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Autore: RedLatias    03/08/2011    0 recensioni
E se le malattie che colpiscono l'uomo fossero causate solamente da tutti i problemi che ci affliggono e dagli eventi spiacevoli che ci capitano? Ma fortunatamente esistono degli angeli capaci di tirar fuori il vero potenziale che è in noi e aiutarci a guarire dai cosiddetti "mali di vivere"...
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Soffiava una fresca e leggera brezza quella mattina, impercettibile agli umani che stavano là, giù a terra, poiché smorzata da case, palazzi e grattacieli.
“Anche oggi ci sarà da lavorare. Mi chiedo come faccia a non impazzire io stesso, alle volte…”
Un’altra brezza, ma stavolta un poco più forte, che dopo pochi secondi cessò improvvisamente.
Delle piume candide.
“Stai sempre a lamentarti, Rikumaru. Datti da fare e smetti di perdere tempo.”
Ignorando quella sollecitazione, l’altro aggiunse, facendo finta di niente: “Col mio charme, ad ogni modo, sarà tutto più facile e finirò presto.”
“E’ una giustificazione o lo dici solo per auto convincerti?“
“A volte non so chi sia più noioso fra te o quello stupido cane, Enju. Lo sai?”
“Chissà perché mi aspettavo una risposta simile!” rispose lui, con un mezzo sorriso beffardo.
Altre piume candide e leggere si levarono in un soffio di vento fresco dall’ampio tetto in cemento di quel  grattacielo di 990 piani, uno dei più imponenti di tutta la città di Tokyo.
“Smettila di spiumare come una gallina, Enju. Vuoi forse dare nell’occhio?”
“Sei idiota e inopportuno come al solito, Rikumaru; chi vuoi che noti a terra qualche piuma? Sono così piccoli e indaffarati nella loro patetica routine che sicuramente non darebbero peso a delle futili piume…” rispose Enju fissando con occhio vigile e attento, ma allo stesso tempo con una velatura di crudeltà, i minuscoli puntini che si dimenavano qua e là snodandosi per le vie del centro abitato.
Rikumaru non diede peso all’acida risposta dell’altro. Guardò per un attimo il panorama fatto di palazzi, grattacieli e insegne pubblicitarie che si stagliavano di fronte a lui, dopo di che, chiudendo gli occhi, spiccò un salto giù dal tetto. I capelli blu cobalto ondeggiavano ad una velocità impressionante, sferzati dall’aria fresca e tagliente, la ricca stoffa di cui era confezionato il suo imponente vestito si gonfiò, aprì le braccia come a voler abbracciare quell’immensità di fronte a lui, e prima di raggiungere un’altezza in cui sarebbe stato facile notarlo, spiego delle enormi ali bianche per poi sparire nel nulla in un immenso vortice di piume.
“Tsk… e poi osa dare a me dell’esibizionista. Che tipo.”
 
 
 
La sveglia suonò, impetuosa e incessante.
Quel rumore così meccanico proprio non poteva sopportarlo, dunque optò per la cosa migliore da fare; le diede un pugno, facendola schizzare via dal comodino.
Convinta di aver finalmente dato pace al suo sonno e di poter tornare tranquilla a dormire, si rannicchiò ancora di più sotto al lenzuolo tiepido, in posizione fetale, coprendosi gli occhi con un altro cuscino a portata di mano. Ma dopo pochi minuti il sonno celestiale venne interrotto dalla porta che si spalancò  improvvisamente.
“Con questa è la quarta sveglia che rompi in due settimane!”
Dei passi e poi un rumore fastidioso che parve quasi incessante, sul momento, a cui seguì la luce.
“Mmmh…”
“Smettila di mugolare e scendi giù dal letto, la colazione è pronta e sei in un ritardo atroce!”
Con gli occhi ancora chiusi per la paura di incontrare il dolore alla vista della luce, lei si spostò lentamente il cuscino dal viso e si girò a pancia in su, sbuffando debolmente.
