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Autore: coco1994    03/08/2011    0 recensioni
Ci sono tre persone nella mia vita – e non proprio tre estranei, in quanto si tratta della mia migliore amica, del mio migliore amico e del mio ragazzo – che sostengono fermamente che, con un po’ d’attenzione e spirito d’osservazione, è facile capire gli aspetti generali del carattere di una persona. E io, ascoltandoli, non posso fare a meno di pensare che mi stiano prendendo per i fondelli.
Ho unito in uno i due capitoli di cui era composta la prima storia - l'unica che c'è, per ora. In questa raccolta dovrebbero essere pubblicate altre fic autoconclusive a tema "amicizia", ma non so quando riuscirò a scriverle. I protagonisti di una saranno certamente Mimi e Koushirou, e per ora è tutto ciò che posso dirvi. Comunque sia, intanto metto questa prima fic, e spero vi piaccia quanto scriverla è piaciuta a me!
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Iori Hida/Cody, Miyako Inoue/Yolei
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Miyako & Iori_Come sempre!


Ci sono tre persone nella mia vita – e non proprio tre estranei, in quanto si tratta della mia migliore amica, del mio migliore amico e del mio ragazzo – che sostengono fermamente che, con un po’ d’attenzione e spirito d’osservazione, è facile capire gli aspetti generali del carattere di una persona. E io, ascoltandoli, non posso fare a meno di pensare che mi stiano prendendo per i fondelli. Una personalità è troppo complessa perché la si capisca con una semplice occhiata, dico io. Infatti, ribattono loro, mica pretendiamo di sapere tutto su qualcuno stando ad osservarlo, ma solo di intuire che tipo di persona sia.
Qui solitamente si fermano, perché sono tre persone estremamente gentili, e non infieriscono su di me ricordandomi come, un tempo, fossi io quella superficiale, e che proprio loro mi hanno insegnato a non esserlo. Fino a non molto tempo fa, infatti, – questa cosa sarà un mio eterno rimorso – non solo non mi passava neanche lontanamente nella testa di capire qualcuno, ma, come se non bastasse, mi comportavo con tutti sicura che la prima impressione che avevo avuto su di loro fosse giusta e li identificasse – ho preso una lunga serie di batoste con questo mio modo di fare, ma sono riuscita a superarle tutte, in un modo o nell'altro. Adesso, in caso di dubbio, faccio domande a destra e a manca, che non è esattamente più piacevole, ma sicuramente meglio che essere creduti dei buzzurri solamente perché di cattivo umore al momento del nostro primo incontro. Sono estremamente contenta di aver aperto gli occhi.
Aldilà di questo il mio passato comportamento, svanendo, mi ha lasciato un regalo: la capacità, anche se purtroppo non la volontà, di essere sintetica. Ciò significa che sono un asso nel dare definizioni stringate e "inquadrare una persona con poco più di una parola" è in assoluto l'attività che più mi piace fare. Un esempio banale: me stessa. Io sono di facilissimo inquadramento, poiché qualsiasi mio atteggiamento reca la scritta EMOTIVITÀ, EMOTIVITÀ, EMOTIVITÀ, ovvero: sputo sempre e subito tutto ciò che ho da dire in base a ciò che provo in quel preciso momento. Il che, mi è stato detto e lo capisco, può dare fastidio, a me e all'interessato. Come quando ho incontrato lui.
È precisamente questo il motivo per cui, un tempo, gli stavo alla larga..
Sarebbe infatti stato un problema, se lo avessi strangolato.


