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Autore: ryuzaki eru    29/07/2011    3 recensioni
Una città deserta, strade desolate e arroventate da un sole implacabile, imposte chiuse, serrande abbassate. Una città ad Agosto. E poi… La pioggia. Tanta pioggia…
Lui. Intravisto un’unica volta, nella penombra di quella casa, mollemente addormentato, disarmato oltre una porta lasciata distrattamente aperta. Una porta che però, da allora, era rimasta sempre chiusa…
E poi… Tac. Tac. Tac. La pioggia batteva violenta e veloce sull’asfalto…(…)
… Era alto. Il cappuccio gocciolante di una felpa di un grigio sbiadito gli aderiva al capo, accentuandone la morbida curva, la pioggia dal tessuto gli scivolava sul viso. Occhi scurissimi ed impercettibilmente affaticati. La guardava, col mento reclinato verso il basso, verso di lei…
Bellissimo.
Era lui.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Allora, inizialmente qui c'erano scritte un po' di cose...
Ma adesso voglio dire soltanto questo: questa fu la prima cosa che pubblicai su EFP e non mi resi conto che i miei standard di "racconto" fossero decisamente diversi da quelli canonici... In sintesi, questa one-shot è veramente lunghissima 0_o Dato che però ormai sarebbe molto scorretto suddividerla in capitoli e ripubblicarla a scadenza regolare come fosse una fic nuova, posso solo mettere le mani avanti e dire che se la vorrai leggere ti conviene affrontarla come fosse una storia multicapitolo breve (internamente l'ho suddivisa appositamente con questo fine, per dare uno stacco ideale dei possibili capitoli) ^_^
Grazie di essere qui!


Loro sono i miei personaggi, così come li ho immaginati io... Mi sono divertita moltissimo a disegnarli ed a giocare con photoshop in queste giornate torride ^^,


 

Sabato 20 agosto…Piove

 
 
Volare agili e leggeri dentro la città, all’ombra dei palazzi. Seguire dall’alto il tracciato delle strade deserte e voltare sospesi gli angoli degli edifici.
Giungere nelle piazze assolate dove poter ascoltare solo le cicale insistenti e lo scorrere dell’acqua delle spopolate fontanelle.
Poi risalire verso un cielo tanto luminoso da scorgerne appena il tenue celeste, ormai diffuso e sbiadito in un bianco chiarore, simile a quello degli stralci immobili delle nuvole. E volare allora sopra la città e riguardare quelle case, improvvisamente piccole e remote e vedere lontane nubi, dense e grigie e voler ritornare giù e vivere…
E allora riscendere velocemente, in picchiata, e soffermarsi di nuovo, costeggiando le serrande abbassate dei negozi, argentee e arroventate da un sole ancora implacabile.
Scrutare le imposte chiuse di abitazioni buie, silenziose e solitarie, che attendono di riaccogliere fra qualche giorno chi ora le ha dimenticate e con la pelle umida ed insabbiata chiacchiera animatamente,  scegliendo un gelato con le mani poggiate sul vetro di un congelatore, circondato da tante altre voci squillanti, dalla  musica e dal continuo rumore di tazzine, cucchiaini e piattini.
Continuare a volare nel pacifico silenzio cittadino scrutando le finestre e scorgerne una socchiusa… avvicinarsi, sbirciare e decidere di entrare, come un piccolo insetto…
Nella tiepida e muta penombra della stanza una ragazza apparentemente giovanissima sta dormendo abbandonata. Il chiaro colore delle lenzuola assume il tenue verdognolo della tenda che filtra la scarsa luce del sole penetrata dallo spiraglio delle imposte accostate. Un cellulare è buttato sul cuscino accanto a lei.
Il leggero brusio di un ventilatore ai piedi del letto ed il tic tac di un rotondo orologio da parete coprono il respiro lento e leggero del sonno.
I suoi capelli sono scuri, corti e sottili. È minuta, sembra una bambina, una bambina vivace. Ma il suo copro è femmineo e sinuoso. La pelle è leggermente abbronzata e delicatamente profumata del latte rinfrescante dopo sole.
A terra è abbandonata una leggera borsa di tessuto semiaperta ed un grande asciugamano colorato è ammucchiato sul davanzale della finestra, alcuni vestiti sono appoggiati disordinatamente su una sedia davanti ad una scrivania nascosta da libri aperti, fotocopie, fogli scritti e residui di gomma da cancellare. Dal bagno si sente il lieve gocciolare di un costume appeso alla cipolla di una doccia ancora bagnata e spolverata da rari granelli di sabbia.
Lei deve essere appena tornata dal mare. Quel mare giornaliero vicino alla grande città, raggiungibile in poco tempo con il treno e frequentato da chi non è ancora andato in vacanza o non ci andrà.
È un po’ presto però per essere già rincasati dal mare, non sono nemmeno le tre del pomeriggio ed è sabato 20 Agosto… Aspettare…
 
Un brivido le corse sulla schiena e si svegliò, ritrovandosi raggomitolata sotto le lenzuola, in una stanza più buia di quanto dovesse. Ruotò inquieta lo sguardo verso l’orologio appeso alla parete, erano quasi le cinque e mezza. Per un pelo non aveva fatto troppo tardi. Allora si sollevò e gattonando stordita sul letto arrivò a spegnere il ventilatore, mentre un tuono rimbombava all’esterno. Scese pigramente ed a piedi nudi raggiunse la leggera tenda, la scostò, poggiò l’asciugamano ammonticchiato a terra ed aprì la finestra. Il tempo era decisamente e velocemente cambiato. Ora il cielo era scuro, carico della pioggia di un prossimo acquazzone estivo ed un vento fresco indisciplinato faceva svolazzare le cartacce gettate in strada. Respirò l’aria finalmente leggera.
Quella vita era spossante, ma inevitabile. Si era regalata una mezza giornata di mare solo svegliandosi presto al mattino, dormendo poche ore. E ora doveva di nuovo uscire e sarebbe tornata a notte fonda. Osservò la scrivania. Perché si impegnava ancora, cercando di aggiungere faticosamente altri titoli ad una laurea che le aveva fornito solo una qualifica da sbandierare sui volantini in cui offriva ripetizioni a domicilio? In fondo, non ne poteva più, lo sapeva…
Si scosse ed andò in bagno, sempre a piedi nudi, e si sciacquò il viso, tentando di scacciare quel torpore che ancora si sentiva addosso, si lavò i denti. Si infilò un paio di comodi shorts di jeans e cercò una canottiera pulita in mezzo all’ultimo bucato asciutto accumulato su una poltroncina.
L’aria si era rinfrescata, ma al lavoro avrebbe sentito probabilmente caldo, tra le piastre e la friggitrice della cucina, il correre per servire panini e alcolici o lo spinare birre e preparare drink dietro un bancone surriscaldato dai motori dei frigoriferi. Si mise i calzini e recuperò le scarpe da ginnastica sparse spaiate per la stanza. Afferrò la borsa che stava per terra, la svuotò dalle creme solari e ci buttò dentro lo spazzolino, un libro che prese dallo scaffale, un altro che stava a terra, aperto affianco al letto, ed il mascara, che avrebbe messo dopo, tanto per avere un aspetto meno infantile e non avendo mai la velleità, il tempo e la pazienza di realizzare un trucco anche solo minimamente più elaborato. Quindi uscì di casa. Rimase un istante a pensare, ferma davanti alla porta chiusa. Quindi cercò nella borsa, ritirò fuori le chiavi e riaprì, corse rapidamente in camera, chiuse le imposte e tra i vestiti ammucchiati sulla sedia sfilò una felpa grigia di cotone leggerissimo. A terra cadde una scatola di preservativi… Quel celenterato aveva fatto una faccia da ebete quando lei l’aveva tirata fuori, ma poi la cosa lo aveva intrigato, perché una donna che comprava i profilattici doveva essere per forza una pantera, a letto… Ovvio no?! Be’ perlomeno il suo cervello aveva già traslocato altrove quando erano entrati in casa, altrimenti avrebbe inorridito di fronte alle condizioni di quell’habitat per nulla femminile! Le scappò un sorriso divertito, osservando il suo aspetto in quel momento… L’aveva notata perché lei si era faticosamente “aggiustata” prima del matrimonio in cui l’aveva incontrato: trucco perfetto, smalto, tacchi, tubino semplice, ma ben modellato sul corpo, pochette… Il risultato erano stati l’accorata preghiera di non ricevere partecipazioni ad un matrimonio almeno per i successivi cinque anni ed un tipo niente male sotto le lenzuola. Compromesso accettabile. Ridendo uscì di nuovo.
Ad ogni modo il chiudere la finestra e l’arraffare una felpa furono le uniche accortezze che prese davanti alla possibile pioggia. 
Come sempre in quel periodo gli autobus infliggevano sconfinati tempi di attesa, ma del resto la città era quasi deserta. Tirò fuori il libro dalla borsa e cominciò a sfogliarlo, per decidere cosa avrebbe spiegato a Lorenzo nelle successive due ore di lezione. Riportò alla mente le ultime equazioni che gli aveva fatto fare ed inevitabilmente i suoi pensieri divagarono. Le ultime lezioni in quella casa… Sentì subito una lieve stretta alla bocca dello stomaco e sospirò molto lentamente.
C’era sempre qualcosa nella sua mente che in quei torridi pomeriggi estivi la incoraggiava a sfidare l’arsura dell’asfalto e a raggiungere quella casa, con uno strano ed impercettibile languore che cercava di nascondere anche a se stessa…
Quella grande casa disordinata, non molto curata, ma bella… Quella casa osservata in estate, sempre nella penombra delle imposte socchiuse, al riparo da un sole incalzante e libero di invaderla  al centro di un verde giardino… Quella casa calda e vissuta senza attenzioni e apparenze, piena di tutti i dettagli che aiutano uno sconosciuto a ricostruire la semplice e intima quotidianità di chi la abita… Quella casa così carica di ogni momento dove quel ragazzino sedicenne le era sembrato solo al mondo… Sembrava non ci fossero orari, mai. Non un accenno ai genitori. Non una telefonata. Non un impegno di vita familiare. Sempre soltanto Lorenzo…Finché…
 
La prima volta che lo aveva visto lui era quasi al buio. Un pacchetto di sigarette aperto sul comodino, insieme a tanti libri. Uno era a terra, aperto affianco al letto, vicino ad una scarpa da ginnastica, solitaria. E poi c’era lui. Mollemente addormentato nell’ombra della camera, scompostamente disteso sul letto, supino, un piede oltre il fondo e l’altra gamba penzoloni su un lato, avvolta da un paio di morbidi jeans sciupati all’orlo. La testa abbandonata da una parte arrivava a lambire appena un angolo del cuscino. Le labbra erano socchiuse. Aveva l’aspetto di chi si fosse poggiato solo un attimo, per riposare gli occhi. Ma la t-shirt bianca che indossava si sollevava sul petto al ritmo del suo respiro lento, profondo e regolare… Non aveva potuto vederlo bene in viso, ma… era alto, involontariamente seducente e languidamente indifeso…
Poi però lei aveva girato lo sguardo dall’altra parte ed aveva cominciato a fissare il pavimento del corridoio, senza tuttavia osservarlo davvero, immobile davanti a quella porta lasciata distrattamente aperta… Così aveva scosso la testa per scacciare qualcosa dalla sua mente ed aveva proseguito verso il bagno, prestando attenzione a non fare rumore. Poi, ripassando davanti a quella camera per raggiungere le scale ed il salone dove Lorenzo la aspettava, non aveva guardato. Si era sentita a disagio per aver invaso quel ragazzo sconosciuto, per aver indugiato…
«Anna… Qui non torna un cavolo!» Aveva quasi gridato Lorenzo vedendola ritornare.
«Non avevo dubbi… Però non urlare così… Mi è sembrato che qualcuno dormisse al piano di sopra…» Aveva risposto Anna, discretamente, senza accennare ad altro.
«Ah… Dorme…» Lorenzo si era alzato e si era diretto verso il piano di sopra.
Quando era ritornato, aveva il volto rabbuiato e dispiaciuto.
«Gli ho chiuso la porta ora, così non lo disturbiamo… È distrutto.» Aveva detto guardando serio Anna.
Lei aveva istintivamente abbassato lo sguardo, come una ragazzina, ed aveva quasi sussurrato «Già…».
Tutta la sua grinta, il suo essere forte, determinata e diretta si era dissolto, solo ripensando a quel suo sciocco indugiare.
«Accidenti a me… Fammi vedere dove diamine ho sbagliato questa volta…» Aveva continuato Lorenzo, mortificato. Mortificato per una equazione di secondo grado irrisolta... No. Non le aveva detto chi era quel ragazzo, non lo aveva neppure nominato.
 
Dopo quel giorno le era capitato di fare lezione fino alle nove e mezza di sera, perché aveva il giorno libero dal lavoro al locale. Nessuna tavola apparecchiata, nessuno era rientrato, solo lei e Lorenzo, come sempre. Poi, poco prima che finisse la lezione, la serratura della porta di casa era scattata ed era entrato qualcuno. Era entrato lui. Lorenzo era concentrato a risolvere alcuni esercizi. Dal salone si scorgeva appena la porta d’ingresso. Aveva intuito i suoi movimenti, semplicemente ascoltando. Lo aveva sentito sfilare le chiavi tintinnanti dalla toppa e poi nulla… Era fermo sull’uscio. Si era accorto di loro? Forse non si era immaginato di trovarli ancora lì…Magari era infastidito… Anna si sentiva un’intrusa ora, sempre per colpa di quel suo segreto indugiare... No, non era così. Lui aveva delicatamente chiuso la porta, con attenzione, e senza disturbare aveva proseguito verso le scale, aveva probabilmente poggiato a terra delle buste e stava iniziando a salire. Allora Lorenzo si era distratto.
«Puoi scusarmi solo un attimo?» Le aveva detto. Anna si era limitata ad annuire con noncuranza ed il ragazzino era andato di là, sparendo dalla sua vista.
«Ohi, ciao. Visto che sei tornato, mi potresti dare i soldi da dare ad Anna per la lezione di oggi…»
«Sì…» Una voce bassa. Un po’ di silenzio e poi «…Se non fossi arrivato come avresti fatto?»
Sì, una voce bassa, calda e stanca.
«Grazie… Glieli avrei dati la prossima volta. È già successo.» Aveva risposto Lorenzo, quasi impacciato nel ringraziare, ma sicuro e squillante dopo.
«Mhm… A lei va bene?» Aveva domandato quella voce giovane, ma rassicurante.
«Sì…» E poi, quasi sussurrando, Lorenzo aveva continuato «Non ti preoccupare, non la conosci, ma è molto tranquilla, molto simile a noi…» Anna però aveva sentito lo stesso. Col senno di poi aveva realizzato di essersi decisamente impegnata per riuscirci.
Lorenzo stava tornando.
«Lory, prendi le buste davanti all’ingresso e lasciale in cucina, più tardi le sistemiamo…» e poi lui era salito.
Lorenzo era passato davanti ad Anna con due grossi sacchetti della spesa ed aveva detto, quasi tra sé e sé «Ha preso pure il gelato, se non ci avessi guardato dentro sai che fine avrebbe fatto con questo caldo?»
«Si mischiano i gusti! Se hai una cannuccia è meglio, ma non fa così schifo, posso testimoniare… Avevo rosicato perché la vaschetta era piena ed ho voluto assaggiarlo lo stesso… Però poi l’ho dovuto buttare… Dopo la seconda volta che mi è capitato, non ho più comprato il gelato. Conosco i miei limiti inquietanti su queste cose…» Si era intromessa Anna.
Lorenzo aveva sorriso, mezzo divertito «Anche mio fratello conosce i suoi limiti, ma si ostina a provarci.»
“Mio fratello”. Dopo un mese Anna aveva saputo che “esisteva” una famiglia.  E lui era suo fratello maggiore. Facilmente intuibile. Dopo un mese.
«Be’, lui è più sano, almeno ci prova. E comunque ci sei anche tu, che infatti hai avuto l’accortezza di sbirciare nelle buste e di pensarci. In due è meglio… E magari lui un po’ci conta. Lo farei anch’io…» Aveva concluso Anna, abbassando lo sguardo mentre pronunciava l’ultima frase, fermandosi in tempo prima di aggiungere qualcosa del tipo “Lo farei anch’io, se volessi appoggiarmi a qualcuno…”. 
Quanto odiava se stessa quelle rarissime volte che si ritrovava a ragionare così. Quando si scopriva inavvertitamente a realizzare quante cose facesse da sola, senza mai chiedere nulla. Si odiava perché quella era la sua forza. Il cavarsela da sola era ciò che la rendeva quello che era. Quindi non accettava quell’autocompatimento pietoso quando, ad esempio, non riusciva ad aprire una bottiglietta di acqua minerale e nella sua testa viaggiava fulmineo un pensiero “Cacchio! Non c’è proprio nessuno che me la possa aprire, io non ci riesco!!”.
Odiava quel pensiero! Quindi si sforzava e, in barba a tutti quelli che la circondavano, finalmente la apriva. Senza chiedere aiuto, neppure per una cosa così tremendamente stupida, senza che nessuno si accorgesse che le serviva aiuto. E se anche qualcuno se ne fosse accorto, l’atteggiamento indipendente di lei avrebbe inibito il malcapitato dal darle una mano. Il più ardito si sarebbe sentito dire, con un sorriso divertito “No, ti ringrazio. Ce la posso fare ad aprire una bottiglietta d’acqua.”
Inavvicinabile.
 