“Rika! Alzati immediatamente, cristo santo!”
Un ultimo avviso dal corridoio, forte e chiaro come non mai. A volte la gentilezza di sua madre era veramente… impressionante.
Mentre Rika scendeva giù dal letto con una lentezza degna di un bradipo, pensava a quanto fosse irritante il fatto che la mattina sua madre non sapesse far altro che urlare. Chissà per quale strano motivo spesso rimpiangeva le mattine della sua infanzia, in cui lei entrava gentilmente nella sua stanza, si sedeva sul bordo del letto e con delicatezza le spostava un ciuffo di capelli dal volto, annunciandole che la colazione era pronta. Ormai non ricordava nemmeno da quand’era che avesse smesso di comportarsi così, da persona vagamente normale, almeno.
Infilò i piedi nelle ciabatte gelide e finalmente riuscì ad alzarsi.
Si avvicinò alla grande specchiera accanto al suo letto, allungando il collo verso di essa per vedere meglio oltre lo sguardo appannato. Ancora una volta s’era addormentata truccata, il mascara era completamente sciolto e l’ombretto aveva contribuito a renderle palpebre e zigomi completamente brillanti.
Con un po’ d’esitazione dovuta al sonno alla fine si diresse in bagno, dove sciacquò via il torpore  immergendosi nella vasca da bagno. Tremò un poco, al passaggio dal caldo delle lenzuola all’acqua gelida.
Chiuse gli occhi, trattenne il fiato e andò giù, apprezzando a pieno il fresco che le inondò il viso.
Le venne da pensare che quando era bambina e a scuola litigava con qualche sua compagna di classe per qualche infantile motivo, la madre le diceva sempre: “Bevi una tazza di matcha latte, vai a letto e vedrai che il sonno laverà via tutti i pensieri”, dandole un bacio sulla fronte.
Ora invece, al posto del matcha latte c’erano la vodka e le serate passate con le sue amiche in qualche Golden Gai e la mattina dopo, con un mattone così sulla testa e il trucco sbavato, i pensieri tornavano subito a bussare alla porta della sua mente insistentemente, dopo un primo breve momento di coma.
Ormai quel trucchetto non funzionava più. Se si addormentava triste, la mattina dopo si svegliava ancora più triste oppure terribilmente irritata, il che portava malumore nella sua giornata e contribuiva solo a far calare ancora di più i suoi ormai terribili voti.
Riemerse, spezzando l’infinita caterva di pensieri che già si stavano susseguendo nel suo cervello, riprendendo fiato e ansimando per la mancanza d’ossigeno.
In poco tempo fu pronta: divisa bianca e blu alla marinara indosso, capelli viola liscissimi perfettamente acconciati, un velo di matita nera sui suoi occhi scuri per renderli ancora più piccoli e aggressivi di quanto già non fossero e spirito terribilmente agguerrito. Fece colazione in meno di dieci minuti, mangiando pochissime pietanze per non fare troppo ritardo, ripose dentro la sua cartella il sacchettino nero e rosa che conteneva il suo bento, salutò la madre in modo freddo e sbrigativo e uscì di casa sbattendosi la porta alle spalle, pronta ad affrontare una nuova e stressante giornata.
 
 
 
“Grazie mille, davvero. Non so come avrei fatto senza di te…”
“Si tratta solo di fare il mio dovere, niente di più. Ma mi fa sempre piacere poter aiutare ragazze dolci e carine come te…”
Lei si alzò sulle punte dei piedi, pronta ad avvicinarsi alle sue labbra, ma egli si scansò con un velo di freddezza.
“Se mi fosse concesso non esiterei.”
“Scusami…” disse piano.
“Ora dimenticami. Ma tieni a mente tutto quello che ti ho detto. Distruggi ciò che ti distrugge.”
