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Autore: LivingTheDream    28/07/2011    3 recensioni
"Vorrei solo dirgli addio, per sempre.
Invece ancora una volta non ne trovo il coraggio.
Beh, tanto meglio."
Se un proposito fallisce una, due, tre volte, è una cosa. Ma se non riesce nemmeno la quarta, allora è meglio iniziare a farsi delle domande.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Nda: questo è un fatto curioso.

 

Giusto due ore fa, sotto una pioggia fitta tempesta diluvio universale nonostante il periodo, mi è venuta questa idea. Apro il documento, poggio le mani sulla tastiera, ma mancava qualcosa. Una canzone.

Cerca che ricerca, nulla era abbastanza tranquillo e malinconico per il contesto. Opto per i Vocaoloid, e mi metto alla ricerca di qualcosa. Alla fine che trovo? Questa, Dear You by Miku Hatsune.

Dolce, tranquilla, malinconica. Per favore, oltre ad ascoltarla durante la lettura, leggetene la traduzione, e ditemi se non vi ricorda qualcuno.

Grazie per l'attenzione, buona lettura.

 

 

Vorrei solo dirgli addio, per sempre.

 

Tutto qui.

Non “arrivederci”, o “a presto”. Addio.

Una volta per tutte salutarlo, magari anche con il sorriso sulle labbra, e lasciarlo andare per la sua strada.

Farlo tornare da sua moglie, dai suoi futuri bambini, dal suo lavoro; da quella sua vita perfettamente imperfetta ma meravigliosa.

Dopotutto un uomo come lui se lo merita – solo Dio sa quanta sofferenza è passata attraverso il suo cuore.

Sarebbe stata la scelta giusta, una volta per tutte; io avrei continuato a vivere solo, come ho sempre fatto, e lui avrebbe smesso di rischiare vita e salute mentale per seguire un folle senza misura del pericolo che mai è riuscito ad essergli grato come avrebbe dovuto.

Ma cosa mi ha sempre impedito di mettere in atto questo addio così logicamente corretto? Bella domanda.

Forse la consapevolezza che non sarei stato più lo stesso, forse il rischio di trovarmi senza nessuno a coprirmi le spalle, forse l'egocentrica voglia di continuare a far conoscere al mondo le mie gesta.

Forse qualcosa di più di tutto questo.

Forse la solitudine di non aver nessuno che mi ascolti come se da questo dipendessero le sorti del pianeta, forse la mancanza di una presenza preoccupata che non è tranquilla finché una certa siringa è nei miei paraggi, forse lo strato di polvere sulla poltrona di fonte alla mia.

Una notte ponderai su quella decisione. Passai tre ore, immobile, senza nemmeno fumare, a valutare tutte le possibili opzioni e conseguenze.

Poi presi il telegramma che avrebbe dovuto far accorrere Watson, me lo rigirai in mano, lo rilessi una decina di volte – dopodiché lo gettai nel fuoco. Mi convinsi che, per il bene di entrambi, avrei dovuto continuare da solo; dopotutto, se non era lui stesso a cercarmi, voleva dire che non aveva bisogno della mia compagnia – almeno non quanto avevo scoperto di avere bisogno io della sua.

La mattina dopo fui svegliato da una mano fredda e forte che mi scuoteva la spalla e da un volto felice, che portava in bella mostra un sorriso che conoscevo fin troppo bene.

«Holmes! Su, veloce, si alzi! C'è un cliente, non vorrà farlo aspettare?» mi fece vestire, con gli occhi che brillavano di un entusiasmo fanciullesco.

Ripensai al telegramma; ero sicuro di averlo bruciato, come mai il dottore era qui?

Quasi come se mi avesse letto nel pensiero, mi rispose sedendosi sul letto.

«Sono venuto quando mi sono reso conto che era un mese che non ci vedevamo. A quanto pare arrivo in tempo per una nuova avventura.»

«Un mese!» risposi, rendendomi presentabile. «Com'è strano, lo scorrere del tempo! Sembra insieme un'eternità e pochi giorni.»

Rimase leggermente confuso dalla mia affermazione, ma mi seguii nel salotto. Fortunatamente non mi poteva vedere il volto, o avrebbe insistito nel chiedere il perché di quel sorriso abbastanza stupido che avevo assunto.

E così fallì il mio primo tentativo di dirgli addio.

La stessa situazione si ripeté ancora ed ancora; ogni volta che non mi cercava per del tempo, io durante la notte decidevo di troncare ogni contatto con lui. E la mattina dopo, puntuale come se ci fosse qualcuno ad avvertirlo, me lo ritrovavo nello studio, gioviale e curioso. Ed ogni volta i miei progetti sfumavano.

Il mio ultimo tentativo risale a tre anni fa. Sarei partito per scappare da Moriarty, l'avrei ucciso a costo di sacrificare la mia vita allo scopo.

E tentati di dirgli addio. Andai da lui per cercare di informarlo di quanto stava accadendo, per lasciargli una sottospecie di testamento, magari per ringraziarlo finalmente di tutto.