Una volta aveva dovuto aspettare Lorenzo per pochi minuti, fuori dal cancelletto del giardino. Quando era arrivato, trafelato ed accaldato con le chiavi di casa in mano, le aveva detto «Scusami tanto! C’era la fila alla posta… Ma, se non avessi pagato oggi, sarebbe scattata la mora e Len mi avrebbe ucciso… ».
Len… Finalmente un nome. Un nome del cavolo, ma un nome. Era lui? Sì che era lui…
Ma lei, a sedici anni, aveva mai dovuto fare la fila alla posta per pagare una bolletta? Decisamente no… Ci pensava sua madre, sempre.
 
Soltanto il giorno prima gli aveva fatto lezione dalle due alle quattro.
Sul tavolo del giardino c’erano ancora una macchinetta del caffé, due bicchieri sporchi, un cucchiaino ed un pacco di biscotti vuoto e accartocciato. Più o meno la stessa scena che Anna aveva lasciato a casa sua chiudendo la porta d’ingresso.
Verso le tre lo stomaco di Lorenzo aveva gorgogliato ed Anna gli aveva detto sfacciatamente «Potremmo mangiare qualcosa! Tanto oggi è presto e non devo scappare come al solito! Fermiamoci un attimo, non ce la faccio più neanche io e poi ho una sete pazzesca!».
Quindi si era alzata e lui l’aveva preceduta rilassato in cucina. Mentre lui prendeva qualcosa in un frigo quasi vuoto, lei aveva aperto lo sportello sopra il lavello per cercare i bicchieri… Non ce n’erano. Forse avrebbe dovuto aspettarselo. Ciò che l’aveva portata ad essere così rilassata in quella casa era stata proprio la somiglianza con la sua. «I bicchieri?»
«In lavastoviglie. Ha finito di lavare, ma non l’ho ancora svuotata… In realtà non lo facciamo quasi  mai. Usiamo finché non è vuota, accumulando le cose sporche nel lavandino.» Aveva risposto Lorenzo sorridendo.
Anna non si era minimamente scomposta ed ascoltandolo aveva già aperto la lavastoviglie ed aveva recuperato un bicchiere pulito e l’aveva riempito d’acqua.
«Facciamo a metà col panino? È sicuramente buono. Len esagera a ragione quando si prepara il pranzo.»
«Mhm.» Mugugnò Anna, ingoiando l’acqua. «Quindi Len non mangerà, se noi ci ingurgitiamo il suo panino?!» Aveva poi scherzato, mentre sciacquava il bicchiere.
«No, questo è per me… Lui prepara sempre qualcosa anche per me, prima di andare al lavoro…»
Di nuovo quell’atteggiamento mortificato… Anna allora si era sbrigata a rispondere «E tu, a quanto pare, mandi la lavastoviglie. Ok allora. Io ho un pacco di biscotti in borsa, li ho arraffati al supermercato prima di venire qui, se no domani a colazione non mangio. Li apriamo dopo il panino.»
Quando Anna era andata via gli aveva lasciato tutta la confezione di biscotti.
«E la tua colazione di domani?» gli aveva detto Lorenzo.
«Scroccherò qualche  pasticcino di quelli che al locale diamo col caffé. Non sarà né la prima, né l’ultima volta che lo faccio. L’acquisto di oggi era stato inspiegabilmente previdente, in fondo. E poi domani sarò di nuovo qui e magari bissiamo questa storia della pausa» Aveva sorriso lei.
Non si poteva dire che Lorenzo non si impegnasse. Era evidente che durante l’anno aveva combinato poco o niente, ma ora ce la stava decisamente mettendo tutta. Anna diventava fredda solo quando aveva di fronte ragazzini strafottenti, nullafacenti e convinti che bastasse sborsare i soldi delle ore di lezione per risolvere le loro insufficienze, certi che il solo “esistere” di Anna in quelle ore li avrebbe risollevati. Ma Anna odiava essere così. Lo odiava perché si annoiava ad essere così.
 
E questo era tutto… Tutto quello che aveva saputo dopo la prima volta che lo aveva visto. Perché da allora la porta di quella camera era rimasta sempre chiusa.
Len… Ma cosa gliene fregava a lei di Len? Chi era Len? Solo un fratello maggiore con uno stupido nome straniero…Uno che rientrava raramente in casa, silenzioso e discreto. Uno di cui si scorgeva appena l’alta e dinoccolata figura salire le scale nella penombra della casa, di cui si sentivano i passi al piano di sopra, che entrava in bagno ed apriva la doccia. Uno che sembrava provvedere al fratello più piccolo, discretamente. Uno che gli preparava anche il pranzo… Questo era niente… Ma allora perché si sentiva così strana e continuava a pensarci… Quanto era stupida!!!
 
Il vento sfogliò le pagine ed Anna sentì un brivido di freddo e fu distolta dai suoi pensieri.
Finalmente arrivò l’autobus. Era vuoto. Che desolazione. Le strade sgombre, le fermate quasi deserte. Il cielo sempre più grigio. E poi… tac… una grossa goccia di pioggia si allargò sul vetro. Tac… tac… tac… Velocemente le gocce si moltiplicarono.
Diluviava.
Tirò fuori l’altro libro dalla borsa, sprofondò agilmente sul sedile e si mise a leggere. L’ultimo romanzo di Mc Ewan. Affascinante…
Quando alzò gli occhi per controllare dove si trovasse, diluviava ancora.
Si alzò, suonò il pulsante per prenotare la chiamata e si infilò la felpina grigia. Quando le porte si aprirono sollevò il cappuccio sulla testa e scese, investita da un’aria fresca e da tanta acqua. Cominciò a correre. Dopo poco si fermò sotto la pensilina di un distributore chiuso di benzina e pensò che forse poteva aspettare che smettesse un po’… ma no… era solo un forte temporale estivo, era solo acqua. Allora ricominciò a correre per raggiungere il villino di Lorenzo poco distante.
L’acqua scorreva abbondante sotto i marciapiedi ed i tombini delle fogne non riuscivano ad accoglierla, tappati dalle foglie dei tanti giardini di quel quartiere un po’ signorile, dove anche lei aveva vissuto per lungo tempo con i suoi genitori. Anna doveva attraversare la strada quindi fece un salto per superare quel fiume d’acqua che scorreva sul ciglio della carreggiata. Atterrò con un piede sull’asfalto bagnato ed unto della pompa di benzina e la gomma della scarpa planò, Anna perse l’equilibrio e cadde a terra, urtando un vetro col ginocchio sinistro.
Si ritrovò carponi, senza respiro per la botta al ginocchio e con le mani immerse fin oltre il polso nel torrente di acqua terrosa che aveva voluto evitare. D’istinto si girò e si sedette sul marciapiede, ormai completamente zuppa ed anche sporca, afferrò il ginocchio tra le mani, senza neanche guardarlo, si accovacciò stringendolo forte mentre serrava gli occhi. Le faceva male, ma le veniva anche tremendamente da ridere…
Rimase così per un po’, in silenzio, respirando affannosamente sotto la pioggia, che non accennava a smettere e le tamburellava sul cappuccio ormai intriso d’acqua.
Poi, quando il dolore si fu placato, sciolse la stretta e si guardò. Aveva un taglio lungo e profondo e le mani piene di sangue. Subito ricoprì il ginocchio perché la pioggia, scorrendovi sopra, le faceva male.
E adesso? Si guardò intorno. Non c’era nessuno.
Si alzò lentamente e attraversò la strada, zoppicando per non far tendere la ferita piegando il ginocchio. Tanto ormai era completamente fradicia, non c’era più fretta.
Continuava a venirle da ridere.
Proseguì fino al cancelletto della villa e suonò il citofono.
Niente.
Riprovò.
Ancora niente.
Infilò il braccio nella borsa e cominciò a cercare il telefono.
Niente.
Poi l’immagine del suo cellulare lasciato incustodito sopra il cuscino nella sua stanza le comparve tristemente davanti. Sempre peggio. Quasi non ci poteva credere. Perché le capitavano sempre situazioni così al limite della farsa! Era veramente un disastro a volte e non provava neanche un po’ a migliorare. Allora sconsolata e rassegnata si lasciò scivolare con la schiena lungo il muro di cinta della casa, accanto al cancello, e si sedette a terra, col ginocchio ferito disteso e l’altro rannicchiato al petto, riparata dalle fronde di un albero che superavano il muro ed invadevano il marciapiede.
Si guardò di nuovo la gamba. Ora che le arrivava un po’ meno acqua a pulirla era piena di sangue ed i corti calzini ne erano intrisi.
Cercò un fazzoletto nella borsa, tanto per tamponare un po’ la ferita.
Niente.
Figuriamoci se aveva i fazzoletti. Non avrebbe neanche dovuto avere la velleità di cercarli!
E Lorenzo non arrivava. Allora si cinse la gamba accovacciata con le braccia e vi abbandonò la testa. Rimase un po’così, a pensare cosa fosse meglio fare.
La pioggia scalzava le foglie e batteva violenta e veloce sull’asfalto…
«É un brutto taglio. Non te lo chiedo neanche se è tutto ok…» le disse una voce bassa, calda e stanca.
Anna sussultò e alzò lo sguardo.
Era alto ed aveva un paio di jeans scuri ma scoloriti. Il cappuccio gocciolante di una felpa di un grigio sbiadito gli aderiva al capo, accentuando la morbida curva della nuca, e l’acqua della pioggia dal tessuto gli scivolava sul viso. Aveva gli occhi scurissimi ed impercettibilmente affaticati e la stava osservando, col mento reclinato verso il basso, verso di lei.
Bellissimo.
Era Len.
 
Volare agili e leggeri dentro la città, all’ombra dei palazzi. Seguire dall’alto il tracciato delle strade deserte e voltare sospesi gli angoli degli edifici.
Osservare le poche vetture parcheggiate sui viali.
Superare una pompa di benzina con le catene tirate.
Proseguire e giungere in un prato profumato ed assolato, racchiuso da un muro costeggiato da grandi alberi ombrosi. Avvicinarsi.
Notare una porta finestra aperta e sentire il profumo del caffé. Avvicinarsi ancora e posizionarsi silenziosamente sull’asse di un grande e ormai logorato gazebo di legno e osservare…
Un giovanissimo ragazzo dai capelli chiari e dagli occhi turchesi esce dalla porta finestra con una macchinetta del caffé in una mano e nell’altra un pacco di biscotti. Li poggia sul tavolo all’ombra del gazebo, sbadiglia e rientra.
L’erba del prato è solo un po’ più alta di quanto dovrebbe. Un tubo di gomma è lasciato srotolato sotto al sole. Un flacone di bagnoschiuma è poggiato sulle mattonelle di una doccia esterna, che goccia un po’. I mattoni rossicci dell’abitazione cominciano a scaldarsi alla luce della mattina.
Il ragazzo esce di nuovo con un bicchiere di latte ed un barattolo di zucchero. Si siede…
Non sono nemmeno le nove del mattino ed è sabato 20 Agosto… Osservare…
 
Lorenzo sorseggiò un po’ di latte freddo e tirò fuori un biscotto dalla busta aperta. Poi sentì lo sciacquone del bagno al piano di sopra. Poco dopo Len uscì in giardino, a piedi nudi, con una t-shirt bianca ed i larghi pantaloni di una vecchia tuta di cotone sottile che erano stati tagliati sotto al ginocchio. Scartò appena la testa di lato, infastidito, socchiudendo gli occhi alla luminosità del sole e raggiunse l’ombra del gazebo.
«‘Giorno…» disse al fratello con la voce un po’ rauca della mattina.
«Come mai già in piedi? È sabato…» gli chiese Lorenzo, finendo il latte.
Len si sedette sulla panca e poggiò i gomiti sul tavolo massaggiandosi la nuca con entrambe le mani.
«Avevo fame. È anche possibile che dopo mi rimetta al letto… Se hai finito il latte passami il tuo bicchiere, non mi va di alzarmi a prenderne uno pulito… Hai già fatto il caffé… meraviglioso... e quei biscotti? Già pensavo che ci saremmo arrangiati col pane in cassetta per la colazione di stamattina…» Gli chiese Len, infilando la mano nella confezione dei frollini.
Lorenzo gli passò il suo bicchiere vuoto e con noncuranza disse «Li ha lasciati Anna.»
Poi osservò il fratello che, sgranocchiando un biscotto, commentò «Ah. Se è una che non si offende se li apriamo e ce li mangiamo noi… »
«In realtà li ha aperti lei ieri. Ha detto di fare una pausa dalla lezione e di mangiare. Avevamo fame. Ci siamo smezzati il panino e un po’ di biscotti. Aveva la confezione nella borsa e poi l’ha lasciata qui. È un po’scombinata, è una forza.» Continuava a guardarlo mentre parlava, come se volesse carpire qualcosa.
Len alzò lievemente il sopracciglio «Il fatto che noi due siamo un disastro su diversi fronti, non significa che esserlo sia una cosa a favore delle persone… »
«Per me invece lo è. Il suo lavoro lo fa bene, è tostissima a lezione, non perde un colpo e non me ne passa liscia una. Sembra un’altra. Poi però ultimamente si è dimenticata l’appuntamento e non è venuta. Mi ha dato buca. L’ho chiamata sul cellulare, ma non ha risposto. Le sera mi ha telefonato supermortificata da un numero fisso, con un casino di sottofondo e di corsa. Non s’è inventata nessuna scusa, mi ha detto senza vergogna che aveva completamente cancellato di avere la lezione con me perché s’era appuntata le cose da fare su un foglietto volante, un foglietto che non sapeva più che fine avesse fatto; che perciò aveva dato la sua disponibilità per lavorare anche a pranzo e che per questo non aveva neanche risposto al cellulare, sul quale peraltro non aveva credito per richiamarmi; che per quello mi chiamava dal locale dove lavorava e quindi si doveva pure sbrigare… Il tutto farcito con diecimila “scusa” e frasi del tipo “dovrei decidermi a farmi un’agenda, se solo non sapessi che poi potrei non controllarla o perderla” o “non c’è rimedio”. È veramente una forza anche per questo.» Concluse Lorenzo, indugiando nei particolari e sempre scrutando la reazione del fratello.
Len stava sorridendo. Bene. Poi però disse «É comica!»
Comica… Sì, forse Anna, raccontata così, un po’ lo era in effetti… Ma Lorenzo non aveva voluto comunicargli quello… Ci si doveva stare insieme per capirla, la si doveva anche guardare…
«Ma tu non l’hai mai vista, nemmeno di sfuggita? Sembra una ragazzina, ma… Comunque non la definirei comica.»
Adesso era Len a guardare attentamente il fratello «No, nemmeno di sfuggita…Lory, ma non è che ti piace?» gli domandò con un tono dubbio, perplesso e forse impercettibilmente beffardo.
«Che????!!! Ma sei matto! Se ha quasi dieci anni più di me!!!»
Un disastro. Len non aveva capito un cavolo. Non c’era niente da fare. Meglio finirla lì. Se avesse continuato a parlargli di Anna, lui si sarebbe sempre più convinto che gli piaceva e non c’era un’assurdità più enorme. Lui non era bravo a fare il ruffiano, le sue compagne di classe invece erano favolose in questo. La sola idea di tentare era stata un’idiozia. Non ci aveva mai parlato di donne. Sapeva che Len ne aveva, non si nascondeva di certo, ma ne parlava poco. Ne aveva viste di sfuggita un paio.
 