“Lo terrò a mente, mio angelo…”
Rika entrò nel cortile della scuola a passo deciso. La campanella era ormai suonata da qualche minuto e se voleva evitare di farsi notare dal bidello, era il caso di entrare da una scorciatoia, una porta secondaria situata nel giardino dietro la scuola.
Aumentò il passo fin quasi a correre, affondava i piedi nel terreno battuto spostando gli occhi velocemente a destra e a sinistra sperando di non essere vista da qualcuno.
Girò l’angolo, ma si arrestò subito.
“Miharu, con chi stai parlando?” chiese sorpresa, non aspettandosi la presenza di una sua compagna di classe.
“E… ehm… ciao Rika! C… cercavo di ripetere quello che ho studiato per l’interrogazione di oggi!” rispose quella, agitata e sorpresa a sua volta dall’irruzione di Rika.
“Interrogazione?”
“Si, oggi il professore interroga Giapponese, non dirmi che te ne sei dimenticata”
“Merda. Si.”
Le due si guardarono per qualche istante, Rika col fiatone per la corsa, Miharu accaldata e rossa in viso.
Poi Rika ruppe il silenzio “ah, che vada al diavolo quello là. Forza, andiamo in classe, Yamamoto.”
“S… si!” con un veloce cenno del capo la ragazzina seguì a ruota Rika, voltandosi per un attimo e salutando con la mano.
“A proposito, Yamamoto… come va la tua gastrite? Ricordo che negli ultimi giorni ne soffrivi tanto da doverti recare spesso in infermeria durante le lezioni.”
“Oh... alla grande, mi è passata, ora sto molto meglio!”
“Così? Da un giorno all’altro?”
“A quanto pare…”
Le due riuscirono ad entrare in classe di soppiatto prima dell’arrivo del professore, Miharu raggiunse il suo posto accanto alla finestra e Rika il suo accanto alle sue quattro migliori amiche che come tutte le mattine erano intente a mostrarsi i nuovi acquisti fatti la sera prima.
“Ei Rika, guarda qui, che ne pensi del mio nuovo smalto?”
“Cavoli, Satsuki, è davvero carino! Ma dove l’hai comprato?” rispose Rika, mentre sistemava la sua cartella.
Si sedette sopra il banco di fronte alle sue amiche e mentre aspettavano l’arrivo del professore di Giapponese non fecero altro che scambiarsi pareri riguardo cose frivole.
“Ragazze, scusate un attimo ma… qualcuna di voi ha studiato Giapponese per oggi?” chiese una delle quattro.
Scoppiarono tutte in una grande risata dopo di che Satsuki rispose “hai il magico dono di saperci far ridere con poco, sai Natsumi?”
Natsumi, dai capelli rosa, mossi e corti fin sotto alle orecchie, fece un risolino di approvazione, nonostante la sua domanda non fosse stata fatta con l’intento di farle ridere tutte.
Satsuki era forse la più altezzosa ed era nota a tutte per la cura che metteva nel giocherellare con i suoi lunghi capelli biondi.
Poi c’erano Haru e Miru, sorelle ma non gemelle, nonostante si somigliassero molto e avessero entrambe i capelli mossi, lunghi e castani e un neo sopra il labbro superiore.
E poi, beh, c’era Rika, a cui piaceva parlare con loro ma non esporsi eccessivamente. Era nota per essere molto riservata e spesso per i fatti suoi, nonostante uscisse tutte le sere con quello strampalato gruppo di compagne di classe. Non le considerava vere e proprie amiche ma solo persone con cui andare d’accordo e passare le serate. Ad ogni modo, però, quando uscivano e si ritrovavano a dover condividere gran parte delle loro esperienze, pensava che non ci sarebbe stato nessun altro come loro in grado di farla divertire così tanto.
La sua migliore amica, però, era se stessa.
Il professore di Giapponese irruppe nella stanza, tutti gli alunni, in tutto una trentina, si alzarono in piedi e all’unisono dissero “buongiorno professore!”.
