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Autore: lar185    28/07/2011    1 recensioni
- Mi scusi…?- disse, alzando il dito rivolta al cameriere.
- Mi dica signorina- rispose quello, sorridendole.
La giovane fu imbarazzata dal suo sorriso come una bambina alla quale viene fatto un complimento, abbassò lo sguardo per un frazione di secondo e poi riprese dicendo:
- E’ passato di qui per caso un principe?-
Il cameriere la guardò stralunato, Bianca evitò per un pelo di strozzarsi con l’acqua [...]
- Principe ha detto?-
- Già. Un principe. Non mi dica che non ne ha mai visto uno-
Il cameriere alzò le spalle.
- Beh, solo in televisione, e di solito non c’è mai tanto da dire su di loro. Principe William, principe Henry… non molto utili alla società-
La giovane sembrava sconcertata.
- Oh- sospirò, portandosi una mano alla bocca, - ma a parte la televisione, non ne ha visto uno qui dentro, vero?-
Il cameriere scosse la testa.
- Credo che lei si stia sbagliando, signorina. Non ci sono principi da queste parti-
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eva si alzò dal letto e diede un’occhiata fuori dalle vetrate della sua camera: era una giornata di sole, il giardino era illuminato in ogni suo angolo e i zampilli d’acqua della fontana sembravano coriandoli di luce. Una lustra macchina nera era ferma sulla ghiaia, proprio dinanzi all’entrata principale della villa.
Eva storse il naso, con un movimento del capo spinse indietro i lunghi capelli castani.
Era arrivata. Era di nuovo lì.
La portiera della macchina si aprì e ne uscì una giovane ragazza elegantemente vestita, con i capelli lisci e lucidi sotto il sole.
La sua sola vista l’aveva turbata.
Eva si ritirò dalla vetrata con un sospiro insofferente e si sedette sul letto a braccia incrociate.
Era stato un periodo troppo breve e felice, quello durante il quale lei non era stata presente in casa sua: per qualche anno aveva avuto l’illusione che la sua vita potesse essere tornata alla normalità, ma questo era semplicemente troppo bello per essere vero. Lei, con tutto il suo bagaglio di stranezze, era tornata. E chissà quale altro guaio avrebbe combinato stavolta.
Se ci fosse stata ancora sua madre, forse tutto questo non sarebbe mai accaduto. Eva avrebbe avuto la vita che le era da sempre stata destinata, quella della ragazza ricca e viziata che ottiene tutto semplicemente schioccando le dita. Già, era quella la vita che avrebbe dovuto vivere: e invece, era una ragazza ricca e viziata soltanto all’apparenza. Le cose che accadevano dentro casa sua da quando dopo la morte di sua madrezia Clarissa aveva deciso di prendersi cura di lei, erano tutto tranne che normali.
La madre di Eva, Amalia, era morta quando Eva aveva dieci anni. La mamma era sempre stata una donna distinta ed elegante, una principessa: l’aveva abituata sin da piccola a tutti gli agi e i lussi che la loro condizione economica permettevaed Eva aveva avuto un’infanzia oltremodo perfetta. Suo padre era diverso da sua madre: un uomo mite, non eccessivamente attaccato al denaro, per niente snob, eppure con un’eredità enorme. La famiglia di suo padre era sempre stata tra le più ricche delle cittàe alla prematura morte del nonno, suo padre aveva ereditato aziende, cantieri e chi più ne hapiù ne metta. Vivevano in una sontuosa villa  situata a Corso Vittorio Emanuele, la più grande del quartiere, e mentre suo padre cercava di destreggiarsi tra gli impegni lavorativi che gli erano piombati addosso, lei e sua madre vivevano nel lusso più assoluto.
La morte di Amalia era giunta all’improvviso, con un infarto fulminante. Suo padre, che l’aveva amata moltissimo, delegò ai propri fratelli i pesi di lavoro e si rinchiuse in casa con sua figlia, in una bolla di dolore. Suo padre era sempre stato un uomo fragile e di grande sensibilità: Eva, seppure fosse ancora una bambina, iniziava a preoccuparsi e a credere che suo padre non si sarebbe mai più ripreso. Questo l’avrebbe inevitabilmente portata ad una devastante solitudine.
Dopo due mesi dalla morte della madre, però, arrivò a casa loro la zia Clarissa.
Eva l’aveva vista forse due o tre voltenelle grandi feste di famigliae non le era mai stata molto simpatica, forse per colpa della determinante incompatibilità dei loro caratteri. La zia Clarissa era la sorella minore della sua defunta madre, era una donna energica, simpatica, allegra, in una sola parola, folle. Eva al contrario era chiusa, introversa, scontrosa, per niente amichevole, e come tale odiava tutte le persone che sprizzavano allegria da tutti i pori. La zia Clarissa arrivò il 21 marzo, al posto della primavera: era un marzo freddo e piovoso, ed Eva ricordava ancora il ticchettio dei suoi passi nell’androne di casae la sua voce squillante che riempiva l’ambiante. Aveva un vestito verde, elegante e sontuoso, e un’altrettanto elegante acconciatura ornava i suoi ricci biondi. La zia Clarissa non era sposata, a detta sua per scelta: diceva che il matrimonio vincolava l’animo dalla sua libertà di espandersi da un lato all’altro della propria immensità, e che il vero amore non aveva mai bussato alla sua porta. La zia Clarissa, sebbene sembrava sempre essere uscita da un uovo di Pasqua, era realista: non credeva che il vero amore fosse destinato a tutti. Di certo, questo esisteva: aveva avuto modo di constatarlo osservando i propri genitori ( i nonni materni di Eva), che sebbene molto anziani erano ancora innamorati come il primo giorno, e con la propria sorella, che anche se morta, aveva vissuto un lungo e gioioso amore.