Una domenica mattina si era svegliato e aveva trovato Len seduto sul tavolo della cucina a fumare, aspettando che uscisse il caffé. La seconda macchinetta del caffé, perché la prima doveva essersela già scolata, visto che già stava fumando.
Lorenzo gli aveva detto «Credevo fossi in bagno. Ho trovato la porta chiusa a chiave…»
«C’è la superdonna che si fa la doccia. Abbi pazienza.» Aveva commentato lui, solo un po’canzonatorio.
«La superdonna…?»
«Alta, bella, sicura del suo corpo, abiti sfacciatamente femminili per mettere in mostra i punti giusti… Una di quelle che non si sa bene di cosa si nutrano, che sono uscite dalla pancia della madre in gonna e tacchi, di quelle che hanno sempre, ma veramente sempre, bisogno di qualcosa, che non riescono a fare niente da sole e che ti snocciolano noiosamente il loro essere “femminnucce” facendosi aiutare ogni volta che ci stanno due scalini un po’ più alti…»
«Scusa, te la sei portata a letto e poi sfotti…» In questo Lorenzo non lo aveva capito. Il suo subbuglio ormonale adolescenziale non gli avrebbe mai fatto disprezzare una “superdonna”. Ma del resto, Len aveva undici anni più di lui. Erano per forza diversi. Molto diversi.
«Mica l’ho obbligata. E poi non ho detto che fa schifo.» Gli aveva risposto serafico, con un angolo della bocca lievemente increspato in un dubbio sorriso.
Chiaro come il sole, no? No, per niente…
«Ma dove l’hai trovata una così?»
Len aveva spento la sigaretta ed era sceso dal tavolo «Vado a vedere quanto le manca. Lascia un po’ di caffé nella macchinetta, che poi glielo porto.»
L’aveva demolita, ma poi le aveva fatto il caffé…
«Perché le porti il caffé?» Aveva tentato di nuovo Lorenzo.
«Non sono un animale.» Rise Len uscendo dalla cucina, senza guardarlo.
Discorso chiuso. Non ne avevano mai più parlato e da allora si erano limitati, al massimo, a comunicarsi cose del tipo “avvisami se c’è una superdonna in casa”.
 
«Ok, ok! É una ragazza anche lei, mi era solo venuto un dubbio, non c’è bisogno di strabuzzare così gli occhi!» Ribattè Len, quasi divertito dalla reazione sconvolta di Lorenzo. Poi prese la macchinetta del caffé e ne versò un bel po’, sempre nello stesso bicchiere ancora biancastro del latte che si era bevuto Lorenzo. E lo bevve.
«Accidenti… Le sigarette…» Disse, alzandosi palesemente senza voglia. Per le sigarette sì, per un bicchiere pulito no. Entrò in casa alla loro ricerca. Qualche minuto dopo si affacciò dalla finestra del bagno «Hai visto il pacchetto da qualche parte…?».
Lorenzo sorrise sotto i baffi. «No. Guardato nelle tasche dei pantaloni o sotto il tuo letto? Ci finiscono sempre tante belle cose sotto il tuo letto…»
«Uhm. Sì, in effetti…» e scomparve di nuovo.
Non ce la poteva proprio fare a pensarci da solo… Era fatto così. Era come lei… Si chiese se fosse il caso di fare quello che aveva pensato…
Quando Len ritornò aveva il suo indispensabile pacchetto di sigarette in mano.
«Pensavo di andare al mare stamattina… Non esco da un sacco di giorni…» Gli disse Lorenzo, un po’ titubante, osservando il fratello che faceva scattare l’accendino ed aspirava la prima boccata d’ossigeno della giornata.
«Ma non hai lezione in genere il sabato? Comunque ok. Hai bisogno di soldi?» Calmo, sicuro, come sempre.
«Solo per il biglietto del treno e per mettere qualcosa sotto i denti in spiaggia…» Lorenzo fece solo una piccola pausa e poi…«No, oggi non ho ripetizioni.» Era andata. Bugia detta, miccia innescata, senza pensarci troppo…
«Va bene. Dopo te li do. Io oggi ho il turno al supermercato di pomeriggio. Se andiamo ora a fare la spesa insieme, mi alleggeriresti un sacco. Odio dover scegliere in un momento solo di cosa sfamarsi per una settimana intera… E finisce che mangiamo sempre le stesse cose. Magari poi ti accompagno in macchina alla stazione.»
«D’accordo. A che ora tornerai a casa oggi pomeriggio?» Gli chiese Lorenzo, solo appena allarmato.
«Stacco alla sei e mezza. Il tempo di tornare a piedi… perché?» Len aggrottò lievemente le sopracciglia.
«Così, tanto per…» Fece il vago Lorenzo, sollevando le spalle con indifferenza.
«Mhm. Ieri hanno chiamato mamma e papà. Forse il mese prossimo riescono a prendere un volo per venire. Niente di nuovo comunque. Continuano a sopravvivere.»
«Sopravvivranno sempre ormai…Lontani da qui…» Disse Lorenzo, rabbuiato.
«Forse sì.» Fu il commento essenziale di risposta.
Perché Len era così sereno… In fondo era lui che si era accollato tutte le rogne di mantenerlo, da più di quattro anni ormai, aiutato troppo poco dagli incerti e scarsi soldi che ogni tanto gli mandavano i genitori dalla vecchia Inghilterra. E Lorenzo si sentiva in colpa… Si sentiva in colpa perché lui non avrebbe dovuto essere un problema di suo fratello… I genitori ti crescono, ti mantengono quando sei ancora piccolo, è normale… Un fratello maggiore dovrebbe solo sfotterti, essere prepotente e prenderti a calci se gli sfili una felpa dall’armadio e magari, ogni tanto, darti i soldi per una pizza con gli amici… Era arrabbiato con i genitori e nello stesso tempo sentiva un sentimento molto simile alla loro mancanza. Per questo probabilmente era arrabbiato.
«Finiscila. Ne abbiamo parlato un sacco di volte.» Len lo distolse da quei pensieri. «Non puoi cambiare faccia ogni volta che li nomino. Non sono molto bravo a dire certe cose, quindi non farmele ripetere sempre… Vai al mare, divertiti e prendi un po’ di sole perchè sei verde! Si comincia a schiattare di caldo qua fuori… Vado a fare una doccia.»
Tagliò corto così, scuotendolo. Si tolse la t-shirt e andò sul retro del giardino, dove c’era la doccia esterna.
Ma Lorenzo continuava a sentirsi in colpa. Ormai il falso malinteso sull’appuntamento del pomeriggio era partito. E se si fosse sbagliato su tutto la linea su suo fratello? Aveva comunque tempo per tornare indietro… No, non si era sbagliato. E comunque al massimo le sue aspettative sarebbero state disilluse. Quella era l’unica cosa che, per il momento, poteva fare per Len. Forse lo credeva perché alla sua età gli stimoli andavano sempre a parare su tresche amorose varie o sulle coetanee di turno e perché non si capacitava di come suo fratello potesse essere così solo, spensierato ed annoiato, nonostante le diverse “superdonne”, nominate ogni tanto o intraviste o intuite. Solo adesso, proiettato alla scoperta dell’universo femminile ed alla ricerca del modo migliore di piacere e di relazionarsi con l’altro sesso, cominciava a vedere quanto Len potesse essere difficile, riservato e impenetrabile. E quanto questo suo essere così, unito ad un aspetto invidiabile, attirasse l’attenzione di molte ragazze, di molte bellissime ragazze… Lorenzo si sentiva diverso da lui. Ma probabilmente non lo era così tanto. E comunque ora voleva provare a fare qualcosa per lui, seguendo un istinto appena sbocciato e quindi, forse, giusto. Sì. Voleva fare qualcosa per lui, una volta tanto…
 
Una sera di giugno Len, rientrando, lo aveva trovato sul divano del soggiorno a guardare distrattamente la tv.
Lorenzo, senza salutarlo né voltarsi, gli aveva detto «Mi hanno dato tre materie a settembre» e aveva continuato a guardare la schermo. Len gli aveva risposto tranquillamente «Ti aspettavi qualcosa di meglio? Io no».
Poi lo aveva sentito salire le scale, entrare in camera sua, poi nel bagno e la doccia si era aperta. Aveva aspettato teso che ritornasse. Ma quando il fratello era sceso non gli aveva detto niente ed a piedi nudi, come sempre, era entrato in cucina ed aveva aperto il frigo.
«Piatto di pasta?» Gli aveva semplicemente domandato. Aveva fame, altrimenti non avrebbe mai preso l’iniziativa così facilmente, appena rientrato.
«Sì, credo ci sia ancora un barattolo di sugo pronto da qualche parte.» Aveva risposto Lorenzo, alzandosi per raggiungere la cucina. Aveva quindi cominciato a prendere le cose per apparecchiare la tavola sotto il gazebo, mentre Len metteva l’acqua sul fuoco e poi usciva in giardino.
Si era seduto sul bordo della panca, con i gomiti poggiati alle ginocchia e fumava.  
«Cosa pensi di fare allora? Non so se vale la pena ammazzarsi tutta l’estate, se pensi di non riuscire a recuperare. Per me puoi anche tranquillamente decidere già da ora di mollare, farti bocciare e ripetere l’anno. Credo non sarebbe così male. Mi risparmierei per un anno anche il salasso dei nuovi libri. Perciò non farti neanche venire in mente l’idea di cambiare scuola o sezione con la giustificazione che i prof. ti hanno preso sotto un cattivo occhio.»
Era suo fratello. Da quando era nato erano vissuti sotto lo stesso tetto. Ma continuava a rimanere spiazzato dalle sue idee e dai suoi modi di fare…
«Veramente non mi va di ripetere… Però…»
Allora Len si era guardato il fratello più piccolo e gli aveva detto con calma e attenzione «Lory, forse finora non sono stato abbastanza chiaro. Sei un essere libero e qualunque cosa tu voglia fare sarà ben accetta. Io ho cominciato a lavorare poco dopo aver conseguito il diploma, quindi non me ne frega assolutamente nulla dei titoli di studio. Sarai una persona splendida e unica qualunque cosa tu decida di fare e non sarò certo io a soppesare le tue qualità in base al peso dei libri che hai sulle spalle. Perciò, se vuoi studiare, studia; se vuoi farti bocciare, solo per riprovarci con migliori propositi l’anno prossimo, fallo; se invece vuoi lasciare la scuola, sarai il ben venuto nel mondo del lavoro; se in futuro vorrai invece fare l’università ci rimboccheremo le maniche entrambi e potrai iscriverti. Però devi decidere seriamente e farla finita con questa storia del “studio non studio”. Così perdi solo tempo.»
«Ma tu un diploma l’hai preso e poi te la cavavi meglio di me a scuola…»
«Questo non c’entra niente. Io non sono te e non sono migliore di te.» Calmo, serio, lapidario.
Lorenzo era rimasto in silenzio. Poi gli aveva detto «Storia e italiano le potrei anche recuperare… matematica mi preoccupa…»
«Mhm. Quindi vorresti provarci… In questo caso il condizionale “potrei”, scordatelo. Se decidi di studiare tutta l’estate “devi” recuperare. Basta con le mezze misure. Se con matematica non ce la fai da solo, prenderai ripetizioni, per la prima ed ultima volta. Trovati un insegnante. Ma superato l’esame a settembre, dimenticati di essere seguito da qualcuno in privato e fatti il mazzo da solo durante l’anno. Ovviamente niente vacanze. Anche se il cantiere dove sto lavorando ad Agosto chiuderà, non mi prenderò le ferie dal supermercato e ti pagherò le ripetizioni da domani fino al giorno prima dell’esame. Decidi. Sei libero.»
E poi Len poi aveva sorriso aggiungendo ironicamente «Se poi, per assurdo, papà dovesse rifare la fortuna che ha perso e ritornassero entrambi qui a salvarci le chiappe, allora i tuoi problemi sarebbero finiti e stai certo che qualcun altro pulirebbe sempre la tua stanza da letto ed il bagno, liberandoti da ogni incombenza, e comprerebbe un nuovo taglia erba, utilissimo. Credo che l’acqua della pasta starà bollendo ora. Se non metto qualcosa nello stomaco i fusilli me li mangio ad uno ad uno direttamente dalla busta!».
Così Lorenzo, da un volantino appeso in un bar lì vicino, aveva staccato il numero di Anna che, per sua sfortuna, ma per la fortuna di lui, aveva dovuto decidere di lavorare tutta l’estate e di non andare in vacanza, esattamente come loro.
 
Anna. Ricordarsi di come Len gli aveva parlato quella sera dopo i quadri, gli riportò alla mente ciò che la giovane ragazza brillante e un po’ scombinata gli aveva detto alla prima lezione.
Lei era entrata in casa boccheggiante e con una faccetta distrutta, ma sorridente e gli aveva fermamente stretto la mano «Ciao. Anna. Avete un giardino favoloso! Però ti devo chiedere un bicchiere d’acqua prima di ridurmi ad una schifosa pozzetta di liquido salato!».
Gli era piaciuta da subito. Quando si era seduta accanto a lui, gli aveva chiesto il programma dell’esame. L’aveva letto attentamente e poi gli aveva detto «Che noia… Dovrò metterci tutta me stessa per non crollare nello spiegarti questa roba… Ok, vediamo un po’ da dove iniziare…»
E poi era cambiata. Era diventata autorevole, concentrata, attenta a tutto quel poco che lui, in ansia, provava a fare. E Lorenzo era teso, anche se lei non lo stava sottoponendo a nessun esame. Dopo un po’ lei aveva chiuso il libro, lo aveva guardato negli occhi e gli aveva detto «Senti. A me non interessa assolutamente niente della tua preparazione. Non devi fare bella figura con me. Non sarei qui se tu capissi qualcosa di questa roba o se l’avessi studiata. Quindi eliminiamo questa atmosfera da esame. Con me “devi” sbagliare, perlomeno all’inizio. Non sono io che devo giudicarti. E non mi importa neanche nulla della tua indole, volenterosa o nullafacente. Tu sei libero di fare quello che vuoi. Se te ne fregherai e non farai quello che ti dico, io mi intascherò i soldi comunque e tu sarai falciato a settembre. Ma non per questo ti giudicherò male, anche se per me diventerà un inferno venire qui. Se dovessi consigliarti qualcosa ti direi di sbrigarti a finire la scuola, alla meno peggio, ed andartene a lavorare subito. Studiare non ti renderà una persona migliore. Quindi decidi liberamente, ma ti prego, senza ansia. Posso avere un altro po’ d’acqua?» Aveva concluso sorridendo.
A quanto pareva, Lorenzo era “libero” un po’ per tutti ultimamente e nessuno lo giudicava. Era allettante sentirsi accettati comunque ed avere la piena facoltà di scegliere qualunque cosa, anche la peggiore… ma era difficile e più faticoso del fregarsene e lasciarsi trasportare dalla corrente…
Len e Anna erano uguali… e non si erano mai visti.
 