Lui era ed è Iori Hida.
È più piccolo di me di tre anni, infatti la prima volta lo incontrai per caso, quando tornai con mio fratello maggiore Mantarou a salutare i miei, o meglio i nostri, maestri d'asilo. Avevo appena finito la prima elementare.
Lui catturò subito la mia attenzione.
Era piccolo, enigmatico, ma soprattutto aveva un’aria sfuggente perché, mentre gli altri bambini mi circondavano e mi inserivano nei loro giochi, lui se ne stava in disparte, quasi al buio, a fare un puzzle.
Ma andiamo, un puzzle un bambino di non più di quattro anni?
Decisi quindi (dall'alto dei miei sette) che dovevo fare qualcosa per lui. Mi congedai momentaneamente dai miei ammiratori e ammiratrici e mi avvicinai a Iori.
<< Ciao piccolo! >> lo inondai, fermamente convinta di stare facendo del bene. << Io sono Miyako e sono già alle elementari, ma puoi chiamarmi solo con il mio nome perché Miyako-senpai mi fa sentire vecchia. >>
Io gli sorrisi. Lui mi ignorò. Deliberatamente. Ero indispettita.
<< Dai, dai, dai, ascoltami, vieni a giocare con noi. Il puzzle non è bello come cucinare tutti insieme! >> continuai imperterrita. Non accettavo di essere ignorata. << Ti chiami Iori, non è così? Qualcuno me l'ha borbottato... se non giochi con tutti, starai solo! >> gli gesticolai addosso. Ripensandoci, devo concludere che la faccenda mi prendeva parecchio.
Ricordo benissimo la scena seguente. Lui non lascia nemmeno il pezzo di puzzle che ha in mano. Senza metterlo, si volta verso di me e io, speranzosa, lo guardo tutta sorridente. E senza neanche puntarmi il dito contro, come ogni bambino di questo mondo avrebbe fatto, mi guarda negli occhi e dice << Noiosa. >>


Tutte le volte che glielo ricordo, Iori ride e concorda con me sul fatto che probabilmente, per quella volta, deve la vita a mio fratello.
Infatti, non appena mi disse quella parola, quando il mio cervello aveva già elaborato la cosa e aveva deciso che no, non poteva accettare quell'offesa – "Brutta", d'accordo. "Antipatica" ok. Ma "Noiosa", questo proprio no – e veramente un istante prima che gli esplodessi in faccia ( non so come, ma non sarebbe stato piacevole per lui ) Mantarou mi aveva preso in braccio facendomi sputare tutta l'aria che avevo incamerato per quella che definivo "la vendetta".
<< Forza Miya, saluta. Dobbiamo tornare a casa. >>
Io fui estremamente scortese con tutti, lo so, perché a malapena alzai la mano in segno di saluto e non guardai comunque in faccia nessuno, andando via.
I miei piccoli occhi, ridotti a fessure dietro le lenti che già portavo, fissavano sempre lo stesso angolino, dove Iori aveva ripreso a fare il suo puzzle, infischiandosene della sottoscritta.
Non sapevo bene le dinamiche, allora, mentre lo guardavo scomparire alla mia vista oltre la porta, ma di una cosa ero certa: l’avrebbe pagata cara.


O almeno così credevo. Per i successivi sei mesi non sentii più neanche parlare di Iori Hida. Nella mia testa avevo già creato diversi piani di vendetta, estremamente fantasiosi, ma purtroppo – me ne rendo conto solo ora – tutti di difficile realizzazione.
La creazione di tutte queste strategie mi aveva fatto compagnia in più di un’occasione ed era diventata un’attività che mi occupava più o meno un’ora al giorno. Ciò non aveva fatto altro che ingigantire, ai miei occhi, la cattiveria che Iori mi aveva fatto e che ormai mi trovavo a considerare alla stregua di un delitto di lesa maestà ( in cui la maestà ovviamente ero io ) – se non avevate ancora capito che sono una persona piuttosto vendicativa, adesso se avete la conferma. In tutto questo, Iori non aveva alcun ruolo, anzi: probabilmente si era già dimenticato di me, mi ero detta – senza ascoltarmi, però. Ma non avevo ancora imparato che Iori non era come tutti gli altri.
Il nostro secondo incontro avvenne come il primo: per caso. Era sempre il 1998 ed era metà Ottobre, il 16 se non sbaglio, e alle ore 14.30 di quel Venerdì avevo l’appuntamento dall’oculista...
<< Bene, piccola. Allora, i tuoi occhi sono assolutamente sani, ma visto che entrambi i tuoi genitori portano gli occhiali non è strano che li debba indossare anche tu. >>
<< Però io non ci vedo più bene! >>
<< Lo so, infatti la vista ti è un pochino peggiorata, ma non… >>
<< Ma lei aveva detto che i miei occhi stavano bene! >> strillai io, dall’ansia che avevo.
<< Miya su, sta’ buona. Ascolta quello che ti dice il dottore. >> mi ammonì la mamma.
<< Sì, dicevo… La miopia non è una malattia, Miyako. Non è come la cecità che alla fine non ti fa più vedere, mi segui? >>
Io annuii, senza far notare quanto ero preoccupata.
<< Però può diventare più forte, ma tutto quello che te devi fare è mettere occhiali più forti anche tu. D’accordo, piccola? >>
<< Sì, signore, ho capito. >>
<< Brava. Allora ci rivediamo tra altri sei mesi, va bene? >>
No che non andava bene, accidenti! Io non volevo quell’affare di metallo e vetro sul mio naso! L’avevo sempre odiato! Mi ricordavo bene la prima volta con indosso un paio di occhiali. Mi ero sembrata un gufo, o ancora peggio un topo! Un orrido topo viola!
Ma sapevo che, se proprio non volevo tenerli, potevo stare senza per un po’, come durante i giochi con i miei amici. Quindi mi limitai ad annuire al dottore, e ad uscire dall’ambulatorio mano nella mano alla mamma. Un pensiero mi attraversò la mente.
<< Mamma! >>
<< Che c’è? Hai lasciato qualcosa nello studio? >>
<< No, è che avevo detto a Nanae-chan che sarei andata al parco appena finito qui! Posso? >>
Lei mi sorrise << D’accordo… ci andiamo subito. >>


