemento lei e Julliard sparirono subito quando pensai a Nessie. Lei era la sola unica cosa che mi teneva il sorriso sulla faccia.
E il telefono squillò.
“Pronto?”.
“Lei è il signor Cullen? Il padre di Renesmèe Carlie Cullen?”, mi chiese la voce roca e incomprensibile di quel fumatore del preside della scuola di Nessie.
“Certo, che succede?”, mi preoccupai.
“Sua figlia è al pronto soccorso con sua sorella Mary Alice Cullen”, mi informò facendomi cadere retoricamente in un buco nero. “E’ meglio che la venga a prendere, vuole lei”.
Merda!
Che era successo? Cosa aveva fatto la mia bambina? Chi l’aveva toccata?
Non c’era bisogno di dire niente, perciò buttai il telefono sul tavolo della cucina e mi lanciai letteralmente fuori dalla casa. Presi la macchina e volai verso l’ospedale di Alice.
E’ con lei, Edward, è con Alice, pensavo cercando di pensare al meglio per la mia piccola.
Parcheggiai l’auto, la chiusi di fretta e corsi verso l’ospedale, dirigendomi verso il settore pedagogia. Mille colori e mille disegni rendevano il luogo meno traumatico, ma sempre un reparto ospedaliero rimaneva.
“Ha bisogno di aiuto?”, mi chiese un’infermiera che passava, con un bimbo di pochi mesi in braccio.
“Dov’è Renesmèe Carlie Cullen?”, chiesi veloce ma sillabando bene il nome, sapendo che non era molto facile.
“Oh, la piccola Renesmèe! È arrivata stamattina ed è già diventata l’idolo del reparto”, disse ridacchiando con lo sguardo sul bimbo, facendogli moine. “E’ nella camera 18”.
La ringraziai e salutai quel piccoletto con un sorriso – mi ricordava tanto la mia piccina – e tornai indietro verso la stanza che mi aveva indicato.
21, 20, 19… 18!
Spinsi piano la porta, in caso stesse dormendo, e guardai dentro. Era una piccola cameretta, divisa in due, ma ora c’era solo mia figlia ad occuparla.
E lei era lì, seduta sul letto, che sorrideva e parlava con Alice come quella mattina. Era così bella, così pura, così dolce…
“Papà!”, gridacchiò quando si accorse di me, spingendo le sue mani verso di me come faceva da piccola nella culla.
Le andai incontro di fretta e, arrivato lì, la strinsi forte. avevo avuto paura di perderla da quando era nata, ma per ora con me. La mia piccina dai boccoli di rame era qui con me.
“Che hai fatto? Che ti è successo?”, la interrogai guardando i suoi profondi occhi scuri, come cioccolato al latte.
“Stavano giocando a football, come ti ho detto stamattina, ed io ero entrata nel piccolo campo per incoraggiare Josh e non mi sono accorta che la palla stava già volando per aria”, spiegò facendomi maledettamente immaginare la scena di lei colpita da una palla.
“Il pallone era poco gonfio perciò non ha fatto molti danni, a parte lo svenimento che l’ha portata qui. Ma si è subito ripresa, tranquillo”, mi disse mia sorella calmandomi. “Non ha niente, è solo un po’ stordita, quindi domani la potrei tenere qui con me”.
“Ok, va bene, dai”, accettai anche se non troppo felicemente. Una giornata senza Nessie era come una giornata con gli spettri del mio passato.
Ma a distrarmi immediatamente da quel pensiero arrivò il preside, il fumaiolo che mi aveva chiamato.
“Allora miss Cullen, come si sente?”, le chiese sorridendole. Sentivo l’odore di fumo fin dalla parte opposta del lettino bianco, dove si era posizionato.
“Meglio, infatti non capisco perché non posso tornare a casa!”, li lamentò Nessie. Lei era uno spirito libero, non amava molto gli spazi chiusi.
“Uscirai di qui quando tuo padre ti porterà a casa. L’ho chiamato apposta per questo”, rispose il preside guardandomi. Già, e anche per farmi prendere un colpo dicendomi che la mia bambina era all’ospedale!
Nessie afferrò al volo e mi guardò con il suo solito e intollerabile sguardo da cucciolo per obbligarmi a farla tornare a casa, nella sua cameretta.
“Bene, allora possiamo andare”, decretai porgendole la mano e prendendola in braccio. Messa giù la feci camminare, guardando se Alice mi faceva dei segnali.
Mi sorrise, segno che la sua andatura andava bene.
“Alice, resti qui?”, chiesi prendendo la mano di mia figlia per cominciare ad uscire.
“Sì, aspettami pure a casa, fratellone”, mi disse dandomi un piccolo abbraccio. Mi mancavano i giorno adolescenziali dove ridevamo e scherzavamo insieme…
Nessie mi tirò la mano, segno che mi ero imbambolato nei ricordi, e l’accompagnai alla macchina, per poi tornare a casa.
Arrivato lì mangiammo qualcosa di preparato al momento e poi ci sedemmo insieme sul divano a guardare la tv.
Passò una mezz’ora strana. Nessie di solito, al pomeriggio dopo la scuola, adorava vedere un po’ di televisione per rilassarsi, ma stavolta aveva lo sguardo fisso su di me.
Mi voltai, cercando di farla parlare visto che si morde il labbro inferiore con i piccoli denti bianchi.
“Sei arrabbiato con me?”, mi chiese alla fine agitando le gambine, tesa.
“Cosa?”.
“Sei arrabbiato con me? Per quello che è successo oggi”, mi spiegò meglio.
“No, non sono per niente arrabbiato con te. Perché dovrei esserlo?”, chiesi stupito. Non era nella mia natura essere in collera con la mia piccola. “Certe cose possono capitare. E sai una cosa?”.
“Che cosa?”, rispose guardando il mio sorriso.
“Ci hai guadagnato una giornata libera con zia Alice domani!”, le dissi dandole in bacio e facendole il solletico.
“Papà!”, urlò ridendo con la sua voce armoniosa e ripentendo le parole di Alice. “Ti prego, basta!  Ti supplico!”.
 



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