Volare agili e leggeri dentro la città, all’ombra dei palazzi. Seguire dall’alto il tracciato delle strade deserte e voltare sospesi gli angoli degli edifici.
Raggiungere un grande parcheggio semivuoto. L’asfalto rovente. Qualche albero troppo giovane per fare ombra.
È troppo presto. Lui non è ancora qui…
Tornare indietro, ripercorrere un viale silenzioso. Sentire distintamente solo una lontana televisione accesa in quella quiete.
Superare ancora la pompa di benzina. Sorpassare gli alberi del giardino ed il gazebo. Posizionarsi lì, di nuovo… Eccolo…
Un ragazzo alto sta finendo di sistemare dei panni umidi su uno stendino, a piedi nudi sull’erba.
Raccoglie una bacinella e la poggia sul tavolo.
Si passa il dorso della mano sulla fronte.
Apre un rubinetto e recupera un tubo di gomma dal giardino, fa scorrere l’iniziale acqua bollente, riscaldata dal sole.
Le cicale continuano incessantemente a cantare.
Raggiunge lo stretto corridoio di  mattonelle che circonda le mura della casa e vi fa scorrere l’acqua, nella porzione vicino alla porta finestra aperta. Poi, porta la mano sotto l’acqua che ormai si è rinfrescata.
Si sciacqua dai piedi la terra. Tuffa la nuca sotto il getto, rabbrividendo.
Chiude il rubinetto, abbandona il tubo e si passa più volte le mani sui corti capelli neri e l’acqua scivola via. Così sale i due scalini asciutti della porta finestra, lasciando lì le impronte bagnate e con i piedi solo leggermente ancora umidi entra in casa.
Poco dopo esce dalla porta principale e la chiude a chiave.
Sono le due passate ed è sabato 20 Agosto… Seguirlo…E poi aspettare…
 
Tac…Tac…Tac…Le gocce di pioggia aumentarono sul vetro dell’uscita di sicurezza del supermercato. Len ritornò mentalmente di nuovo sotto il cielo della sua città e si scosse dall’isolamento impersonale della luminosità e dell’artefatta frescura di quella moderna cattedrale, dove ciascuno poteva riconoscersi e ritrovare un ambiente familiare, anche se fosse venuto dall’altra parte del pianeta. Guardò l’ora. Erano quasi le sei e mezza. Aveva quasi finito.
Riprese a sistemare i nuovi arrivi sullo scaffale dei dolci. Biscotti. La stessa confezione di quelli che aveva mangiato quella mattina. Quelli che aveva lasciato la ragazza che faceva ripetizioni a Lorenzo.
Ci pensò un attimo. Sì, era tranquilla, sì, era giovane, sì, a quanto pareva, era un po’buffa, ma magari era il caso di ricomprarglieli, per educazione.
Svuotò il grosso carrello di metallo e lo riportò vuoto nel magazzino, con una confezione di quei biscotti in mano. Controllò se c’era fila alla cassa. Quasi nessuno. In quei giorni non c’era mai quasi nessuno.
«Un euro e cinquanta. Ma non avevi già fatto la spesa stamattina?» Gli disse il collega alla cassa.
«Mi è venuta voglia anche di questi.» Rispose sommariamente Len, tirando fuori dalle tasche gli spicci, che naturalmente gli caddero a terra. Li raccolse tranquillo, pagò, prese lo scontrino e salutò.
Nello spogliatoio si cambiò la maglietta e si avviò per uscire con la confezione di biscotti in mano. Tac. Tac. Tac. Ora diluviava.
Tornò indietro e prese la felpa che aveva dimenticato da svariato tempo appesa all’anta dell’armadietto. L’occasione buona per riportarla a casa. Ogni tanto dimenticarsi le cose tornava utile. Si riavviò verso l’uscita e sfilò una sigaretta dal pacchetto. La sigaretta più agognata della giornata, eccetto la prima del mattino, naturalmente. Si fermò sotto la copertura dell’ingresso, si appoggiò al muro e la accese, fissando l’acqua che scorreva rapidamente sull’asfalto trascinando tutto il sudiciume accumulatosi in un mese senza pioggia. Un acquazzone di fine estate? Forse…
Magari dopo l’esame di riparazione poteva mandare Lorenzo a Brighton per qualche giorno, prima che ricominciasse la scuola, così si sarebbe fatto un po’ di mare coi genitori... No. Gli aveva detto che non gli avrebbe pagato vacanze e comunque era certo che il fratello minore non ne sarebbe stato entusiasta. Se però avesse superato l’esame bene… No. Al massimo, se aveva bisogno di riposarsi e svagarsi un po’, se ne sarebbe andato al mare tutti i giorni con tutti gli amici ormai rientrati delle vacanze estive. Si sarebbe divertito di più, senza dubbio. All’età di Lorenzo anche lui aveva preferito stare con gli amici piuttosto che coi genitori… E Lorenzo non era diverso.
Odiava se stesso quando gli veniva quel moto di protezione nei confronti del fratello minore, che lo allontanava da lui, facendogli pensare cose che avrebbe pensato un genitore. Len lavorava e Lorenzo andava a scuola, ma mai come in quel momento la distanza di età era diminuita così tanto… Erano simili. Il ragazzino che si era divertito a scorrazzare in bicicletta ora cominciava ad uscire la sera, a bere birra insieme a lui, ad organizzare serate con gli amici in giardino… Iniziava a fare tutto quello che faceva lui… Ed in questo era certamente molto più libero dei suoi compagni. Perché Len non era un genitore…
Sospirò. Lui, all’età di Lorenzo, aveva vissuto un’adolescenza simile a quella dei suoi coetanei,  aveva rinunciato, aveva discusso, aveva ottenuto, aveva subito i divieti dei genitori… Come invece quella condizione atipica avrebbe forgiato Lorenzo? Non lo sapeva… Erano comunque una famiglia, insolita forse, ma Lorenzo non era solo… Scacciò quei pensieri.
Era stanco. Era sabato e lui era più stanco degli altri giorni.
Spense la sigaretta e tirò il cappuccio della felpa sul capo prima di avventurarsi sotto la pioggia, di corsa. Dopo pochi passi si fermò e guardò davanti a sé. Percorse mentalmente la strada per arrivare a casa. Sorrise divertito scuotendo la testa. Era inutile correre. Si sarebbe inzuppato comunque. La felpa era stata perfettamente inutile. Di aspettare non gli andava. Tanto era estate, a casa si sarebbe cambiato. Merda… I panni stesi… Amen. Li avrebbe rimessi in lavatrice.
Gli vibrò il cellulare nella tasca. Il momento adatto. I telefoni squillano sempre nei momenti meno indicati… Era Lorenzo. Infilò la mano sotto al cappuccio ed accostò il cellulare all’orecchio, riprendendo a camminare.
- Ehi. Dove sei? -
- Al centro del parcheggio del supermercato, sotto qualche centinaio di secchiate d’acqua. -
- Ma torni a casa, sì? - Gli chiese Lorenzo, preoccupato.
- Certo che torno a casa, dove vuoi che vada! Mi ci vorrebbe un gommone. Tu invece? -
Lorenzo tirò un sospiro di sollievo.
- Stiamo sul treno, stiamo tornando. -
- Uhm. E quindi? Devo venirti a prendere alla stazione? -
- No. Mi riaccompagna la mamma di Luca. Sarò a casa dopo le sette, penso. A dopo. - Riagganciò.
Len rimase col telefono in mano. Perché diavolo gli aveva telefonato? Glielo aveva già detto che sarebbe tornato verso quell’ora e non aveva neanche bisogno di chiedergli un passaggio dalla stazione…
Reinfilò comunque il cellulare nella tasca, uscì dal parcheggio ed imboccò la strada, a testa bassa, costeggiando i muri dei palazzi e riparandosi distrattamente sotto i balconi. Poi arrivò sul viale di casa. Era quasi arrivato al cancello quando sollevò il mento e guardò davanti a sé…
C’era qualcuno seduto per terra, appoggiato al muro di cinta.
Ci mancava… E adesso chi era… Una multa? Un’altra multa? Accidenti…
No. Non era un vigile… Era una ragazza. Oppure una bambina? Ad ogni modo tirò un sospiro di sollievo…
Continuò a camminare. Si fermò silenziosamente ad un passo da lei. Si sentiva la pioggia percuotere rumorosamente le foglie degli alberi. Lei non si mosse.
Aveva una gamba rannicchiata al petto. Vide solo il cappuccio della felpa perché aveva il capo poggiato sul ginocchio. Era fradicia. Completamente. Era anche un po’ inzaccherata. Una borsa umida in grembo, le gambe affusolate e sinuose, lisce e scoperte… Non era una bambina… Sul ginocchio sinistro aveva un grosso taglio, il sangue le aveva macchiato la felpa e le era colato fino alla caviglia sottile, tingendole la pelle lievemente abbronzata…
«É un brutto taglio. Non te lo chiedo neanche se è tutto ok…» le disse flebilmente.
La vide trasalire ed alzare il mento. Due occhi grandi e verdi lo fissavano ora, in silenzio. Un visino limpido, senza trucco, incorniciato dal cappuccio zuppo della felpa disordinatamente tirato sul capo. Una corta ciocca di capelli bagnati le aderiva alla tempia…
 
E ora continuare ad osservare… osservare lei… di nuovo lei… lei che ora guarda lui…
 