<< Perché non ti togli gli occhiali, mentre giochi? >> fu un bambino di cui conoscevo solo il nome, Yuukimaru, a farmi questa domanda. Stavamo giocando con la sabbia e la questione era se scavare o meno il fossato attorno al castello. Ma si sa, la concentrazione dei bambini non è il massimo. A lui era venuta in mente questa cosa, e me l’aveva subito chiesta.
Io rimasi senza parole. Perché non ci avevo pensato da sola? Li sfilai, senza pensarci più di tanto, ed ebbi una brutta sorpresa. Terrificante, e incomprensibile per chi non ci è passato, lo capisco. Ma credetemi se vi dico che è tremendo, togliersi dal viso un oggetto piccolo e dall’aria insignificante come un paio di occhiali di metallo e scoprire che il mondo è composto solo da macchiette di colore artisticamente intrecciate fra loro. Questo vidi quel pomeriggio. Il panico mi invase.
Non sapevo dove mettere i piedi. Non sapevo come muovermi, senza cadere. Non sapevo a che distanza fosse il bambino che mi aveva posto questa domanda, né se bastasse allungare un braccio per raggiungerlo. Non sapevo a quale macchia di colore rivolgermi per chiamare Nanae, che si trovava allo scivolo appena cinque metri più in là.
Scoppiai in lacrime, senza freno, e scappai verso l’altro lato del parco.
<< Ehi, aspetta, dove vai? Non importa se non li togli! >> mi gridò dietro il bambino di prima, ma io non lo ascoltavo. Raggiunsi il girello e gettai per terra gli occhiali, prima di raggomitolarmi su me stessa a singhiozzare. Io non volevo non vederci più!
Sentii che qualcuno mi si avvicinava.
<< Lasciatemi in pace! >> strillai senza alzare la testa. Chiunque fosse, si abbassò accanto a me.
<< Non fa bene agli occhiali essere buttati giù. >>
Se non fossi stata già per terra, sarei caduta dalla stupore. Mi voltai di scatto, riuscendo comunque a perdere l’equilibrio, e mi trovai a fissare i contorni sfocati del viso di Iori Hida.
<< Perché sei qui? Perché non mi lasci in pace? Perché sei tu? >> dissi, mentre un'altra scarica di lacrme mi bagnava il viso.
Lui non si scompose neanche un po’ davanti a quella sfuriata. Si limitò ad alzare un sopracciglio e a chiedermi.
<< Ce l’hai con me? >>
Come previsto, non si ricordava di me.
<< Se ce l’ho con te? Certo che ce l’ho con te! Mi hai dato della persona noiosa e non mi hai considerato minimamente mentre io mi impegnavo a farti socializzare col resto dei bambini della tua classe! Ti ho offerto io mio aiuto su un piatto d’argento e tu mi hai fatto fare una figura orribile senza chiedermi nemmeno scusa! E come se non bastasse non ti ricordi nemmeno di me! E adesso che voglio stare per i fatti miei proprio tu mi appari davanti! >>
<< Come io mi sto impicciando ora dei fatti tuoi, anche tu ti stavi impicciando dei fatti miei, all’asilo. Quindi se ti ho detto che eri noiosa era perché lo meritavi. E poi non è colpa mia se non ti ho chiesto scusa. Tuo fratello ti ha portato subito via. >>
<< Io ti volevo aiutare! E anche se Mantarou mi ha portato via potevi gridarmelo dietro “scusa”, non è che io… >> mi bloccai, smettendo di piangere.
<< Questo vuol dire che ti ricordi di me! >>
<< “Io sono Miyako e sono già alle elementari, ma puoi chiamarmi solo con il mio nome perché Miyako-sempai mi fa sentire vecchia.” >> mi citò lui in risposta.
<< Ma allora mi stavi ascoltando! >>
<< Certo. Mi incuriosivi. >>