Dopo qualche minuto incominciarono le interrogazioni, non se la scampò nessuno e come al solito Rika, Natsumi, Satsuki, Haru e Miru presero un pessimo voto. Non solo loro però, anche qualcun altro non andò molto bene ma ad ogni modo quelle che detenevano le insufficienze più gravi erano loro.
Due mesi dopo ci sarebbe stato un esame per accedere al secondo trimestre e non erano messe affatto bene. Da quell’anno avevano cominciato a non studiare più o a studiare pochissimo, nessun professore sapeva cosa fare, tantomeno le loro famiglie.
Rika si chiedeva spesso, durante le scene mute alle interrogazioni seguite inevitabilmente da un pessimo voto, che cosa l’avesse spinta a comportarsi così. A scegliere di non studiare, a scegliere compagnie movimentate come quelle quattro al posto di ragazze un po’ più normali e tranquille, a scegliere di spendere possibili ore di sonno in azzardati locali a bere fino a non poterne più, a “divertirsi”, ad agghindarsi di accessori più di un albero di natale, ad odiare tutto quello che poteva e che gliene desse l’opportunità.
Se lo chiedeva spesso, ma altrettanto spesso non sapeva darsi una risposta. Probabilmente aveva involontariamente premuto il tasto “reset” nel suo cervello, eliminando qualsiasi ricordo la potesse aiutare a darsi una motivazione. Ma poco le importava in fondo, la vita non era una cosa così importante ed essendo lei stessa padrona della propria, poteva farne ciò che voleva e buttarla come voleva e dove voleva.
Anche se non era detto che la stesse buttando, nonostante, però, non sapesse a cosa potesse servire tutto quello che stava facendo.
Loro erano delle gals, delle ragazze giapponesi alla moda in ogni occasione, ma solo loro sapevano quanto valevano.
La campanella suonò annunciando l’ora del pranzo e tutti gli studenti si catapultarono fuori dalle loro aule pronti a consumare il proprio pasto.
Rika e le altre uscirono e andarono in cortile, nel loro solito posto, sul prato sotto ad un albero di Sakura.
“Mmh… vediamo un po’ cos’avete oggi per pranzo…” fece Natsumi muovendo le bacchette come se fossero un aeroplano.
“Qualcuno le insegni a cucinare al più presto o saremo costrette per tutta la vita ad offrirle da mangiare!” disse, esasperata, Satsuki.
“O piuttosto ad autorizzarla a scroccare!”  aggiunsero, insieme, Haru e Miru.
Rika si mise a ridere, aprì il sacchetto nero e rosa, ne estrasse il suo bento e lo aprì.
“Immaginando una scena del genere, ho preparato qualcosa in più. Ma se ti decidessi ad imparare a cucinare sarebbe sicuramente molto meglio, piccola Natsu”
“Wow…!” tutte e quattro rimasero estasiate di fronte al bento di Rika, che teneva aperto in mano quasi come fosse un trofeo.
Era tutto decorato alla perfezione e aveva tutta l’aria di essere squisito.
Natsumi, tra origiri, sushi, katsudon e takoyaki non sapeva che scegliere!
Tra una pietanza e l’altra, le cinque organizzavano cosa fare quella sera.
“Io propongo di incontrarci a Shibuya di fronte alla statua di Hachiko, come al solito” disse Satsuki.
“Poi potremmo andare in quella nuova sala giochi che hanno aperto ad Harajuku, ed andare in fastfood là” disse Natsumi.
“Non trascuriamo il classico appuntamento ai Golden Gai, ragazze.” Aggiunse, seria, Rika.
“Ma certo che no, ormai quella è una tradizione!” rispose Miru, ridendo.
Per tutta la durata della pausa pranzo, le cinque continuarono ad organizzare, a fare progetti e ad immaginare quanto si sarebbero divertite, tra un boccone e l’altro.
 
 
 
“Cosa ti cruccia, Rikumaru?” Enju si avvicinò lentamente all’angelo, accompagnato dall’eco dei suoi passi in quell’enorme salone scuro.