Bellissimo…
Anna sospirò e finalmente gli disse «Ciao…».
«Ciao. Bisogno di aiuto…?» Le chiese Len, incatenando senza alcun imbarazzo i suoi occhi scurissimi a quelli di Anna.
Era ovvio che avesse bisogno di aiuto.
«No, in realtà no… Ehm… Stavo pensando cosa fare…»
Guardare sempre le persone negli occhi era naturale per Anna e non aveva mai avuto problemi nel farlo… Anzi, a volte era sta lei ad imbarazzare gli altri, compreso l’ultimo celenterato, nonostante l’aspetto docile… Ma in quel momento, per la prima volta, era in difficoltà. Se ciò stesse accadendo per la situazione complessivamente antipatica o per la spudorata tranquillità di Len di fronte ad essa o per quello sconsiderato formicolio alla bocca dello stomaco, che l’aveva irrazionalmente colpita a partire dalla prima volta che aveva individuato l’esistenza di lui su questo mondo, era difficile stabilire.
Anna deglutì e ritirò fuori se stessa. La parte di se stessa che conoscevano gli altri, perlomeno.
«Però in effetti immagino di dare un’impressione alquanto avvilente.» Sorrise divertita e si alzò in piedi. Ma Len era comunque alto e continuava a guardarla col mento rivolto verso il basso.
«Mhm. Aspettavi qualcuno, qui?»
No, Len non aveva idea di chi fosse quella ragazza. E no, lei non aveva bisogno di aiuto, a detta sua…
«Aspettavo Lorenzo. E tu sei suo fratello…» Anna sapeva che era lui, non aveva dubbi…
«Sì. Lorenzo è andato al mare, dovrebbe tornare tra tre quarti d’ora circa… Ma vi dovevate incontrare?» Le domandò Len, appena un po’ perplesso.
 «Sì… Avremmo dovuto fare lezione alle sei e mezza… ma a questo punto non lo so più se l’avremmo dovuta fare… » Che disastro. Ci mancava solo quella. Però le sembrava proprio che fossero rimasti d’accordo così…
Len inclinò un po’ il capo, rimuginando mentre la osservava e le disse «Ah… Anna…?»
«Sì, sono Anna.»
«Perfetto, un enorme passo avanti. Ciao Anna. Lorenzo non mi aveva detto che avrebbe dovuto vedersi con te. Be’, lezione o meno, credo che se entriamo in casa sia meglio.» Disse risoluto e disinvolto, rivolgendolesi come se fosse stata una sua conoscenza consolidata, solo dopo aver scoperto che si trattava di lei.
Sfilò le chiavi dalla tasca ed aprì il cancelletto. Anna non poté che seguirlo in giardino, in silenzio, ma istintivamente a suo agio. Lo vide girare la testa ed osservare qualcosa. Anna seguì la direzione ed intercettò uno stendino pieno di panni grondanti. A lei non era capitato semplicemente perché quel giorno non aveva fatto il bucato, altrimenti sarebbe stata nella stessa identica situazione.
Arrivarono davanti alla porta di casa, lui aprì e poi le disse «Tu entra intanto. Io prendo i panni che avevo steso, intanto che sono ancora zuppo e prima che la pioggia li consumi e li scolorisca del tutto.» E si voltò.
All’improvviso sembrò rendersi conto di avere in mano qualcosa. Ritornò indietro, abbassò il cappuccio della felpa, scoprendo il capo bagnato… Capelli scurissimi, come gli occhi… Lo vide bene in viso… In lui c’era solo qualcosa di Lorenzo. I tratti regolari e delicati del fratello minore, enfatizzati in lui dalla giovanissima età e dai colori luminosi e cristallini dei capelli e degli occhi chiari, si animavano in Len ed assumevano un carattere autentico e velatamente incisivo.
Le disse «Scusa, potresti tenermi questi? Tanto erano per te.»
Anna si ritrovò in mano un pacco di biscotti, un pacco bagnaticcio di biscotti… Le scappò un sorriso divertito e rispose tranquilla, guardandolo negli occhi «Ok.»
Quando lui si voltò però, indugiò ad osservarlo camminare sotto la pioggia, di spalle… Di nuovo quella involontaria sensazione alla bocca dello stomaco. Di nuovo distolse lo sguardo, sentendosi indiscreta, come quella volta nel corridoio davanti alla porta della sua camera aperta… Irritante. Si era trasformata all’improvviso in un’ebete dall’indole instabile?!
Varcò la porta di casa, ma rimase ferma sull’uscio. Guardò il legno scuro ed usurato del pavimento asciutto… Allora si tolse la felpa e la strizzò di fuori. Era abituata a bagnarsi, ma erano secoli che non ne prendeva così tanta. Avrebbe dovuto togliere anche le scarpe per non inzaccherare tutto… Osservò la confezione di biscotti che si era ritrovata in mano. Sì. Poteva farlo. Quella casa era viva, nessuno si sarebbe sconvolto. Poteva essere se stessa.
Len arrivò con una bacinella piena di panni. Entrò, si guardò intorno, cercando un posto dove poggiarla, che naturalmente non c’era. Quindi si sfilò le scarpe, continuando a tenerla in mano. Alla fine la poggiò a terra, affianco all’ingresso e vide che c’erano anche le scarpe di Anna, con la felpa umida poggiata sopra. Cercò lei con lo sguardo. Stava lasciando i biscotti e la borsa sul tavolo della cucina, scalza. Aveva i capelli neri, corti e disordinati…
Anna si girò ed incrociò lo sguardo di Len. Poi osservò la bacinella, le proprie scarpe e quelle di lui, a terra. «Un panno potrei trovarlo qui, giusto? » Gli disse, liberamente indicando lo sportello sotto il lavello.
«Sì. Potresti… Ma non ci giurerei. Se non c’è prendi… prendi… dello scottex.»
Anna, di spalle, fece un altro piccolo sorriso. Lui era… era svagato, svagato in modo spontaneo e sereno…
Poi vide una pila di quotidiani ammucchiati in disordine sopra una sedia. Ne prese uno e raggiunse il salone, zoppicando impercettibilmente. Len si stava sfilando la felpa. Da un lato gli salì un po’ anche la t-shirt che aveva sotto, rivelando la vita scesa e morbida dei jeans ed il sottile disegno di una muscolatura appena accennata sotto l’epidermide di un addome asciutto e disteso…
Si sentì di nuovo una ladra e si diede dell’idiota… Ma cosa le succedeva? Va be’, aveva visto un pezzo di pelle e allora? Non aveva mica quattordici anni e tutto il trambusto di estrogeni conseguente!
«Ho pensato che qualche foglio di giornale fosse meglio. Ma magari li avevi messi da parte per qualche altro motivo…» Hai visto mai fosse stato un tipo preciso, sotto sotto.
«No, ma che, già è tanto che fossero tutti nello stesso posto! Vanno benissimo» Le rispose lui rilassato, scoprendo il viso dalla felpa.
Anna sollevò le scarpe ed il resto, aprì qualche foglio del quotidiano da mettere sul pavimento e riappoggiò tutto sopra. Len attese e vi poggiò sopra anche la sua felpa bagnata.
«Grazie. Vuoi qualcosa per camminare in casa…?» Le domandò, ancora chinato, lanciandole una rapida occhiata ai piedi nudi e riprendendo poi a fissarla negli occhi, disinvolto, mentre si risollevava in tutta la sua altezza.
«Se lo fai per me, no, grazie. Cammino sempre a piedi nudi in casa… Ma se tu preferisci…» gli sorrise lei, guardandolo sempre dal basso, col mento sollevato.
Lui attese qualche attimo, impercettibile, e poi… «No. Figurati, a me va bene così, senza dubbio.»
Le rispose così, con un tono assolutamente impenetrabile, distogliendo lo sguardo dai grandi e verdi occhi di Anna. Poi tirò su gli orli dei pantaloni con un risvolto.
«Senti. Non dovevi ricomprare i biscotti, ce li siamo ingurgitati ieri insieme a mezzo panino… Li avevo lasciati  tanto per condividere… » Anna si arrestò un attimo e poi proseguì «Però in effetti tu non mi conosci… Anche io li avrei ricomprati ad uno sconosciuto, per educazione. Quindi, grazie…»
Len se la guardò e le disse «Di niente. Hai un flusso di pensieri scoperto… Ad ogni modo, adesso ti conosco e, comunque, grazie a te, eravamo rimasti senza…»
Poi infilò la mano nella tasca dei jeans e sfilò il cellulare «Forse dovrei telefonare a Lorenzo per capirci qualcosa.»
«Sì, credo proprio che sia il caso.» Rispose sicura Anna.
- Lory, dove sei? -
- Ancora sul treno… Perché? -
- Qui c’è Anna… -
A Lorenzo guizzò un sorriso, che naturalmente Len non poteva vedere.
- …Ah… Accidenti… forse ho fatto confusione io stavolta… Però, se mi aspetta, possiamo fare almeno un’ora… A te darebbe fastidio eventualmente averla tra i piedi ancora per un po’…? Rispondi sinceramente, con un sì o con un no, senza farti capire… -
Len fece un’espressione un po’ perplessa. - Ma che diavolo… ti sei bruciato il cervello tutto in un pomeriggio? - e non si riferiva al fatto che avesse dimenticato la lezione. -…Comunque. No.-
- Fantastico! Passami Anna! - Lorenzo raggiò ancora perchè sapeva che Len gli avrebbe detto spudoratamente “sì” se non l’avesse voluta lì con lui. Era già qualcosa.
Len passò il cellulare ad Anna.
- Scusami tanto, mi sono dimenticato… Sarò lì tra una mezz’ora … Se non è un problema… potresti aspettarmi… sempre se non ti dispiace… - La parte del bravo ragazzo contrito gli veniva bene… Forse stava imparando a fare il ruffiano… No. La verità era che si stava divertendo. Alle loro spalle.
- Non ti preoccupare. Siamo pari e sinceramente non pensavo che avrei raggiunto questo risultato. Già mi vedevo tristemente sul due a zero. Sono quasi sollevata. Va bene. A tra poco. -
- Grazie!!!! Allora a dopo! -
Anna ripassò il cellulare a Len. Lui la guardò ancora. Teneva la gamba ferita leggermente piegata e non poggiava completamente il piede a terra.
«Ma come te lo sei fatto quel taglio?»
«Mi sono sdraiata sull’asfalto mentre cercavo di saltare un fiume di acqua schifosa, ci sono finita praticamente dentro a nuotare ed ho pure avuto il tempo di urtare un vetro con il ginocchio…»
Len la stava ascoltando, con le sopracciglia alzate. Anna serrò le labbra, perché le veniva ancora da ridere…
«Ok. Qualcos’altro?» Le chiese Len, con un tono vagamente divertito.
«A parte il fatto che diluviava, che a casa vostra non c’era nessuno, che ho dimenticato il cellulare sul cuscino del mio letto, che non avevo neanche un fazzoletto e che più tardi devo andare a lavoro?» Gli rispose lei sorridendo.
«Purtroppo credo di essere in grado di immedesimarmi…» Commentò Len, riguardandosela distratto da capo a piedi mentre ironizzava su entrambi.
Anna aveva la canottiera zuppa, molto più zuppa di quanto non fosse la t-shirt di Len… appiccicata alla pelle, ai fianchi, al seno… Aveva la pelle d’oca… sulle braccia e le gambe nude… Ritornò a fissarla negli occhi.
«Senti. Io mi cambio. Tu fai una doccia, riscaldati un po’ e lava sangue e terriccio dalla ferita. Vieni su, ti do un asciugamano pulito ed una maglietta asciutta.» E andò verso le scale, senza attendere una risposta.
Non glielo aveva chiesto… Non le aveva offerto il suo aiuto, lasciandole la possibilità di rifiutarlo… Aveva semplicemente deciso così, risolvendo il problema. Con naturalezza e gentilezza aveva afferrato la bottiglietta d’acqua minerale dalle sue mani e aveva svitato il tappo… Scacciò il melodramma sfigato dalla testa.
Lo seguì in silenzio, ancora una volta. Salì lentamente le scale. Ecco che il melodramma ritornava all’attacco. Si sentiva vulnerabile… Esposta a delle emozioni che all’inizio erano state irrazionali, per non dire ormonali, che poi si erano arricchite di quelle poche cose che aveva intuito di lui tramite Lorenzo e che l’avevano incuriosita, emozioni che ora scopriva essere dettate anche dai modi di lui, che la stavano attirando incredibilmente, ma non erano gestibili…
«Tieni. Non è piegata, ma è lavata» Le disse Len, porgendole una maglietta. «Gli asciugami puliti invece sono sui ripiani del bagno e sono piegati.»
«Grazie.»
Entrò nel bagno, chiuse la porta dietro di sè e sospirò. Poi aprì l’acqua della doccia e cominciò a spogliarsi, cercando di sfilarsi i corti pantaloni senza sfiorare la ferita. Le faceva male…
Entrò nella doccia e si immerse sotto il getto di acqua calda, tenendo il ginocchio lontano dagli schizzi violenti. Cercò un bagnoschiuma e si lavò. Poi sganciò il telefono della doccia, ridusse la pressione e la temperatura dell’acqua e la passò sulla ferita. La pulì a denti stretti e fece scivolare tutto il sangue dallo stinco. Era veramente un brutto taglio… Poi risciacquò bene il piattodoccia e chiuse l’acqua. Aprì il vetro, si sporse per prendere l’asciugamano ed un po’ di carta igienica, che usò per tamponare la ferita, che a tratti riprendeva a sanguinare, sollecitata dai movimenti del ginocchio. Uscì avvolta nella spugna ruvida e profumata di tanti lavaggi. Fortunatamente gli slip erano asciutti ed i pantaloncini solo un po’ umidi. Indossò la maglietta che le aveva dato Len… Sapeva di bucato. Era enorme… Le arrivava a coprire tutti i calzoncini e sulle braccia le giungeva al gomito, con la cucitura delle spalle scivolata sull’avambraccio ed un largo girocollo… Strofinò i capelli con l’asciugamano e lo appese disteso sul vetro della doccia. Prese la canottiera bagnata e uscì dal bagno.
Notò la luce accesa che usciva dalla porta aperta della camera di Len. Avanzò un po’ e si affacciò, discretamente. Lui alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo, seduto sul letto, appoggiato alla spalliera, con un asciugamano sulle spalle ed i capelli scuri scompigliati. La guardò un attimo, serio.
«Già fatto?! Forse sarebbe stata meglio una t-shirt di mio fratello…»
«No. Non c’è speranza per me. Mi starebbe grande lo stesso.» Le rispose ironica quella piccola ragazza dai capelli scuri. Lui abbozzò un sorriso e si alzò, lasciando il libro aperto e rivoltato sul letto.
«Adesso però devo trovare qualcosa per proteggere la ferita... e non sarà facile…»
«No. Può rimanere così. Non è il primo taglio che mi faccio, non gli succederà nulla.»
«L’ho visto che non è il primo taglio che ti fai. Le cicatrici sulle tue ginocchia sono piuttosto sincere riguardo a questo.» Le disse Len, dirigendosi in bagno, senza guardarla. Anna rimase sull’uscio della camera e si guardò le ginocchia. Lui aveva ragione…
Fece un passo nella stanza, che era piena di roba. Alcuni libri erano impilati anche per terra. Allungò il collo e riconobbe la copertina di quello che stava sul letto. Mc Ewan.
In quell’istante Len sporse la testa dallo stipite della porta della stanza «Intanto mettici questo disinfettante, mentre cerco una garza o qualcosa di simile. Affascinante… Il libro intendo, per me è affascinante.» Lo disse senza un minimo di saccenza, come se stesse parlando della cottura della pasta. E scomparve di nuovo, senza indulgere nell’argomento.
Anna lo raggiunse in bagno e mentre lui cercava poggiò il piede sul bordo della doccia e spruzzò il disinfettante. Len stava aprendo tutti i cassetti…
«Rinuncio, non avrei dovuto neppure tentare. Non sono molto bravo a cercare e questa casa è un po’ un disastro per questo genere di cose… Però magari potresti avvolgerci questo panno intorno. È pulito, leggero e lungo. Che ne dici?»
«A casa mia non avrei trovato di meglio. Grazie, va benissimo.»
Len le porse la lunga striscia di cotone bianco e osservò la ferita.
«Credo che ci vogliano dei punti. Ora che è pulita si vede bene. È un po’ troppo profonda ed estesa.»
«Uhm… In effetti fa un po’ schifo, ma addirittura i punti… tu dici?» Gli chiese Anna con gli occhioni sgranati, ma tranquilla.
«Sì, dico» Rispose secco Len.
«Be’ intanto la incarto con lo sciarpone, poi vedo…»
«Ok. Io scendo giù».
Anna si ripresentò in cucina col ginocchio fasciato alla meno peggio mentre Len pescava delle patatine da una busta. «Prendine un po’. Una birra?»
«Decisamente sì, grazie!»
Len prese due bottiglie fredde dal frigo e cominciò a cercare l’apribottiglie. Ma Anna si mosse sicura verso i fornelli, prese l’accendino che era poggiato lì vicino e fece saltare i tappi.
Len inclinò la testa e le sorrise lievemente, con una vaga e curiosa impudenza negli occhi «Problema risolto. Quindi dubito proprio che tu abbia bisogno del bicchiere…»
«Si impara a fare a meno di un sacco di cose quando si è un po’ pigri e disordinati!» Ribattè lei, afferrando il collo della bottiglia ed inclinandola col fondo verso Len. Lui fece lo stesso ed i vetri si toccarono. Non si dissero nulla e si bevvero una prima fresca sorsata di birra.
Fuori continuava a piovere ed il cielo scuro di un tramonto nuvoloso lampeggiava. Dalla finestra aperta della cucina entrava una leggera e fresca brezza.
Poi a Len vibrò il cellulare. Guardò il display e non fece alcuna espressione. Se ne andò in salone e rispose. Anna poté sentire solo qualche frammento della conversazione, che Len condusse con un tono di voce incredibilmente freddo.
- …No… Sono certo di non aver mai detto il contrario… Questo non è un mio problema…- Un po’ di silenzio e di cose completamente incomprensibili e poi, con una sincera e spaventosa indifferenza, disse: - Sposalo. Continua a non essere un mio problema il fatto che tu sia entrata in crisi… Senti, sono dispiaciuto, non sono un mostro. Ma sai benissimo anche tu di non potermi accusare di nulla, quindi finiamola qui anche con questa assurda conversazione. Non ti manca nulla, quindi non ti disperare.-
Poi disse brevemente qualcos’altro, che Anna non capì, e ritornò in cucina.
Era cambiato. Non era triste. Non era dispiaciuto. Era disinteressato e glaciale. Ma era bellissimo lo stesso…
Riprese la birra e ne fece un altro sorso abbondante. Poi quegli occhi scuri, improvvisamente ancora più impenetrabili, si posarono sulla piccola Anna e sulla sua gamba fasciata. La benda improvvisata si macchiava sempre di più di sangue. La ferita faticava a chiudersi…
«Finiamo la birra e poi ti porto al pronto soccorso. Hai bisogno di punti.» Sentenziò lapidario.
Anna ingoiò le patatine. Non riusciva ad opporre resistenza alle iniziative di lui. La cosa la atterriva ed irritava anche. Nel caos delle sue giornate sapeva sempre come comportarsi e non si sentiva praticamente mai smarrita di fronte a proposte, battute o conversazioni audaci e difficili. Ma non riusciva a controbattere Len, sebbene lui fosse vistosamente niente affatto perfetto, ragionevole, equilibrato o saggio. In una parola Len non era governabile secondo i consueti schemi individuati da Anna.  
«E Lorenzo?» Fu l’unica cosa che Anna riuscì a dire.
«Lorenzo lo avviso io. Vado a prendere le chiavi della macchina.»
Finì la birra e le passò affianco. I suoi occhi si posarono sul collo e la spalla nuda di Anna, priva di reggiseno e del tutto scoperta dalla t-shirt troppo ampia e scivolatale lentamente lungo il braccio… Allora si fermò, ad un passo da lei, avvicinò il braccio e racchiuse delicatamente tra due dita il bordo della maglietta… le fece scorrere il cotone sul braccio, con lentezza, sfiorandole appena la pelle col dorso della mano, quasi per disattenzione, fino a ricoprirle la spalla, guardandola negli occhi con una sicurezza disarmante…
Brividi… Respiro bloccato… Accidenti…
Era la stessa persona che non trovava nulla in casa sua?
Sì… E continuava ad essere ingestibile in ogni caso…
Qualche brevissimo istante di un interminabile silenzio e poi…
«Scusa.» le disse serio, ma privo di imbarazzo.
«Niente… Sai importi in modo inquietante. Ancora devo decidere se è una dote oppure no…» Gli rispose Anna, diretta, dando sfogo ancora una volta al suo libero flusso di pensieri, senza abbassare lo sguardo.  
«Lo so.» Concluse lui. E se ne andò in salone e poi su per le scale.
Era la prima volta che si vedevano. Avevano scambiato sì e no poche parole. Come potevano comportarsi in modo così irreale, l’uno nei confronti dell’altra…
Anna recuperò le sue cose. Infilò gli indumenti bagnati nella borsa, cercando di non stropicciarli troppo sui due libri già umidi che c’erano dentro. Si mise le scarpe. Sentì Len camminare e parlare al piano superiore. Forse era al telefono con Lorenzo…
Poi lo sentì scendere rapidamente le scale.
«Andiamo.» Le disse.
Uscirono, costeggiarono il muro della casa ed arrivarono sul vialetto del retro, dove era parcheggiata una grossa gip. Len aprì lo sportello del passeggero e buttò sui sedili posteriori un serie di cose.
«Prego. Sono secoli che non la lavo.» Le disse con tono allegro. Sembrava essere ritornato quello di prima. Era un instabile anche lui?!
«Grazie. Sono due settimane che il mio rottame, ex proprietà di mia madre, è fermo sotto casa mia, con la batteria a terra.» Gli disse lei con lo stesso tono.
Len sorrise e chiuse lo sportello, dopo che Anna si fu seduta.
Salì in macchina anche lui e mise in moto. Giunsero davanti al grosso cancello adiacente il cancelletto pedonale da dove Anna era sempre entrata.
«Apro il cancello. Aspettami qui» Fece per aprire la portiera con le chiavi di casa in mano.
«Lo apro io il cancello. È molto più complicato se lo fai tu. Passami le chiavi» Gli disse Anna spontaneamente.
Len sembrò un po’ stupito, ma poi le disse, di nuovo freddo «Non ce n’è bisogno, ci sono abituato e poi sta diluviando e tu non cammini bene».
«Piove anche per te e, quanto a me, se la pioggia fosse stata un problema, non sarei qui in queste condizioni. Adesso siamo in due, quindi approfittane! Almeno finché non mi avranno amputato la gamba!».
Len allora le passò le chiavi, senza mutare espressione, ma i suoi occhi non sembravano più così gelidi… «È quella verde…»
Anna uscì dall’auto, aprì rapidamente il cancello e si mie fuori ad aspettare, al riparo delle fronde degli alberi. Appena Len fu sul viale, richiuse e rimontò in macchina. Partirono.
«Anche tu sai importi in modo inquietante.» Le disse lui, seguendo la strada.
«Lo so.» Ripeté lei.  
Il cellulare di Len vibrò di nuovo, sul cruscotto polveroso dell’auto. «Ma si sono svegliati tutti insieme!» esclamò.
- Pronto papà. Sto guidando… Se sto guidando evidentemente non sono a casa. No. Lorenzo sta tornando dal mare. Ti richiamo io dopo. Ciao. - Riagganciò.
Dei genitori, quindi esistevano…
«Sempre nei momenti meno indicati… hanno una capacità straordinaria anche dall’altra parte del pianeta…».
«Sono in viaggio? » chiese Anna.
«Sì, da una vita direi…» Scherzò Len. «Ma Lorenzo non ti ha detto niente?»
«Be’, no. C’era qualcosa da dire?»
Len scosse il capo, con un sorrisetto divertito, si inarcò sul sedile e sfilò un pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei jeans, lo scosse appena vicino alla bocca e ghermì fiaccamente con le labbra la sigaretta che ne uscì. Con gli occhi fissi sulla strada iniziò a cercare nella vano pieno di cartacce davanti al cambio.
«Mio fratello si fa un sacco di problemi… Io invece odio i misteri sulle cose banali. I miei erano proprietari di una grossa concessionaria di auto e non sapevano neanche loro quanti soldi avessero in banca, anche perché mio padre era ricco di famiglia. …Ma dove cavolo sta l’accendino… Possibile che me ne debba sempre ricomprare uno nuovo… Poi è arrivato un tizio e papà è finito gambe all’aria, vittima di una mega truffa, trascinandosi dietro mia madre, perché avevano la comunione dei beni. Gli hanno levato tutto. Così hanno intestato di corsa questa casa a me e Lorenzo, perché non la pignorassero. Nello stesso modo mi sono ritrovato anche questa super macchina odiosa. Era di mio padre. …Scusa, non è che vedi un accendino blu da qualche parte, perché sono sicuro, cioè quasi sicuro, che fosse qui, magari mi è caduto o si è infilato da qualche parte…»
Anna si accovacciò e guardò sui tappetini e sotto il suo sedile. Ne avvistò uno giallo cui si erano appiccicate un po’ di schifezze. Lo prese e glielo passò. «Ehi… » Gli iniziò a dire «…qua sotto c’è un supplì solidificato… che faccio, lo prendo e lo buttiamo o lo lascio lì?» Lui fece un tiro e le rispose «Per ora lascialo lì. Tanto ormai ci starà da tanto di quel tempo che un giorno in più non sarà un problema.»
«Comunque eri arrivato al crash finanziario ed al fatto che ora avete la casa e la macchina»
«Ah sì. Be’, io già lavoravo da tempo e mi stavo cercando una sistemazione autonoma e Lorenzo era in seconda media. Per ricostruire qualcosa di decente i miei hanno pensato di partire per l’Inghilterra, dove mio padre, a suo tempo, aveva costruito tutto e perché di fare un lavoro “normale” non se ne parlava proprio, a detta loro. Avevano tutti gli agganci lì. Mio padre è inglese, trapiantato qui. Ecco il perché del mio nome assurdo. Due genitori di diversa nazionalità, due figli, due nomi, uno straniero e l’altro italiano. Io ho avuto la sfortuna di beccarmi quello inglese, che però di anglosassone non ha niente… Ad ogni modo, sono partiti. Io naturalmente sono rimasto qui e Lorenzo è partito con loro. Ma non sapevano cosa fare, perché era ancora piccolo. Loro a casa non c’erano mai e con lui non arrivavano a coprire le spese, compresa quella del college inglese… Così gli ho proposto di farlo stare qui con me perché, con quello che guadagnavo io e quel poco che loro sarebbero riusciti a mandarci, avremmo potuto farcela sicuramente. A loro è andata bene ed anche a lui.
Ancora non hanno ricostruito la società prolifica che avevano e con quella attuale sono ancora in rosso. Non so se ce la faranno. Comunque, ora noi viviamo la nostra vita qui e loro vivono la loro lì.
Questo è tutto, raccontato nel modo più sintetico possibile. Ah, ecco le indicazioni per l’ingresso del pronto soccorso. Ti lascio lì, vado a parcheggiare e poi ti raggiungo.»
Quando Anna scese dalla macchina cominciò a pensare. Ora intuiva molte cose in più, al di là del “mistero” svelato che, raccontato in quel modo, non sembrava poi così assurdo… Nonostante questo, continuava a chiedersi “chi” fosse Len… Sempre diverso da se stesso… Scombinato, disordinato, riservato e ombroso, sfuggente e ambiguamente audace, meravigliosamente audace, ed un attimo dopo libero di sciorinarle in quattro parole una situazione familiare difficile… Stava facendo troppi pensieri su uno che conosceva appena. Doveva smetterla. Però non le sembrava di conoscerlo appena…
Era seduta con un foglio in mano su una lunga panca appoggiata lungo una parete di un corridoio largo e bianco, popolato di svariate persone che aspettavano, nonostante fosse il 20 Agosto.
Anna se le guardava.
Una donna con un’ustione sulla mano, con un marito iperapprensivo che si alzava ogni due minuti, mentre lei se ne rimaneva placidamente seduta. Un bambino con un grosso livido su un piede gonfio ed una busta di ghiaccio secco sopra, con i genitori abbronzati ed in tenuta da spiaggia che cercavano di farlo giocare con un robot di plastica e di non farlo gridare come un’aquila. Un signore con un braccio fasciato col figlio che sbraitava al telefono, raccontando a qualcuno che suo padre s’era messo in testa di aggiustare da solo una vecchio mobile e s’era, forse, rotto un braccio, non si sapeva bene come…
La donna con la mano ustionata notò la benda insanguinata di Anna e poi incrociò gli occhi della ragazza.
«Ti sei fatta molto male…» Le disse dolcemente «Ma sei sola qui…?»
Anna realizzò solo in quel momento che non era sola, che stava aspettando Len…
«No… Sto aspettando…» Chi stava aspettando? Un amico? «…Sto aspettando qualcuno…è andato a parcheggiare…»
«Ah, bene, meno male… » Le sorrise rincuorata. Poi ritornò garbatamente all’attacco «Ma hai fatto tutta la trafila da sola?»
«Sì, be’, non è stato così terribile…» Le rispose Anna, increspando lievemente gli angoli delle labbra. Quella donna si era scelta un marito appropriato. Erano fatti l’uno per l’altra.
Dal fondo del corridoio comparve Len, con le mani in tasca. La individuò da lontano e la raggiunse. Superò gli altri, lentamente, osservandoli per bene e alla fine si sedette accanto a lei, continuando a fissare il tizio che sbraitava al telefono. Si guardarono, Len e Anna e, senza dirsi nulla, si misero a ridere sommessamente…
Poi Anna, ancora col tono di voce divertito della risata, gli disse «Ci sarà un po’ da aspettare. Io dopo andrò al lavoro, tanto è qui vicino, prenderò un taxi. Tu tornatene a casa, altrimenti dovrò comprarti un carico intero di biscotti per sdebitarmi. Mi conviene il taxi.»
«Al lavoro! Sono già quasi le otto…»
«Ah… Be’ sì… Forse dovrei avvisare che arriverò in ritardo…Ehm…»
Len sfilò il suo cellulare dalla tasca e glielo passò «Il tuo è sul cuscino del tuo letto, se non sbaglio. Adesso siamo in due, approfittane!».
«Ok. Affondata… Grazie! »
-Ehi Su, sono Anna. Al volo che non sto col mio telefono, quindi ascolta tutto senza interrompermi. Prima di tutto, tranquilla, non ti mollo di sabato notte. Sono in ospedale, nulla di grave, ma farò un po’ tardi. Ho un taglio sul ginocchio, quindi magari mi metto alla spina o al bar, al massimo facciamo fare la spola ad Isa. Tutto chiaro? Ok, grazie. Ci vediamo dopo.-
«Perfetto, tutto risolto. Grazie ancora. Puoi andare, veramente.» Insistette Anna, serena.
«Fai un po’ come ti pare sul posto di lavoro… » Commentò incuriosito Len.
«Ci lavoro da un sacco di anni… Ormai sono di casa e poi gli ho fatto un sacco di favori coprendo turni che non mi spettavano e non ho problemi a chiedere qualcosa. C’è reciprocità.» Chiarì Anna alzando le spalle.
«Non male…Non devi avvisare nessun altro, magari i tuoi?» Le chiese Len.
«I miei sono in vacanza e credo sia meglio che glielo dica domani. Altrimenti partirebbero inutilmente in questo preciso istante e arriverebbero quando sarò ancora nel mio letto, domani mattina…»
«Vivi sola?» Le chiese ancora lui.
«Sì. Da meno di un anno. Dopo aver capito che con la mia laurea non avrei mai potuto permettermi di vivere sola, ho triplicato i giorni al locale e ho messo i volantini delle ripetizioni. Un caro amico dei miei voleva affittare un appartamento senza dichiararlo al fisco e così mi sono ritrovata con una piccola casa ad un costo umano. Una casa dove io ufficialmente non esisto, ma poco importa. Voi avete una villa fantastica…»
«Uhm. Hai completamente abbandonato i tuoi studi?»
«No… Ma sto pensando di farlo… Per il momento sto facendo un master e mi sto solo ammazzando, tra studio e tirocini la mattina e lavoro nel resto della giornata… Ma i frutti non li raccoglierò, sarà solo un inutile titolo in più, dopo il quale ce ne vorrà un altro e un altro ancora… Ed io sono stufa. Anche tu fai due lavori vero?»
«Sì…Sei un fiume in piena ad ogni domanda, non si può certo dire che lesini le risposte…» Notò sottilmente Len.
«Be’, lo stesso potrei dire io di te… Mi hai riversato addosso gli ultimi quattro anni di eventi della tua famiglia…» Era vero, ma in fondo Len non gli aveva detto nulla dei suoi stati d’animo conseguenti… Anna invece lo aveva fatto, anche se in minima parte…
«Forse… Comunque Lorenzo dice che sei brava…»
«Davvero?» Gli chiese Anna con gli occhi felici. «La cosa più difficile è relazionarsi… Sai, io non mi sento così diversa da loro, anzi… E non sai mai come ti prenderanno.» Poi Anna cambiò tono e divenne seria e quasi autorevole «Lorenzo ce la sta mettendo tutta. Se continua così l’esame lo passerà, stiamo facendo cose più complesse di quelle che gli chiederanno e se la sta cavando. Ma non glielo dire. Lo farò io l’ultimo giorno di lezione.»
«D’accordo.»
Qualcuno bussò alla porta dell’ambulatorio, qualche metro più avanti, per chiedere informazioni e poi se ne andò. Era una ragazza. Bella. Len la guardò, discretamente, molto discretamente, di sfuggita, rimanendo immobile, soltanto alzando lo sguardo per qualche impercettibile attimo, noncurante e ritornando ai suoi pensieri subito dopo. Anna infatti non se ne accorse, anche perché la stava osservando pure lei, un po’ meno celatamente di quanto avesse fatto lui. E quella ragazza guardò Len. Prima una lieve occhiata. Poi se lo studiò per bene, quasi lo avesse dovuto imparare. Ma quando ciò avvenne lui aveva smesso da tempo di notarla… Era alta, ma probabilmente i tacchi la aiutavano parecchio. Tutti ciò che indossava le rendeva giustizia. Non aveva un dettaglio fuori posto. Era proprio bella ed anche sensuale…
Anna si guardò: scarpe da ginnastica bagnate e vecchie, un calzino rossiccio e sanguinolento, pantaloncini umidi e sporchi di tutte le schifezze che la pioggia poteva radunare su un asfalto estivo, una t-shirt di quattro taglie più grandi, un ginocchio impacchettato con un grosso fazzoletto di stoffa intriso di sangue e l’altro pieno di cicatrici da bambino scalmanato…
«Una superdonna…» commentò serena. Non c’era invidia o sconsolatezza nelle sue parole. Forse un po’ di ironica e divertita coscienza di sé.
«…Una superdonna…?» Si interessò Len, attratto da quel termine uscito spontaneamente dalle labbra della piccola ragazza che le sedeva affianco.
«Quella che è appena passata. Io le chiamo superdonne quelle come lei. Quelle che se fossi un uomo non potrei resistergli, credo. Quelle che nascono senza ghiandole sudorifere e senza bulbi dei peli, che si sostentano di nettare e ambrosia e sono tremendamente e sfacciatamente donne perfette in tutto quello che fanno.» Gli aveva risposto Anna.
E allora Len la esaminò, di nuovo. L’aveva fatto tante volte e tante volte in modo diverso… forse troppe volte… e gli angoli delle sue labbra si sollevarono in un tenue sorriso, che gli scoprì appena la candida dentatura.
Anna allora inclinò la testa leggermente «Sono comica?»
«No.» Gli rispose lui, quasi parlando tra sé e sé, «Sei vera.»
Ma quel tono mutò immediatamente… Si alzò e le disse, squillante «Non hai fame? Vado a prendere qualcosa alla macchinetta di sotto. Cosa vuoi?»
«Sì, ho fame, non ho pranzato. Vengo con te, tanto qui credo di essere l’ultima e non mi chiameranno nel frattempo.»
Len assunse un’espressione inesplorabile… Anna la interpretò a modo suo e gli disse subito «Ops… Scusa, magari hai bisogno di fare qualcosa per conto tuo. Ti aspetto qui. Solo un attimo… Ecco, cinque euro dovrebbero bastare per entrambi. Io qualcosa di salato e di abbondante, per quello che possano contenere i distributori automatici. Grazie.»
Ma Anna non aveva interpretato bene… Del resto non poteva farlo…
«No… Non devo fare nulla per conto mio… Vieni.»
«Uhm… Guarda che non mi offendo mica se devi fare una telefonata. È normale.»
«No. Vieni.» Ribadì lui, serio.
Anna allora si alzò. Si incamminarono insieme lungo il corridoio, in silenzio, il ragazzo alto e la ragazza minuta che poteva imporre la sua andatura lenta solo perché lui si adattava generosamente ad essa, rimanendogli sempre affianco.  
La donna gentile con l’ustione sul braccio li guardò allontanarsi e sorrise «Quei due sono fatti a modo loro, credo che ancora non se ne siano accorti, ma sono fatti l’uno per l’altra…» disse al marito.
Si ritrovarono in una grande sala al pianterreno, spoglia, illuminata indirettamente solo dalle luci al neon della vicina entrata dell’ospedale. Qualche panca lucida lungo le pareti e sedie di plastica in fila, al centro, come quelle delle sale d’attesa dei gates dell’aeroporto. Vetri degli sportelli serrati sotto display spenti. Grossi pilastri cilindrici frammentavano il grande spazio e dietro uno di essi la luce accesa di due distributori automatici. Non c’era nessuno.
La macchina non dava resto… Len cominciò a cercare nelle tasche e tirò fuori un fazzoletto di carta appallottolato e solidificato dalla centrifuga della lavatrice, uno scontrino, due biglietti ammucchiati del cinema e qualche moneta… Anna affondò il braccio nella borsa e tirò fuori un portafogli leggermente insabbiato…
Una lattina di coca cola, una bottiglietta d’acqua minerale, un pacchetto di salatini ed una confezione con due tramezzini, l’ultima… Avrebbero fatto uno a testa.
Si misero seduti su uno dei lunghi sedili disposti lungo le pareti di quella grande sala desolata ed Anna aprì la vaschetta di plastica e la avvicinò a lui. Len prese un tramezzino pieno di maionese e lei fece lo stesso. Li addentarono e li finirono in un attimo.
«Oh no…» bofonchiò Anna, guardandosi un schizzo di maionese sulla maglietta «Niente fazzoletti ovviamente… Scusa… Comunque andrà via, ci penserò io, non ti preoccupare…»
Poi si accorse che la t-shirt le era nuovamente calata da un lato… Len seguì i suoi occhi e si ritrovarono entrambi a rivolgere lo sguardo su quella spalla ancora nuda… Entrambi in silenzio, nel condividere qualcosa che solo loro due potevano conoscere, un breve ricordo ingombrante, scomodo per due persone che si conoscevano appena…
Anna espirò lentamente e senza alzare gli occhi riportò piano la maglietta fin sotto il collo e lasciò la mano lì, ferma, stretta al cotone… Rimase così, come protetta da quel braccio serrato al seno e da quella mano stretta sulla maglia sotto al collo, e alzò timidamente lo sguardo. Incrociò gli occhi scuri di Len… Timida… Improvvisamente insicura e a disagio…
«Non avrei commesso la stessa imprudenza due volte…» Le disse, rilassato, con voce pacata e profonda. Poi, col dorso della mano, le sfiorò delicatamente il collo, solo per un attimo, continuando a guardarla…  
E invece l’aveva fatto. Ora. Di nuovo. La stessa identica, disarmante, incredibilmente passionale imprudenza… Come faceva ad essere così sicuro di sé!
Durò tutto pochissimo.
«Torniamo su all’ambulatorio. Questi li mangeremo lì, altrimenti rischi di passare il tuo turno.» Le disse lui tranquillo, mentre si alzava e recuperava i salatini, la lattina e la bottiglietta d’acqua.»
Anna era rimasta seduta. Ci si stava impaludando completamente? Lui era solo un lurido pezzo di merda che ci sapeva fare? A giudicare dalla telefonata che aveva ascoltato, forse sì…
«Allora? Saliamo?» Le disse lui, in piedi di fronte a lei.
«Sì. Senti, la mia è una semplice domanda… quindi non ti offendere… cercherò di dargli l’intonazione giusta, per non farti capire male…: di te stesso, potresti dire di essere uno “stronzo”?»
Len non esitò neppure un attimo nel rispondere, serafico «Potrei definirmi cinico ed avventato… il che equivale, per alcuni, a “stronzo”. Ma dato che il mio giudizio sulle persone lo tengo per me, perché odio discutere, loro mi possono raramente imputare qualcosa ed il mio cinismo rimane nascosto. Vivi e lascia vivere. E tu invece, e non è un’offesa, è sempre solo una domanda… ti definiresti “irriverente”?»
«No, più che altro libera di esprimere tutto quello che penso… il che equivale, per alcuni, a “irriverente”. Ma so sempre quali sono le persone con le quali posso essere me stessa… Comunque ora saliamo…» Concluse Anna, alzandosi.
Cosa le aveva voluto dire, che era solo avventato, perché del suo cinismo non sapeva niente nessuno? Le “persone” ignare del suo giudizio, alle quali si era riferito, potevano essere semplicemente tradotte in “donne”? Non era uno stupido. Certamente aveva collegato la domanda di Anna al suo gesto di poco prima… Ma di nuovo non le aveva detto niente, a parte il fatto che era uno che si faceva gli affari suoi… Len le aveva raccontato i suoi casini familiari e le aveva tranquillamente detto di essere un cinico. Ma non era sceso minimamente sul personale, nonostante questo. Rimaneva impenetrabile. Ma lei cosa pretendeva? In fondo non si conoscevano. Anna però si sentiva uno stupido libro aperto… Lei gli aveva confessato molto di più, senza neppure rendersene conto: gli aveva praticamente appena spiattellato che con lui si sentiva libera di essere se stessa… Una dichiarazione sarebbe stata meno invadente!
Attraversarono tutta la grande sala buia «Scusa…» Esordì Anna, sommessamente «Sono stata ingiusta e molto invadente…»
Len sorrise, continuando a guardare davanti a sé, e poi le disse «Siamo pari, adesso. Anch’io ho versato le mie lacrime di coccodrillo, oggi pomeriggio».
Allora la guardò per un breve istante, con un impalpabile sorriso e gli occhi scuri e limpidi. Poi girò di nuovo il capo e riprese a guardare davanti a sé.
Era ancora sicuro di sé? No… era diretto e privo di imbarazzo, ma quel viso era diverso, le era sembrato diverso ora… Cosa doveva fare?
Alzò il mento e lo osservò. Camminava adagio, al suo fianco, il suo profilo perfetto si scioglieva definito e netto e si perdeva sulla lieve prominenza di una mascella appena sporgente e poi scivolava delicatamente lungo il collo sinuoso e maschio, fino ad incunearsi nella contenuta fossetta alla base del collo ed a perdersi sotto il cotone della maglietta, su un torace disteso e accogliente…
Si sentì minuscola… gli occhi le si posarono sulle sue labbra… Si rese conto che avrebbe voluto solo baciarlo e raggomitolarsi tra le sue braccia… che l’aveva voluto fin dalla prima volta che l’aveva visto…
Arrivarono di nuovo nel corridoio dell’ambulatorio. Forse la donna col marito o l’uomo col braccio forse rotto erano stati dirottato a qualche altro reparto, perché nel corridoio c’era rimasto solo il bambino con i genitori. Ma Anna non fece caso al chiasso che facevano… Aspettarono ancora. Sgranocchiarono i salatini. Ma non parlarono. Nonostante questo non c’era tensione, non c’era imbarazzo, non c’era formalità, ma solo calma e serenità. Len aveva i gomiti appoggiati alle ginocchia, faceva distrattamente scorrere le labbra socchiuse sul dorso della mano, ruotando piano il capo inclinato, e guardava davanti a sé, immerso nei suoi pensieri.
Si aprì la porta dell’ambulatorio ed uscì un’infermiera «Anna… Non si capisce il cognome… Quella col taglio sul ginocchio…»
«Sono io.»
Len la osservò entrare. Poi la porta si chiuse.
 