<< Scusa se te lo dico, ma sembravi tutto meno che incuriosito. >> Lo fissai da vicino – molto da vicino, perché senza occhiali com’ero avevo bisogno di corte distanze per vedere.
Così vidi qualcosa che non avevo notato la prima volta sul viso di Iori. O meglio, avevo colto quella stranezza anche al nostro primo incontro, ma non ci avevo dato peso.
Il fatto era che, anche se l’espressione sul suo volto non era cambiata di un millimetro, non era come prima, perché, da qualsiasi prospettiva la si guardasse, l’espressione chiusa e indecifrabile di Iori irradiava tristezza… se non disperazione.
Nonostante tutti i propositi di odio eterno che mi ero proposta nei suoi confronti, mi si strinse il cuore a vederlo così.
<< Perché sei triste? >>
Lui mi guardò, l’espressione incredibilmente mutata – mi fece rimanere a bocca aperta, con questo cambio inaspettato.
<< Te ne sei accorta? >>
Io rimanevo senza parole, la bocca aperta a formare una piccola “o”. Lui parve capire la mia confusione e sorrise malinconico.
Quasi quasi mi veniva un colpo. Due espressioni diverse in meno di un minuto. Non potevo dire che lo conoscessi a fondo, ma l’idea che mi ero fatta di lui era totalmente l’opposto. Così, ad appena sette anni e mezzo, mi investì come secchiata di acqua gelida la consapevolezza che la prima impressione non sempre è quella giusta. Era dura da accettare per me, orgogliosa come sono.
Tutto questo mi passò per la mente in un attimo, ma mi lasciò spaesata. Meccanicamente, ripetei l’ultima domanda che avevo fatto.
<< Perché sei triste? >>
<< Perché se non recito gli altri sono tristi, ma se recito sono triste io! >>
<< E perché devi recitare? >>
<< Perché non voglio piangere tutto il tempo. >>
Lo capivo sempre meno. Era già impressionante il livello che riuscivamo a tenere nonostante io avessi appena sette anni e lui quattro – era davvero un fenomeno.
<< Scusa ma non capisco. >>
<< È che il mio papà… il mio papà è andato ancora in una missione pericolosa… >> si interruppe ed emise un piccolo lamento << Lui è un poliziotto… il suo lavoro è pericoloso, lo so perché la mamma è sempre molto preoccupata. E io non voglio che lo faccia… Ho paura che… ho paura che… >> non finì la frase. Nonostante ciò – o forse proprio per quello – ricompose la sua maschera.
<< Oh, Iori… >> mugolai io, di nuovo sull’orlo delle lacrime. Anzi, macchè sull’orlo. Ruppi l’argine, e cominciai a frignare. Lui sobbalzò e mi guardò sconcertato. Sarei sicuramente scoppiata a ridere, vedendo la sua faccia, se non stessi piangendo come una fontana.
<< Che ti prende? >> io, per tutta risposta, lo abbracciai, prendendolo praticamente in braccio. Ero parecchio più grande di lui.
<< Mi dispiaceeeeeeeee… Non avevo capito nullaaaaaaaaa… e invece tu hai questo problema così graveeeeeee… sono una stupida, per tutti questi mesi ti credevo un mostroooooooooo… >> ululai.
Lui era ancora esterrefatto, ma decise saggiamente di non provare a fermarmi, ma di lasciarmi esaurire le lacrime. Alzò invece una mano e cominciò ad accarezzarmi la testa.
Io ululai ancora più forte.
Continuai per dieci minuti abbondanti. Poi, tutt’a un tratto, mi placai. Anche stavolta, lui non disse una parola e mi passò due fazzoletti.
<< Asciugati le lacrime, dai. >>
Obbedii.
<< Perché me ne hai dati due? >>
Lui sorrise. Un’altra espressione strana, e più bella di tutte le altre che gli avessi mai visto sul viso.
<< Perché devi pulire gli occhiali! >> mi disse restituendomeli. Finalmente un’affermazione degna della sua età.