Ma a lei, proprio non era accaduto: questo però non la faceva soffrire, in quanto riteneva la sua vita comunque piena di amore e di impegno verso il prossimo.
Clarissa disse che non aveva intenzione di andare via almeno fin quandole cose non le sarebbero sembrate abbastanza solide da andare avanti da sole. In quel momento Eva non capì quelle parole, ma ci sarebbe stato tempo per poter riflettere su esse. Clarissa si presentò come la salvatrice della famiglia: era giunta per far riprendere il cognato dalla sua depressione e per accudire la sua adorata nipotina. Eva dovette lentamente farsi diventare simpatica la zia Clarissa, anche se sembrava vivere in un universo parallelo: le raccontava continuamente fiabe fantastiche e surreali, vestiva in modo stravagante e con lei non c’era mai la quiete.
Per i primi mesi, però, suo padre non mostrò segni di ripresa: ogni giorno la zia Clarissa passava qualche ora con lui, cercando di psicanalizzarlo e di rendergli il fardello meno pesante. La zia era laureata in psicologia, ma non lavorava: anche questa era una scelta. Provenendo da una famiglia molto ricca, non aveva bisogno di lavorare per vivere e aveva scelto di tenere per se quella sua innata facoltà di allietare la vita delle persone con l’arte della parola e di usarla solo con chi le faceva più comodo. Come ad esempio, suo padre.
Un giorno, dopo che furono passati cinque mesi, suo padre uscì di casa insieme alla zia Clarissae quando ritornò era un altro uomo: di nuovo allegro, di nuovo poetico, di nuovo suo padre.
Eva non riuscì a capire cosa fosse accaduto. Chiese spiegazioni alla zia Clarissa, la quale le disse che suo padre aveva finalmente trovato la vocazione della sua vita e che adesso non l’avrebbe più visto né depresso e né tanto meno chiuso in un ufficio a trafficare con le inutili imprese di famiglia. Eva non seppe decidere se la zia Clarissa aveva fatto un miracolo o un disastro.
“Hai cambiato lavoro, papà?” chiese, dopo il discorso con la zia. Lui la prese tra le braccia, le baciò le guance e sorridendo rispose: “Beh, diciamo di si. E adesso molte cose cambieranno, piccola mia”.
E le cose cambiarono sul serio.
Da quel giorno, tutte le mattine suo padre e la zia Clarissa uscivano di casa alle nove e ritornavano alle cinque in punto, sempre allegri e pimpanti, e nessuno spiegò mai ad Eva per i successivi sei anni quanto stava succedendo. Per i primi mesi Eva pensò che la zia Clarissa avesse seriamente fatto del bene a suo padre, in quanto lo vedeva non solo felice, ma anche molto più contento di uscire al mattino per andare a lavoro: mai negli anni precedenti l’aveva visto più entusiasta. La vita di Eva nonostante ciò non aveva subito drastici cambiamenti: poteva sempre avere tutto quello che voleva, vivere con le sue solite abitudini e invitare le amiche a casa. Rispetto a prima, passava meno tempo con la zia Clarissa, ma questo le parve un bene: liberarsi di quella vocina fastidiosa che le raccontava in continuazione storielle e fiabe era stato un bene per la sua emicrania.
Poi iniziò a chiedersi di cosa trattasse quel famoso nuovo lavoro di suo padre.
Iniziava a crescere, e nei discorsi con le sue amiche spesso capitava al centro la domanda sul lavoro dei propri genitori. Poiché tutti sapevano che Eva aveva perso la madre, cercavano di evitare discorsi in cui c’entrasse la figura materna e si concentravano dunque su quella paterna. Eva mentiva, dicendo che suo padre era il capo dell’azienda di famiglia, come era stato per dieci anni. In realtà, a quella domanda Eva non conosceva risposta.
Di che cosa si occupava adesso suo padre?
Fu ben sei anni dopo che scoprì la risposta. E quando la conobbe, rimpianse i tempi della sua curiosità, desiderò non aver saputo mai niente, di esserne sempre rimasta all’oscurocosì da vivere la sua vita normalmente.
Se non fosse venuta al corrente della situazione, lei ora non starebbe salendo le scale della sua casa per andare ad occupare una delle sue camere.
Si era ripetuta mille volte che era tutta una follia, tutto un sogno, tutto uno stupido scherzo di quella folle della zia Clarissa, eppure era un incubo che non aveva mai termine. Aveva tentato di parlare con suo padre, di dirgli di tirarsi fuori da quel mondo di svitati, ma lui non l’aveva ascoltata. Anzi, le aveva detto che avrebbe dovuto aprire la sua anima e non richiudersi in un ordine e in una realtà che non significavano niente.
Questa era adesso la vita di Eva.
Una folle quotidianità ben nascosta.
 