Quando finalmente uscì, zoppicando, erano le nove passate ed aveva una grossa benda di garza candida sul ginocchio. Niente più chiazze di sangue. Il medico uscì dietro di lei.
«Signori. Sono arrivate le lastre del bambino» La coppia stremata in tenuta da spiaggia si avvicinò subito al dottore.
Anna si guardò intorno. Len non c’era.
Era stata dentro parecchio… Era normale che lui fosse andato via… Era pur sempre sabato sera…
Si sedette stanca sulla panca vuota, da sola.
Era appena riuscito a farle ammettere con se stessa che le piaceva da morire e ora non c’era più…Perché le dispiaceva così tanto… Ripensando a quelle poche ore le sembrò che fossero durate secoli. Ma cos’era che la attirava così tanto di lui? Era sconclusionato, non si capiva cosa pensasse veramente, era un disastro, era instabile, era in grado di essere glaciale, era… era… era sulla sua stessa lunghezza d’onda per moltissime cose, era gentile, era riuscito a domare senza sforzo quel suo carattere da “dura”, lavorava per mantenere se stesso e suo fratello… e poi… quando l’aveva solo sfiorata, Anna non aveva capito più niente… le rivenne in mente l’immagine di lui, alto, con il cappuccio bagnato della felpa sul capo che la guardava con quegli occhi neri…era bellissimo…
Ma perché le cose doveva capirle bene solo a posteriori? Perché non l’aveva baciato quando lui le aveva scostato la maglietta dalla spalla? Tanto lui se ne sarebbe andato lo stesso, no? Cosa aveva avuto da perdere? Niente. Quelle erano state solo poche ore. Solo un tardo pomeriggio di un sabato di Agosto che avrebbe dimenticato in breve tempo, insieme a tutti quei folli pensieri per uno sconosciuto. Uno sconosciuto… Ma perché era andato via… E che altro avrebbe dovuto fare? Glielo aveva detto lei che avrebbe preso un taxi! Aveva convinto pure se stessa che sarebbe stato meglio così! Perché continuava ad essere così triste…
Fortunatamente qualcosa la distolse da quei brutti pensieri.
Il bambino col piede rotto, che evidentemente era stanco di urlare e piangere, si stava pericolosamente sporgendo dalla panca, nel tentativo di arrampicarsi per afferrare la busta del ghiaccio secco, ormai inutile, che qualcuno aveva poggiato sull’ultimo ripiano di uno scaffale adiacente al sedie dove lui era seduto.
I genitori erano di spalle, ancora a parlare col medico. Non faticò a capire come quel ragazzino si fosse rotto un piede se i genitori lo mollavano senza controllarlo e lui aveva l’istinto dell’uomo ragno.
Anna si alzò il più velocemente possibile e bloccò il bambino, che la guardò stupito, allora lei lo fissò e gli disse sottovoce «Te lo prendo io quello, ma tu devi rimanere immobile, assolutamente immobile. Fammi vedere se ci riesci. Se non lo farai quello rimarrà lì sopra.» Il bambino si bloccò,  senza fiatare. Sapeva che se avesse parlato o urlato i genitori se ne sarebbero accorti e lui si sarebbe pure potuto scordare quel sacchetto inutile di ghiaccio secco, che però sembrava piacergli molto di più del robot di plastica. E lo aveva capito anche Anna che per quello aveva parlato sottovoce. Il perché stesse “collaborando” con quel bambino e non si limitasse a chiamare i genitori era nell’indole di quella piccola ragazza dai capelli neri.
«Bravo. Vedo che hai afferrato il mio patto. Io adesso lo prendo e tu devi sempre rimanere immobile mentre lo faccio, altrimenti farò fare a quel sacchetto una brutta fine. Chiaro?». Il bambino annuì, serio.
Il problema era che l’ultimo scaffale era alto anche per Anna… Forse per quello si era alleata a quel bambino, perché era come lei… La panca era troppo lontana dal ripiano e del resto pure il bambino aveva cercato di sporgersi solo per arrampicarsi sullo scaffale stesso. Anna controllò che il mobile fosse ancorato alla parete. Lo era. Poggiò il piede della gamba sana sul primo ripiano, afferrò con una mano l’imposta laterale e si tirò su, lasciando penzoloni il ginocchio bendato, allungò il braccio ed afferrò il sacchetto.
«Ma che cazzo stai facendo?!»
Anna si girò appena e si ritrovò davanti gli occhi di Len, all’altezza dei suoi, e percepì il suo corpo che le sfiorava la schiena… Poi sentì la presa delicata delle sue mani sulla sua vita…
«Vuoi farti ancora più male!?»
La stretta si fece più possente. La sollevò piano, fece un passo indietro e la riportò sul pavimento. Era dietro di lei, a pochi millimetri da lei, profumava di bucato, saponetta e vagamente di tabacco… Sentiva il suo respiro sul collo e le teneva ancora le mani sui fianchi… Poi la fece ruotare lentamente verso di lui, guidandola tra le sue braccia e allora Anna, alzando il mento, poté di nuovo guardarlo negli occhi…
«Perché ti sei arrampicata là sopra?» Le chiese ora curioso, senza disapprovazione. Non si allontanava da lei, non interrompeva quel leggero contatto delle sue mani…
«Volevo prendere questo sacchetto a lui… Si stava scalmanando sulla panca e stava per cadere per prenderlo da solo… »
Mentre parlava Anna si rivide appesa al mobile, con un ginocchio fuori uso ed una sacchetto di ghiaccio secco usato in mano, con un ragazzino di tre anni immobile sulla panca, che la guardava e faceva il tifo per lei, di nascosto dai genitori…
«E tu hai pensato bene di arrampicarti al posto suo…» Sorrise Len «Sei come lui. Ingestibile… Probabilmente avrei fatto la stessa cosa.» E la lasciò andare, facendo un passo indietro.
«Con la differenza che tu non avresti dovuto arrampicarti.» Ribattè Anna.
«Già. Vado un attimo in bagno. Torno subito e ce ne andiamo»
«D’accordo…»
Len scomparve dietro la porta del bagno ed Anna sospirò rumorosamente…
Accidenti… Il cuore le andava ancora a mille…
Porse l’agognato sacchetto al bambino, che nel frattempo avrebbe potuto anche buttarsi dalla finestra e lei non ci avrebbe minimamente fatto caso…
La madre finalmente rivolse di nuovo l’attenzione al figlio, vide Anna davanti a lui e si avvicinò.
«Oh, grazie… Ti ha dato fastidio? Scusa… è stata davvero una giornataccia! Ah, il tuo ragazzo è uscito un attimo a fumare una sigaretta, ci ha detto di dirtelo se fossi uscita nel frattempo. Tornerà subito.»
«Ah…Grazie… Allora aspetto…» Quasi in imbarazzo, per tutto ciò che quella donna le aveva detto…
Si appoggiò alla parete e vi abbandonò la testa mentre un sorriso di tenerezza le scioglieva i brividi di prima e le faceva aumentare il languore che già aveva nella pancia.
Poi guardò il bambino che la stava fissando. Mutò. Portò seria l’indice sulle labbra, nel gesto di sigillare un segreto dietro il silenzio… Lui fece lo stesso. Questo fu il loro saluto.
Len uscì dal bagno ed Anna gli andò incontro.
«Quindi?» Le chiese lui, indicando il ginocchio con un gesto del capo, mentre si incamminavano verso l’uscita.
«Sei punti… »
«Uhm. Sicura di andare a lavoro? »
«Certo! Mica mi hanno segato la rotula! Non mi fa male, basta non piegare tanto il ginocchio. E poi non dovrò camminare tanto. Finché non mi toglieranno i punti starò dietro al bancone.» Gli disse radiosa Anna.
«Va bene. Qual è il locale?»
«Il “Downstairs”, è vicino casa vostra, quello sulla piazzetta dietro il… »
«Lo conosco, so dov’è.»
«Perfetto! Non ti ho mai visto lì però…»
«Sono andato a sentirci qualche concerto. Ti ricordi tutti quelli che ci entrano? Se ci riesci hai la mia stima. È sempre affollatissimo fino a notte inoltrata.»
«È vero… In realtà non mi ricordo nessuna faccia…» E non poteva aggiungere che però “lui”, se l’avesse visto, se lo sarebbe ricordato… Ma quanto si era rincretinita?
Uscirono dall’ospedale. Era buio. Non pioveva più.
 