Rikumaru era seduto a terra poggiato sulle braccia che teneva all’indietro, guardando senza alcun interesse preciso le piastrelle bianche e nere che si alternavano, come in una scacchiera.
“Mi manca una sola ragazza e poi la lista è vuota. Non so se ciò è dovuto al fatto che il capo ha deciso di lasciarmi un periodo di ferie o se perché è consapevole del fatto che sarà un incarico duro.”
“Chissà…” ormai Enju era in ginocchio alle sue spalle e gli parlò avvicinandosi sempre di più al suo viso. “In ogni caso non sarà certo un problema per te portare a termine l’incarico, non è vero?” parlava quasi sotto voce, con un tono suadente che a Rikumaru non piaceva affatto.
Gli diede una manata, allontanandolo.
“Levati, gatto.” Disse, come se essere un felino fosse un insulto. “Non mi piacciono gli animali puzzolenti.”
“Come siamo nervosi oggi…” rispose Enju, perseverando con quel suo tono provocatorio.
Rikumaru girò la testa per poterlo guardare dritto negli occhi. “A che gioco stai giocando? Prima non esiti a prendermi per il culo e fare lo sbruffone e poi ci provi spudoratamente? A volte mi chiedo se sei qui perchè eri veramente un pazzo bipolare o solo perché hai aperto un po’ il cu-”
“Basta così.”
Rikumaru chiuse gli occhi sollevando un sopracciglio, infastidito e interdetto. Dopo un istante si girò lentamente, insieme ad Enju.
“L’eternità non vi è stata concessa per discutere di cosa voi foste in passato, mi pare di avervelo già ricordato. Ma evidentemente siete un po’ duri di comprendonio.”
“E a me pare di averti già detto di non metterti in mezzo, Aster dei mie co-“
“Persisti?” lo interruppe ancora. Si avvicinò lentamente, dispiegando altrettanto lentamente le ali bianche e gonfie di piume, un passo dopo l’altro e lo raggiunse.
Rikumaru guardò negli occhi quell’essere, che era un misto tra qualcosa di celestiale e qualcosa di demoniaco.
Aster, dai lunghi capelli appuntiti e argentei, avrebbe incutito timore a chiunque con quegli occhi rossi carichi d’odio e la cicatrice scura che gliene solcava uno.
Chiunque ma non Rikumaru, che continuava a guardarlo a testa alta con aria di sfida.
“Hai poco da fare lo sbruffone.” Soggiunse Aster, con voce dura e tagliente, rizzando le orecchie da lupo che aveva ai lati della testa.
“Non faccio lo sbruffone. Semplicemente evito di farmi mettere i piedi in testa.” Rispose.
L’aria nella sala si era fatta pesante e la tensione pervadeva ogni cosa.
I due si guardarono negli occhi con rabbia per istanti che parvero quasi ore.
“Che ne dite se la finissimo qui?” esordì ad un tratto Enju alzandosi in piedi e sistemandosi lo smoking bianco che indossava.
Aggiunse poi, sistemandosi il fazzoletto rosso nella tasca della giacca e muovendo sinuosamente la sua coda da gatto grigia, “non avrei voluto creare tutto questo disappunto.”
“E tu lo chiami disappunto?” rispose Rikumaru. Non poteva far altro che scrutarlo con astio e ribrezzo allo stesso tempo. Sembrava un perfetto damerino con quei suoi capelli biondi che arrivavano fino a metà collo, la pelle di un bianco immacolato e quello sguardo così… mutevole. Era spaventosa la facilità con la quale Enju passasse da un atteggiamento sadico ed omicida ad uno docile e ruffiano. Incuteva veramente ansia, alle volte.
‘Proprio come i gatti…’ pensò.
“Esattamente, disappunto. Ad ogni modo, tolgo il disturbo. Ho ancora qualche tenera fanciulla da consolare…” e mosse un po’ le orecchie feline che spuntavano dai capelli chiari.