 

 
 
Bianca si specchiò sorridendo, si passò una mano fra i capelli e poi tornò a guardare fuori dal finestrino con aria eccitata, fin quando, qualche secondo dopo, era di nuovo a specchiarsi.

  • Vuoi smetterla? Sei bellissima- buttò fuori Stefano, al suo fianco.
  • Non essere ridicolo. Questa è la mia serata, ed io non devo solo essere bellissima. Devo essere unica-
Bianca ammonì il fratello maggiore con un’occhiata truce, Stefano rispose sorridendo.
  • “La tua serata”… come se tutte le serate non fossero le tue!- disse alzando le spalle.
Bianca lo guardò un po’ interdetta, con un’espressione quasi delusa.
  • Che vuoi dire?- gli chiese.
Stefano si stupì così tanto del tono della sorella che la guardò per un attimo con occhio smarrito per poi ritornare a fissare la strada dinanzi a se inespressivo.
  • Beh, voglio dire che, insomma, hai sempre avuto tutto quello che volevi, e invece ti comporti come se questa fosse l’unica volta che diamo una festa in tuo onore, l’unica in cui ti vesti così elegante, insomma, capisci cosa intendo?-
  • Ma oggi mi sono diplomata!- esclamò Bianca portandosi una mano al petto, quasi offesa.
  • Si, lo so. Ma la festa per il tuo diciottesimo compleanno non è stata forse molto più stratosferica di questa? Non sei sempre stata riempita di attenzioni?-
Bianca si sentì in colpa per le parole del fratello. Non c’aveva mai pensato fino a quel momento, ma era inevitabilmente vero. Sebbene non fossero miliardari, mamma e papà non le avevano mai fatto mancare niente e l’avevano sempre trattata come la principessa della casa. A differenza di Stefano, che chissà per quale miracolo della natura, raggiunta una certa età dell’adolescenza aveva iniziato ad essere talmente maturo da iniziare a pensare con la sua testa, lei aveva seguito la scia lasciata dalla sua infanzia riuscendo a diventare con gli anni sempre più viziata. La festa che aveva organizzato quella sera, per festeggiare il suo diploma, era solo una delle miriadi di feste che i suoi le avevano permesso di organizzare. Quello che aveva indosso era forse il ventesimo abito che la mamma le aveva permesso di comprare nonostante nel suo armadio ci fossero abiti ugualmente belli e mai indossati.
In un secondo la maturità le crollò addosso.
Si sentì una bambina viziata da assecondare, un peso da sostenere. E la cosa più bella era che mamma e papà non si erano mai lamentati delle sue richieste, sebbene alcune – ora lo riconosceva- fossero davvero assurde. Come aveva potuto pensare, quella mattina davanti al suo caffè, di aver raggiunto davvero la maturità? Il percorso era appena cominciato, nato da quella consapevolezza che Stefano aveva destato in lei.