Len accostò l’automobile al marciapiede della piazzetta su cui si affacciava il “Downstairs”. C’era già gente fuori. Nonostante la città fosse ancora semideserta quel locale non era mai vuoto ed ai pochi rimasti o già rientrati dalle vacanze si aggiungevano tanti ragazzi stranieri, dirottati lì dalle guide turistiche e dai passaparola.
Len spense il motore. Anna si tolse la cintura.
«Laverò la maglietta e toglierò la macchia. La riporterò uno dei prossimi giorni che verrò per le ripetizioni di Lorenzo…»
Len sorrise «Ma figurati se mi faccio il problema per una macchietta. Come ci arrivi qui in genere?»
«Ah… Ehm… Abito qui dietro! Questo posto l’ho scelto apposta.» Gli sorrise, inclinando il capo. L’aveva scelto apposta, anni prima, vicino alla casa dei suoi genitori… I volantini per le ripetizioni li avevi appesi lì e nel quartiere dove si trovava il suo piccolo appartamento, perché erano i due luoghi in cui divideva le sue giornate. Ma quel suo piccolo appartamento non era affatto dietro l’angolo… In quelle due settimane senza macchina era tornata con il passaggio di qualche anima pia o con l’autobus notturno, insieme ad un altro paio di ragazze che stavano lavorando lì nel periodo estivo e prendevano la stessa linea. Doveva assolutamente mettere in croce qualcuno per far ripartire la sua auto, doveva smetterla di adattarsi così agevolmente alle situazioni scomode, senza neanche porsi il problema di risolverle!
Anna proseguì a parlare «Ora vado…Non so se ci rivedremo. Non sono rimaste molte lezioni ed abbiamo degli orari completamente diversi, io e te… Be’, io… Grazie…Troverò un modo per sdebitarmi!» Poi guardò l’ora. «È ancora presto, la serata puoi ancora recuperarla, perlomeno!»
Len la guardava e rimase qualche istante in silenzio. «Sì, posso ancora recuperarla.» Le disse alla fine lapidario.
«Ciao»
«Ciao»
Anna chiuse lo sportello della gip, le girò intorno ed attraversò la piazza… Sentì lui accendere il motore. Allora si voltò e lo guardò. Si stava accendendo una sigaretta, col capo chino sull’accendino ed una mano davanti per ripararlo dall’aria che entrava dal finestrino aperto…
«Len!» Lo chiamò a voce alta. Era la prima volta che lo chiamava per nome. Lui sollevò la testa nella sua direzione.
«Grazie!» Gli gridò, sollevando una mano per salutarlo ancora.
Lui non sorrise. Sollevò appena la mano, con la sigaretta scesa tra le labbra.
Anna si girò e si avviò verso l’ingresso del locale, zoppicando. Lui la seguì con lo sguardo finché non scomparve tra la folla di ragazzi. Poi abbandonò la testa sullo schienale del sedile e partì.
 