Quando Enju diceva così, era un’incognita cosa intendesse per “consolare”, se volesse consolare effettivamente come il loro contratto prevedeva o se volesse semplicemente darsi a piaceri carnali.
Così dicendo, scomparve in un turbinio di piume.
I due angeli rimasti rivolsero nuovamente lo sguardo verso di essi e Rikumaru poté scrutare ancora Aster: era la durezza fatta a persona. Ma in fondo, si era sempre detto, alle ragazze fanno effetto gli uomini tenebrosi, duri, burberi e che vestono con un giacchino in pelle nera smanicato, un paio di pantaloni larghi e marroni fin sopra al ginocchio e degli stivali anch’essi di pelle nera con tanto di fibbie e cinture a chiuderli.
Se poi l’individuo porta anche un collare da cane, dei bracciali e dei guanti di pelle, delle catene ed è muscoloso, la reazione che si ottiene è pure migliore.
“Che hai da guardare, coniglio?” sibilò Aster, rizzando la coda da lupo che sbucava dai pantaloni.
“Niente, cane.” Rispose Rikumaru, pronunciando con ribrezzo l’ultima parola.
Aster lo scrutava dall’alto in basso, a braccia conserte e gambe divaricate, come a voler rimarcare la sua superiorità.
“Spero di non dovermi di nuovo scomodare per sedare le vostre infantili discussioni.” Disse, poi.
“Nessuno te l’ha chiesto. Potevi tranquillamente startene dov’eri.”
“Ci tengo a mantenere l’ordine.”
“Non siamo delle pecore.”
“Ma a volte vi comportate come tali.”
Entrambi si fermarono a guardarsi per un attimo. Quel botta e risposta cominciava ad infastidirli.
“Torna al tuo lavoro. Ci vediamo.” Tagliò corto Aster. Si voltò e mentre camminava sparì anch’esso tra vento e piume.
Rikumaru sbuffò, lasciandosi cadere a terra. Distese le gambe, aprì le braccia e restò così, a fissare il soffitto e tutto ciò che lo circondava per minuti che parvero ore.
Il soffitto era ricco di affreschi raffiguranti eterne lotte tra angeli e demoni, bene e male, luce ed oscurità. Anche nelle pareti vi erano decorazioni di questo genere, sorrette da archi di cemento variamente lavorato che contribuiva a renderle solenni ed imponenti.
Il luogo era davvero spazioso e tutt’intorno si stagliava un’aura oscura. Rikumaru era sicuro che quel luogo non avesse mai visto realmente la luce del giorno.
Buttò nuovamente uno sguardo al pavimento nero e bianco, e si disse: ‘siamo tutti delle pedine, in fondo.’
 
 
 
Una passata di ombretto rosa sulle palpebre, mascara, matita nera, un velo di lucidalabbra rosa e Rika era pronta. Si guardò nello specchio della sua stanza. A dire il vero era lì di fronte e basta, con lo sguardo incantato. Dopo pochi attimi sbattè gli occhi e si riprese, dicendosi: “stasera non devo pensare a niente. Ci divertiremo come al solito, voglio avere la testa leggera, lontana da ogni preoccupazione.”
Questa volta si specchiò per davvero, si sistemò un ciuffo di capelli, prese la sua borsetta sulla quale erano disegnati fiori hawaiiani e uscì dalla stanza, scendendo le scale velocemente.
“Io esco!” la solita frase alla quale seguiva lo sbattere della porta, senza nemmeno aspettare una risposta da parte della madre.
L’appuntamento era alle 20.00 di fronte alla statua del cane Hachiko, nel quartiere di Shibuya.
Quel quartiere era sempre e costantemente strapieno di persone, come le api in un alveare. Ma dopotutto, si diceva Rika, era uno dei quartieri più alla moda di Tokyo e per una gal doveva essere il paradiso.
Variamente agghindata e leggermente tremolante su delle zeppe vertiginose, si apprestava a scansare i passanti e a passo spedito raggiunse subito la metropolitana.