  • Tu pensi che io sia stupida?- chiese poi, con un’espressione nella voce del tutto nuova.
Stefano, colpito da quel tono, le rivolse un altro sguardo colpito, poi alzò le spalle.
  • Certo che no. Non sei stupida-
  • E perché mi comporto così? Santo Cielo, non riesco a crederci-
Bianca si portò una mano alla fronte, si lasciò cadere all’indietro sul sediolino dell’auto scuotendo la testa.
  • Ehi, Bianca, ma che ti prende? Suvvia, smettila-
Smetterla? Oh no, aveva appena cominciato. Tutto era appena cominciato. Eppure lei non si era mai ritenuta una stupida, una frivola, una sciocca. Lei non lo era. Faceva molti ragionamenti, si interessava di letteratura, di arte, di fisica. Non era una stupida. Non lo era, vero?
L’incubo di poter essere quello che lei aveva sempre odiato la mandava fuori di testa. Si osservò da capo a piedi riuscendo solo a provare disgusto per se stessa. Indossava un costosissimo vestito in raso nero, arricciato sul petto e liscio e sinuoso sui fianchi e sulle gambe; un paio di scarpe nere e scintillanti che completavano l’opera. I capelli, ricci e biondi, scendevano inanellandosi tra loro sulle spalle mentre il viso era artisticamente truccato.
Solo qualche minuto prima, quando si guardava allo specchio, si piaceva un sacco. Adesso sentiva di aver esagerato, aveva esagerato nella sua vita, nella sua festa, nel suo trucco. Avrebbe dovuto essere più parsimoniosa, come lo era Stefano. Lui si che si era reso conto di doversi prendere le sue responsabilità, lui si che era cresciuto.
Lei invece credeva di aver raggiunto la maturità dinanzi ad un caffè.
Oh, era davvero una stupida, ora se ne rendeva conto. Ma se la consapevolezza in situazioni come queste poteva condurre davvero alla follia, Bianca non si lasciò andare fuori di testa. Capì che la consapevolezza era il punto di partenza per una nuova vita.
La sua nuova vita.
Adesso non era più una liceale, e questo era quanto di più importante le fosse successo negli ultimi giorni e quanto di più utile le si proponeva per il raggiungimento del suo scopo. Avrebbe imparato a non chiedere troppo ai suoi, a prendersi cura meglio delle sue cose, a crearsi una vera personalità. Avrebbe smesso di essere la solita svampita, avrebbe smesso di fare una marea di cose che prima credeva fondamentali.

  • Non fare quella faccia- mormorò dopo un attimo Stefano, preoccupato dall’espressione di Bianca, - c’è tempo per crescere nella vita, e sei ancora molto giovane. Per stasera goditi la tua festa, poi si vedrà-
Stefano parcheggiò la macchina dinanzi al ristorante.
Poi si vedrà? Le aveva appena fatto sorgere dai meandri dell’inconscio la consapevolezza che era una viziata ed irresponsabile adolescente e tutto quello che sapeva dire adesso era “poi si vedrà”? No, non c’era niente da vedere in seguito. Sarebbe iniziato tutto quella sera, quella sera stessa.
Stefano scese dalla macchina e si avviò verso la sua portiera per aiutarla a scendere, ma Bianca fu più svelta di lui: in batter d’occhio fu fuori dall’auto e fissava con occhi malinconici l’entrata della lussuosa villa che aveva scelto per quell’occasione.
Tra pochi secondi avrebbe fatto il suo ingresso nella Bertolini’s Hall e si sarebbe trovata davanti tutta la sua famiglia e i più stretti amici che sorridenti le avrebbero augurato un futuro luminoso. Ma come avrebbe potuto lei divertirsi tra tutto quel lusso quando si sentiva tremendamente vuota? Se pensava ai giorni precedenti le veniva in mente con quanto fervore tra una pagina di latino ed una di greco aveva immaginato l’ingresso alla sua festa. Nella sua mente quell’entrata avrebbe rappresentato, insieme al caffè amaro di quella mattina, la vera entrata in società, il vero inizio della sua vita.
In realtà stava solo riempiendo la sua esistenza di fronzoli senza riuscire più a trovare se stessa.
Sentì quasi un colpo al cuore quando quei pensieri le attanagliarono il cervello.