Anna si fece largo tra le persone che affollavano il bancone.
«Ehi Su! Su!» Gridò in quel putiferio di voci e musica. Su si voltò col viso concentrato. Suzanne, la “direttrice”, poco più grande di Anna, scozzese innamorata di Roma, capelli rossi, lisci e pesanti, tante lentiggini. Si addolcì riconoscendola e sospirando «Anna! Tutto bene?»
«Sì, sì, tutto bene. Dammi la chiave del magazzino, ho bisogno di una di quelle magliette della Campari che sono avanzate. Faccio in un attimo, tanto il peggio deve ancora arrivare.»
Si dileguò giù per le scale di servizio. I suoni le giungevano ovattati. Dal magazzino prese la maglietta che le serviva e poi entrò nello spogliatoio. Si tolse i pantaloncini corti, con qualche difficoltà, li schiaffò nel suo armadietto insieme alla borsa e tirò fuori un paio di jeans. Li indossò. Fortunatamente erano strausati ed erano un modello un po’ maschile, dritti e leggermente larghi sulle gambe, così poté sistemarli senza che toccassero il ginocchio. Poi si sfilò l’enorme t-shirt. La portò timidamente al volto e respirò. Bucato, saponetta e tabacco… Che stupida! La ficcò nell’armadietto.
L’aveva fatto di nuovo. Niente “carpe diem”… Lo aveva salutato, punto e basta. E ora lo avrebbe rivisto? No… Sicuramente no…
Gli aveva mentito sulla sua casa… Il perché? Forse l’insensatezza. Forse la seccatura di spiegare le diverse opzioni del suo ritorno, quando sapeva di avergli detto che la sua macchina era fuori uso. Forse in fondo le dava fastidio che lui fosse stato l’unico ad averla vista tanto vulnerabile ed in difficoltà. E quindi forse perché temeva che agli occhi di lui le sue peripezie notturne non sarebbero state un indizio di autonomia e libertà, come invece tutti avevano sempre pensato di lei. O forse aveva solo voluto eliminare del tutto la possibilità di sperare… Ma sperare cosa? Forse che lui si offrisse di portarla al lavoro tutti i giorni solo perché abitava lontano? Che idiozia… Aveva mentito per un motivo troppo assurdo! Ma l’aveva fatto per quello. Perché lei era Anna ed Anna, lo sapevano tutti, se la cavava alla grande da sola, sempre. Era quella la sua forza. E lui era l’unico a non averla conosciuta sotto questo aspetto. Era stata una femminuccia spaurita con lui… Era così irritante!
Si mise il lungo e dritto grembiule nero e lo strinse all’altezza dei fianchi, tirò su l’orlo posteriore dei pantaloni e ne infilò alla buona un lembo appena dentro le scarpe, dietro, perché lì le finiva di parecchio sotto la suola, si mise al volo un po’ di mascara e risalì. La musica la investì insieme a quella scarsa luminosità costellata qua e là di insegne scintillanti e colorate. Andò dietro al bancone, rastrellò le mance e le mise nel bicchiere, suonò la campana e non ebbe tempo di pensare più a niente…
 
Con il volto stanco Anna spruzzò il detersivo sul piano della spina e ci versò un bricco di acqua bollente per sciogliere i residui appiccicosi della birra.
Non c’era più la musica, ma solo le chiacchiere rilassate dei colleghi, il rumore delle sedie che venivano sollevate sui tavoli, lo strusciare delle scope sui pavimenti e dal retro il tintinnare di bicchieri poggiati sui ripiani… La serata era finita. Erano le quattro passate.
Su depositò sul bancone una cassa piena di alcolici da risistemare sui ripiani per rimpiazzare quelli che erano stati consumati. Sospirò e disse «Cavoli che serata… Ma quando saranno rientrati tutti in città cosa ci aspetterà!?»
«Non ci posso neanche pensare… Mi auguro solo di riabituarmi nel modo più indolore possibile ai ritmi pesanti che ci accompagnano tutte le sere di tutto l’anno, così come mi sono adagiata a quelli più soft delle ultime due settimane… Soft… Più che soft, direi diversi… Sarà che d’estate la gente sembra abbia voglia di fare chissà che…»
Su passò dietro al banco. «Spiniamo qualche birra per tutti. Ci vuole! Poi vatti a cambiare, qui finisco io, tu hai un viso distrutto. Stasera hai dato fin troppo e mi sa che hai esagerato, cammini peggio… Fila di sotto.» Aggiunse con tono autorevole.
Anna si tolse solo il grembiule e si limitò a prendere i pantaloncini e la maglietta di Len ed a buttarli dentro la borsa. Passò al bagno. Si bagnò le mani, le passò alla rinfusa sui capelli e le lavò. Per fortuna non aveva fatto caldo e non aveva sudato… Almeno quello… Risalì le scale senza neppure essersi guardata nello specchio.
Si godettero quella birra fresca tutti insieme, seduti e rilassati, chiacchierando mentre facevano i conti per dividersi le mance ed il proprietario faceva chiusura cassa.
«Io intanto esco, mi sono già cambiata, lascio qualche sacco della spazzatura fuori e vi aspetto lì.» Disse Anna alle due colleghe con cui avrebbe condiviso l’autobus notturno.
Con la lunga borsa di tela a tracolla, che ormai era diventata una valigia piena di roba, si trascinò due sacchi neri e li depositò davanti alle serrande già abbassate del locale. Poi zoppicò vistosamente fino alle transenne bianche che delimitavano i marciapiedi della piazza deserta, illuminata dalla luce gialla dei lampioni, silenziosa. L’aria era fresca, quasi fredda. Portò le mani sulle braccia e le strinse, sollevando le spalle. Cercò nella borsa. Era tutto umido e bagnaticcio. Avrebbe anche potuto mettere tutti i vestiti zuppi in una busta di plastica. Avrebbe anche potuto evitare di mettere lì dentro anche la maglietta di Len, che era l’unica cosa ancora asciutta… No. Non avrebbe potuto, inutile rammaricarsi. La tirò fuori e la indossò, era comunque ancora umida in modo accettabile rispetto al resto e l’unica cosa in grado di scaldarla un po’.
Era esausta e sentiva la presenza di quella ferita, ovattata e lievemente dolorante sotto i jeans… Si girò e con un piccolo sforzò si appollaiò seduta sulla sbarra, rivolta ora verso il palazzo, davanti alle serrande del locale.
E lo vide…
Era fiaccamente appoggiato al muro dell’edificio, poco più in là. Con le mani in tasca ed una felpa e la guardava. Anna non riuscì a fare niente. Rimase imbambolata a fissarlo…
Lui si scostò dalla parete e si avvicinò, continuando a tenere le mani in tasca. Pochi passi e fu davanti a lei, in piedi.
«… Ciao… » Riuscì a scandire Anna, quasi in un sussurro.
«Ciao. » Rispose lui, calmo, con voce calda e limpida, al contrario di lei.
«È… É molto che sei qui?»
«No. Non molto. E tu non abiti qui dietro.» Le rispose con una tranquillità ed una sicurezza spaventose.
«Sì, be’… Ma questo che c’entra… Perché sei qui…?»
«Recupero la serata.» Le disse con lo stesso identico tono di voce pacato. Si avvicinò un po’ a lei.
Le posò delicatamente le mani sui fianchi. Continuarono a fissarsi mentre lui la sollevava e senza sforzo la rimetteva in piedi davanti a sé, un’altra volta.
I suoi occhi non erano freddi…Vicinissimi… Bucato e tabacco…
«Ti preferisco in piedi, minuta, qui davanti a me…» Mormorò.
Lasciandole una mano sul fianco portò l’altra all’altezza dei suoi occhi e le accarezzò dolcemente la guancia col pollice, lento… Passò a sfiorarle il collo. Raggiunse la nuca e la avvolse nella mano calda, delicata e sicura.
La avvicinò appena più a sé, per quanto ancora si potesse…
Poi chinò il capo e le sfiorò la bocca con le labbra socchiuse … Anna sentì il suo respiro fresco…
Lui inclinò impercettibilmente il capo e la sommerse con tenerezza, in un bacio breve, morbido ed umido… Poi si scostò appena, volse piano il capo dall’altra parte, sfiorandole il naso e scrutando la sua bocca. Si riavvicinò. Senza chiudere gli occhi, senza baciarla, fermo a guardarlo da vicinissimo le labbra…
Anna si aggrappò al bordo della sua felpa, si sollevò appena su una punta, lasciando l’altra abbandonata, ed andò incontro alle sue labbra soffici e lisce, che la avvolsero in un molle tepore… Sentì la sua mano che dal fianco le scivolava distesa sulla schiena, e tutto il braccio arrivava a cingerla ed a sorreggerla… La strinse a sé, continuando a baciarla, e lo fece piano e lentamente, come se avesse avuto paura di fare troppo forte…
E Anna sprofondò in quel bacio ed in quell’abbraccio, si sciolse e le sue dita si schiusero dalla presa sulla felpa e si abbandonò completamente, sorretta da lui e tra le sue braccia calde…  
Quando lui liberò le sue labbra era stordita… aprì gli occhi e lo guardò.
Gli cinse il busto con le braccia, senza timore, e gli si aggrappò al retro della felpa. Poi, ora incerta, iniziò a dirgli «Re.. recuperi la serata nel senso che…che… »
«…nel senso che non ho saputo gestire me stesso… » La aiutò a finire Len, sussurrando e continuando a guardarla negli occhi mentre le massaggiava i capelli sulla nuca. «…Perché tu sei ingestibile… » Proseguì, cercando rilassato le parole «…Non sono stato in grado di oppormi a cose dalle quali normalmente sarei fuggito… e non sono riuscito a farne liberamente altre… Non mi andava giù… E poi ho capito… »
«Capito…? »
«Sì. Ho capito e ora sono qui.»
Le guardò il volto affaticato e sugli occhi la leggera ombra del mascara, scesole appena un po’. Le passò teneramente il dorso delle dita  sulla pelle, per pulirla. 
«Sei stanca. Ti accompagno a casa. Vieni.» Le disse, sciogliendola dall’abbraccio e prendendola per mano.
Anna rimase ferma «Io non sono quasi mai così… In genere mi arrangio da sola…»
«Lo so.» Le rispose lui serio. «È per questo che sono qui…»
Rimase qualche istante in silenzio e poi aggiunse «Ma sei meravigliosa anche quando non riesci a cavartela da sola…»
Non avrebbe potuto dirle nulla di più rassicurante… Lo attirò a sé. Lui la scrutò con un sorriso vagamente sorpreso e interessato. Anna afferrò il suo braccio, ci si appoggiò e si alzò di nuovo sulle punte. E raggiunse le sue labbra che la accolsero ancora più avvolgenti di prima…
 
… Aggrappata con la mano ancora al suo braccio, si guardò intorno e ritornò in quella piazza. L’asfalto era ancora bagnato e le pozzanghere riflettevano la luce dei lampioni. Rabbrividì e guardò il cielo, ancora grigio di nubi, lacerato da fasci blu scuro con poche sbiadite stelle.
«…È già finita l’estate…?» Disse Anna
«Forse…» Le rispose Len, alzando gli occhi al cielo.
 
Volare liberi per la città, in una fresca notte estiva.
Vedere due giovani ragazzi guardare il cielo, sul bordo di una piazza… Indugiare ancora un po’ e poi lasciarli e sentire una piccola dolce malinconia…
Proseguire oltre, veloci e sospesi.
Voler sbirciare ancora, per l’ultima volta, oltre le fronde degli alberi di un giardino con l’erba solo un po’più lunga di quanto dovrebbe…
Entrare da una finestra aperta, nel salone, illuminato solo da una televisione accesa e muta…
Osservare un ragazzino di sedici anni addormentato sul divano, col sorriso sulle labbra…
Non si era sbagliato… Ora lo sa…
Affianco a lui il cellulare e sul display le ultime righe di un messaggio inviato.
Leggerle…
e nn mi racconterai mai niente, so anke qsto.
Ma io nn avevo dimenticato l’appuntamento,
l’ho fatto apposta… E nn ne parliamo più ;-)  

Sorridere e dirgli silenziosamente addio…
Andare oltre.
Imboccare una larga strada, cullarsi nel silenzio.
I semafori gialli lampeggianti. L’immobilità.
Percepire il lento respiro del sonno di chi, dietro le poche finestre accostate, dorme avvolto nelle lenzuola, protetto dall’aria frizzante di questa strana notte di Agosto…
È già finita l’estate…? Forse…
Ma questa è stata solo una giornata, un’insignificante giornata di questo meraviglioso mondo…
Volare e lasciare quelle case, quelle strade deserte, quelle finestre chiuse ed andare altrove, librandosi in alto, oltre le nuvole, nel blu del cielo…
Sì, forse questo è stato l’ultimo giorno dell’estate… Sabato 20 Agosto… Sabato 20 Agosto è passato…
 

Be', se sei arrivato fin qui, posso dirti solo una cosa... Grazie!!!!

 

Eru

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

   
 
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