La metro arrivò quasi subito e tentare di salirci sopra fu un’impresa, dovendo combattere contro l’enorme folla di persone che ne usciva. Pareva quasi un’inondazione.
Finalmente riuscì ad entrarvi e, per botta di fortuna, anche a trovare un posto a sedere, cosa che le capitava molto raramente.
Le capitava spesso di guardare i volti delle persone, sulla metro, e chiedersi a cosa stessero pensando o dove fossero diretti.
‘Che cosa stupida’, si diceva ogni tanto. Ma la curiosità era sempre stata una caratteristica che la contraddistingueva e dopotutto, forse, andava bene così. Perché cambiare qualcosa di cui si era fatti? Tanto valeva accettarsi. Glielo diceva sempre qualcuno, ma non ricordava chi.
La metro si fermò bruscamente, facendole ondeggiare i capelli viola e tintinnare gli orecchini metallici a cerchio che indossava.
Si alzò in fretta, voleva uscire al più presto da quel posto eccessivamente affollato, le dava sui nervi.
Ma mentre fece per uscire, una massa informe di persone si apprestò a salire, spingendo su chi doveva scendere. Rika sgranò gli occhi: la cosa non le stava piacendo affatto.
Perché? Non le era mai successo di innervosirsi così tanto e sentirsi quasi male.
Ignorò il malessere, si portò la borsetta al petto per evitare di perderla mentre spintonava e, boccheggiando, riuscì a farsi strada a forza di spallate.
Ansimando, riuscì a scendere e finalmente a riprendere aria, aria fresca.
Ma quasi sobbalzò nel vedere l’enorme quantità di persone presenti a Shibuya quella sera.
Eppure lo sapeva. Sapeva benissimo che era uno dei quartieri più affollati  della città e che non era un’impresa facile muoversi. Ma nonostante ciò il cuore le balzò in petto, come se fosse la prima volta che si trovava lì.
Deglutì, si rimise la borsetta sulla spalla e sistemandosi un po’ il vestito bianco, passo dopo passo, tentò di raggiungere la statua di Hachiko. Ma non riusciva a vederla. Le persone erano talmente tante che non si vedeva!
“Permesso… scusate…” cercava di farsi strada.
Ad un tratto incontrò un vuoto dinnanzi a lei, dal quale poté scorgere una parte della statua e Satsuki che la chiamava agitando le braccia per aria.
Rika alzò un braccio, per indicarle che l’aveva vista. Ma non appena fece un passo verso quella direzione, la mole di gente riprese a spostarsi freneticamente, bloccandole la strada.
Si fermò.
Il cuore le batteva all’impazzata, la testa cominciò a girarle. Salì la nausea e le scesero lentamente sempre più gocce di sudore dalla fronte.
Chiuse gli occhi, nel vano tentativo di calmarsi. Poteva quasi sentire distintamente ogni parola di ciò che dicevano le persone che le passavano accanto. Sentiva i loro respiri caldi sulla pelle, i loro odori, molti la urtavano per sbaglio e tutto la soffocava.
Tentò di regolarizzare il respiro, inspirando lentamente col naso ed espirando con la bocca ma il fiato non fece altro che crescere, diventando sempre più affannoso.
La gola le si chiuse e le si gonfiarono gli occhi di lacrime.
‘Respira! Respira!’ si diceva mentalmente, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu ansimare e piangere nello stesso tempo. Aprì gli occhi: l’errore più grande che potesse fare.
Vide la folla travolgerla, ma era tutto nella sua mente.
Cadde a terra in ginocchio, a capo chino, e cominciò a singhiozzare senza riuscire più a prendere ossigeno.
Girava tutto. ‘Voglio scendere…’ le venne in mente.
L’unica cosa scendeva, però, erano le lacrime, sciogliendo il fondotinta che aveva messo sul viso.