  • Ehi, vogliamo andare?-
Stefano la riportò con i piedi per terra, dandole un leggero buffetto sul braccio.
Bianca si ridestò, finse un sorriso.

  • Si, certamente-
Così, accompagnata dal fratello, fece il suo ingresso nel lussuoso ristorante, respirando sempre più a fondo ad ogni passo che faceva.
  • Sai, credo che tu abbia ragione su di me- disse a Stefano un attimo prima di entrare in sala.
  • Ci stai ancora pensando? Dai, non farne un dramma!-
  • Invece lo è, è un vero dramma. Hai ragione a dire che ottengo sempre tutto quello che voglio senza rendermi conto che le cose che voglio sono davvero futili. È l’ennesima festa che do in mio onore, mi sento davvero egocentrica…-
  • Ma tu sei egocentrica, tesoro- la prese in giro il fratello, sorridendo.
Bianca lo guardò supplichevole.
  • Credevo che oggi sarebbe iniziata la mia maturità, ma in realtà non so più chi sono. Mi nascondo tra le feste, i vestiti, gli amici, i sogni che ho per una vita di gloria. Ma non so nemmeno chi sono io e cosa voglio davvero-
Gli occhi le si fecero lucidi, Stefano la prese per le spalle.
  • Ma che fai, piangi? Santo Cielo, piange! Ti è dato di volta il cervello per caso? Sei una persona molto positiva, Bianca, e forse si, un po’ egocentrica, ma sei lo stesso una ragazza fantastica. Avanti, smettila di piangere ed entriamo, ti stanno aspettando tutti!-
Stefano le passò le dita sul viso per asciugare le poche lacrime cadute, Bianca abbozzò un sorriso.
  • Okay, va bene-
  • Ecco, così mi piaci. E adesso entriamo-
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
La sensazione che provò fu quella di affogare in un melmoso lago dimenticato da Dio e dall’uomo mentre un mostro a tre teste ti prende per le braccia e per i fianchi e inizia a morderti.
La gola le bruciava per quanti “grazie” aveva detto e lo stomaco si chiudeva sempre di più ad ogni pietanza che veniva portata. E pensare che era stata lei stessa a scegliere il menù. La sua migliore amica Cleo aveva organizzato un regalo fantastico che sarebbe entrato in sala a mezzanotte spaccata, ma Bianca iniziò a pensare di non voler nessun regalo.
Quando iniziò a temere di soffocare sul serio, si alzò dal tavolo scusandosi, dicendo di essere diretta in bagno, e uscì in punta di piedi dal ristorante.
Appena si fu allontanata dalla musica e dal rumore di quella sala, iniziò a sentire di nuovo i polmoni pieni di ossigeno e sentì il sangue affluire di nuovo al viso e alle mani, che fino ad un secondo prima erano state pallide.
L’aria fresca ed umida che le arrivò in faccia contribuì a farla sentire meglio.
Il panorama del corso Vittorio Emanuele catturò gli occhi di Bianca, che fissò il Vesuvio e poi il mare, dentro il quale si specchiava tutta la città. Le miriadi di luci che vedeva luminose dai pendii del vulcano erano di tutti i colori, - rosse, gialle, verdi,- e vedeva, in lontananza, le autovetture che si muovevano sulle strade distanti. Si spostò a fissare il mare ammirando i riflessi bianchi della luna e una nave in lontananza, diretta chissà dove. Era incredibile vedere la città immersa in una luminaria così viva e non riuscire a scorgere neanche un rumore.
Bianca incrociò le braccia e fece qualche passo verso il ciglio per marciapiede. Era un sollievo essere lontana da quel caos che lei stessa aveva creato, eppure le dispiaceva non poter essere felice come sua madre, suo padre, Cleo e tutti gli altri amici che erano venuti per festeggiare. Non avrebbe mai creduto di poter andare incontro a tanti ragionamenti e tante convinzioni nella stessa giornata. Stava succedendo tutto troppo in fretta.
Mentre ancora pensava a queste cose, una lunga e lussuosa macchina nera si fermò a qualche metro da lei, facendo rombare il motore. Bianca non poté fare a meno che voltarsi in direzione della portiera che si stava aprendo, e non poté fare a meno di meravigliarsi.
La fanciulla che quella stessa mattina al bar l’aveva fatta ridere con l’assurda storia del principe scese elegantemente dall’auto indossando un vestito nero e lucente. Aveva i lunghi capelli rossi raccolti sulla nuca lasciando cadere sul viso alcuni boccoli, sorrideva beata come quella mattina e teneva sull’avambraccio destro lo strascico del lungo vestito. Chiuse con un gesto deciso la portiera dell’auto e questa ripartì senza esitazione lasciando la ragazza lì davanti.
Bastò un’occhiata, una semplice occhiata, e la ragazza esclamò:

  • Ciao! Oh ciao, ti ricordi di me?-
Bianca fu invasa da un’incrollabile sentimento di allegria.
  • Oh si, certo. Eri al bar questa mattina, su al Vomero-
  • Si, esatto! Che bel vestito che hai! Vai ad una festa? Oh, scusami, che sciocca: la festa è la tua-
La ragazza rise sotto i baffi, Bianca la guardò incuriosita.
Tutto il discorso di quella mattina, compreso il suo augurio, le ritornò alla mente come un flash.

  • Oh si, ma… come fai a saperlo?-
  • Sapere cosa?-
  • Che la festa è la mia, cioè, che do una festa. E che stamattina avevo l’esame di stato. Tu mi hai augurato in bocca al lupo quando sono uscita dal bar, ma non potevi sapere che avevo un esame. O forse lo sapevi? Ci siamo già incontrate forse?-
Era partita in quarta, domandava cose una dopo l’altra senza riuscire a fermarsi.
La giovane rise.

  • Beh, ho notato la tua borsa con i libri e la tua espressione ansiosa. Siamo a luglio ed è impossibile che stessi frequentando ancora la scuola, dunque avevi un esame. Mi sembravi tanto preoccupata! È andato tutto bene, vero? Oh certo, ma che domande: non staresti festeggiando se non fosse così-
Bianca osservò il suo sorriso luminoso ed allegro, i suoi occhi vispi guardarla con dolcezza e curiosità.
  • Si, è andato tutto bene, - rispose, stranamente imbarazzata, - per fortuna è andato tutto bene. Ma come sai che sto dando una festa?-
  • Non la stai forse dando?-
  • Si ma…-
  • Hai un fantastico vestito-
  • Grazie, anche tu. Dov’è che vai?-
  • Oh, anche io ho una sottospecie di feste. Ma non una festa per il diploma-
  • Una festa di compleanno?-
  • Mmh, una specie. Sono molto emozionata! Non partecipo a molte feste-
Bianca avrebbe voluto dire lo stesso, ma avrebbe mentito. La ragazza le si avvicinò di qualche passo porgendole la mano.
  • Io mi chiamo Lara -  disse, ammorbidendo ancora di più la voce.
Bianca guardò la bianca mano che Lara le porgeva, poi decisa la strinse.
  • E io Bianca. Piacere di conoscerti-
  • Il piacere è tutto mio-
Lara abbozzò un inchino, poi rise.
  • L’hai trovato poi il tuo principe?- chiese dopo un attimo.
Lara parve pensarci un secondo su, poi sorrise.
  • Oh si, certo. Era andato a fare semplicemente una passeggiata, ma aveva dimenticato di avvertirmi. E’ un po’ sbadato!-
Bianca sorrise, poi riprese:
  • È il tuo ragazzo?-
  • Chi?-
  • Questo… principe-
  • Oh no, no. No, lui non è il mio ragazzo. Ma siamo amici-
A Bianca veniva da ridere. Aveva l’impressione che qualsiasi cosa dicesse fosse divertente, surreale, impossibile.
  • Oh, capisco. Quanto tempo restate a Napoli?-
Lara sorrise.
  • Un bel po’-
  • Siete in vacanza?-
  • Mmh, non proprio-
  • A casa di amici?-
  • Parenti-
Lara rise, poi abbassò lo sguardo.
  • Adesso devo andare o farò tardi. Ci rivediamo, Bianca-
  • Già, si. Perché no-
  • È stato un piacere incontrarti-
  • Anche per me-
Lara le si avvicinò e le tese la mano. Bianca la strinse sorridendo, poi guardò Lara allontanarsi sul marciapiede lentamente.
Sospirò mentre osservava la sua figura allontanarsi, rimase a fissarla per qualche secondo sentendo la gioia scivolarle attraverso il vestito.
Abbassò lo sguardo e poi diede un’occhiata dietro di se, come se avesse paura che sopraggiungesse qualcuno a chiamarla.
Quando si voltò di nuovo verso Lara, lei non c’era più.
  
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