Ma quando gli mostrai le nocche, scorticate e sanguinanti, colsi nel suo sguardo l'impulso irrefrenabile di afferrare una qualsiasi benda, a costo di strapparsi una manica della camicia, e di rimediare a quella ferita. Ma non era assolutamente deformazione professionale, come cercai di convincermi in un primo istante.

Quindi glielo chiesi, lo sottoposi a quest'ultima prova, a questo ultimo enigma. E diede la risposta sbagliata dal punto di vista logico, pur centrando in pieno il lato sentimentale della situazione.

Sarebbe venuto con me, avrebbe rinunciato alla sua casa confortevole, a delle camicie pulite, a pasti amorevoli e all'affetto di sua moglie per prepararsi a vagare senza meta, con abiti sporchi, pasti irregolari, e tutto questo in compagnia del suo ex-camerata, in pericolo di vita.

«Lei è il mio migliore amico, ha tutto il mio affetto. Non la lascerei andare da solo per nulla al mondo.» questo per lui giustificava tutto.

E per l'ennesima volta non riuscii ad abbandonarlo.

Ora che sono rifugiato in uno sperduto angolo d'Europa – con un nome che non è il mio, in un appartamento che non è il mio, rileggendo una copia de “L'ultima avventura”, di John H. Watson, procuratami da Mycroft – ci riprovo.

Riprovo a dirgli addio. Quando tornerò a Londra lo saprà dai giornali, mi torturerò le mani pur di non scrivergli nemmeno una riga, dovrà pensare che non lo voglio vedere.

Probabilmente ora avrà dei bambini, forse due, un maschio ed una femmina, come aveva desiderato anni fa; il suo ambulatorio sarà famoso ed accreditato, e sua moglie più bella che mai. Non rovinerò tutto questo, non di nuovo.

E poi non è nemmeno sicuro che io riesca a tornare vivo a casa. È qualche mese che gli sgherri di Moriarty non si fanno vedere, sarà la calma prima della tempesta.

E quindi, questo è il mio addio al dottor Watson – un pensiero, tutto qui.

Chissà che starà facendo, con chi sarà, se è contento e se il suo ricordo ogni tanto torna alla mia persona.

No, forse l'ultima cosa non mi interessa saperla.

Sarà meglio tornare al lavoro, adesso – dopotutto, essendo questo un addio, non dovrei continuare a pormi tante inutili dom-

«Sherlock!» la porta si apre, interrompendo i miei pensieri, e salto in piedi, pistola alla mano.

«Fratellino, ti ricordo che solo io ho le chiavi!»

«La prudenza non è mai troppa. Perché quel sorriso?» mi si avvicina e mi prende le spalle.

«Sei libero, Sherlock! Li hanno catturati! Puoi tornare a Londra!»

Mi abbraccia, ed una volta tanto lo lascio fare. Ho lo sguardo fisso nel vuoto, non ci posso credere.

«Sherlock? Sherlock, stai bene? Non sei contento?»

Sta accadendo di nuovo.

«S-sì, Mycroft, ovviamente. Mi devi fare un favore.»

Di nuovo un addio bruciato.

«Tutto quello che vuoi.»

Di nuovo un'inutile sofferenza.

«Recupera uno dei miei travestimenti – quello da anziano libraio.»

Fortunatamente mio fratello non fa domande, e si limita ad annuire.

 

Vorrei solo dirgli addio, per sempre.

Invece ancora una volta non ne trovo il coraggio.

Beh, tanto meglio.

 

«Holmes! Hanno accettato la mia richiesta per rilevare l'ambulatorio!»

«Ma è magnifico! Quindi... tornerà a Baker Street?»

«Con grande piacere. Ah, e po- Un attimo, Holmes. Dove sono finiti quei gemelli d'oro di cui andava tanto fiero?»

«Quelli? Ah, lo ha notato. Nulla, ho solo scoperto di poterne fare un utilizzo migliore.* Ora, lasciando stare questi dettagli, che ne dice di andare?

«Oh, si, certamente.»

«Ah, Watson!»

«Cosa?»

«Grazie.»

«... grazie a lei, Holmes.»

 

Vorrei solo dirgli addio, per sempre.

Ma, ora come ora, l'unica cosa che mi sento di dirgli è “bentornato a casa”.

 

 

 

 

*Ne “L'avventura del costruttore di Norwood” Watson dice che un certo Verner aveva rilevato il suo studio nonostante l'alto prezzo, ed aggiunge che qualche anno dopo aveva scoperto che questo Verner era parente di Holmes, e che quindi era stato il suo amico a pagare la somma. – Per chi ha la raccolta de “I mammut”, quella giallo canarino, vada al quartultimo rigo di pagina 650, fino al secondo rigo della pagina seguente. –

Al che ho ipotizzato che Holmes, per far fronte alla spesa, abbia venduto i suoi gemelli. So che no era a corto di soldi, ma, come si dice, licenza poetica, no?

 

 

 

   
 
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