Il caldo era opprimente. I fiati delle persone le facevano paura, nessuno si scomodava ad aiutala e le passavano accanto tranquillamente, evitandola come un semplice ostacolo.
‘Sto per morire?!’
“No.”
Rika sgranò gli occhi, disperata e sorpresa al tempo stesso. A fatica alzò la testa pesante come un sasso e non credette ai suoi occhi.
Probabilmente doveva avere le allucinazioni.
“Piacere di fare la tua conoscenza, Rika Kuri.”
Un ragazzo dai capelli lisci blu cobalto che gli accarezzavano le spalle, in un abito tradizionale giapponese e con delle enormi ali d’angelo era lì a mezz’aria, teso verso di lei, a guardarla dritto negli occhi.
Rika non aveva mai visto un ragazzo così bello. L’avrebbe definita una bellezza quasi… celestiale.
Aveva la pelle di un rosa pallido, perfettamente liscia e senza alcuna imperfezione. I capelli parevano quasi di seta, qualche ciuffo gli accarezzava il naso, altri svolazzavano per via dello spostamento d’aria causato dalle sue ali gonfie di piume candide.
Aveva un’espressione placida, che avrebbe infuso calma a chiunque, ma che allo stesso tempo incuteva timore per via dei grandi occhi rosso sangue che parevano quasi bramarla. Le labbra sottili erano stese in un sorriso quasi ingessato. Sembrava… un angelo.
Indossava un magnifico vestito, probabilmente in raso, bianco con ricami azzurri. Era un tipico abito tradizionale giapponese del periodo Edo, e sul fianco portava una lunga katana nera e blu.
Dai lucidi capelli blu cobalto spuntavano due lunghe orecchie bianche da coniglio, che gli arrivavano fino alle spalle.
Era lì, a cinquanta centimetri d’altezza da terra, e nessuno intorno sembrava notarlo. Era come se non ci fosse.
Ad un tratto Rika si accorse del battito d’ali, i suoi capelli ondeggiarono a ritmo con esse e finalmente l’ossigeno le riempì i polmoni, quasi come se fosse riemersa in superficie dopo un lungo periodo d’apnea.
Sbalordita, lo guardò estasiata e a bocca aperta.
Chi era quell’essere? O meglio, cos’era?
“Io sono Rikumaru.” Aggiunse, come se l’avesse letta nel pensiero.
La sua voce era come musica, così leggera e soave che al contempo celava una nota di serietà e professionalità.
Lui gli porse una mano per aiutarla ad alzarsi da terra, sollevando una manica del vestito e mostrando il sottile polso chiaro.
Si guardarono negli occhi per un tempo indecifrabile, dopo di che l’angelo disse: “Io posso aiutarti. Dimmi, qual è il tuo male di vivere?”
 
 
 
Nota dell’autrice
Ciao a tutti e grazie per aver letto questo primo capitolo, spero vi sia piaciuto, nonostante molte cose non siano ancora chiare. Dal momento che la vicenda si svolge in Giappone, ecco qui i significati di alcune parole che avete incontrato durante la lettura:
-Golden Gai: piccoli locali situati in un quartiere di Tokyo, nei quali i ragazzi si ritrovano per bere e festeggiare.
-Matcha latte: una bevanda a base di latte e polvere di foglie di tè verde, simile per consistenza al nostro cappuccino.
-Bento: pranzo al sacco giapponese.
-Shibuya: famoso quartiere di Tokyo. La statua di Hachiko è una statua commemorativa che rappresenta un cane. (se non la conoscete, informatevi sulla sua storia, è molto toccante!)
-Gals
: ragazze giapponesi che amano essere sempre alla moda.
-Katana: tradizionale spada giapponese.
-Abito tradizionale del periodo Edo: abito utilizzato in Giappone durante il medioevo, il modello maschile è composto da una larga casacca che si chiude in vita con un grosso nastro e da dei pantaloni altrettanto larghi.

 
Grazie a tutti, e al prossimo capitolo!

 
 
 
 
  
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