Così smisi di odiare Iori Hida e, anche se ancora non lo sapevo, così ebbe inizio la nostra relazione d’amicizia e fratellanza in cui ancora non è ben chiaro chi tra noi sia il fratello maggiore, e chi il minore.


Ci sono alcune cose che, sin dall’inizio della nostra amicizia, mi erano state ben chiare su Iori.
Per prima cosa, era molto acuto e sensibile.
Seconda cosa, teneva tantissimo alle persone cui voleva bene, gruppo al quale ero felicissima di appartenere.
Terza cosa, era forte, emotivamente, e ciò mi rassicurava tantissimo, perché mi permetteva di appoggiarmi a lui in ogni situazione per la quale ero indecisa.
Quarta cosa, conseguenza della terza, era probabilmente una delle persone più importanti per me e nella mia vita era una sorta di colonna portante.
Quello che invece non avevo ancora capito su di lui, nonostante i sette mesi di amicizia che fino a quell’avvenimento ci avevano legato, erano tre cose.
La prima, che anche lui era un essere umano.
La seconda, che era piccolo… molto piccolo.
La terza, che la sua maschera non poteva durare in eterno. E quando si infranse, davanti ai miei occhi, fu lo shock più grande che avessi mai avuto.


Il telegiornale mi annoiava. È comune avere reticenza nell’ascoltare le notizie di cronaca, a otto anni e cinque mesi. Per questo, quando una volta al giorno i miei genitori e i miei fratelli decidevano di guardare almeno i titoli del notiziario, io mi spostavo in un angolo del salotto a giocare con le mie bambole. Di solito restavo così finché qualcuno, di solito la mamma, sospirava e veniva a farmi compagnia. Quel giorno, però – perché proprio quel giorno, ancora oggi me lo chiedo, senza sapermi dare risposta –, avevo sete. Era piena estate, e presto saremmo partiti per le vacanze estive. Comunque sia, mi spostai in cucina, per prendere un bicchiere d’acqua. "Non ho sentito Iori oggi", avevo pensato distrattamente rientrando in salotto, mentre ascoltavo la notizia di un attentato che aveva causato la morte di qualcuno. Lo sguardo mi cadde allo schermo. Lessi il nome della vittima.
Hiroki Hida.
Il bicchiere che avevo in meno mi cadde e si infranse sul pavimento, lasciando ai miei piedi una pioggia di brina bagnata, mentre io per un attimo smettevo di respirare, la stanza che girava intorno a me. Mi appoggiai allo stipite della porta, le gambe che tremavano, gli occhi spalancati nel vuoto, nella mente una cosa sola.
Iori.
Quell'uomo era il padre di Iori.

I ricordi successivi sono fotogrammi. La mamma che si alza in piedi, capisce e mi corre incontro abbracciandomi. Papà che invece non ha capito niente, è mio fratello, che nel frattempo ha fatto il collegamento, che bianco come un cencio spiega tutto a lui e alle nostre sorelle. Io che scappo dall’abbraccio e corro verso la porta, la mamma che mi ferma e mi dice che non posso andare da Iori, non in quel momento. Poi non ricordo più nessuna immagine, perché scoppio a piangere, e le lacrime mi inondano gli occhi e il viso, impedendomi di vedere e cancellando dalla mente ogni traccia di pensiero coerente.

Piansi tutta la notte, abbracciata alla mamma. Ogni tanto mi addormentavo, ma era un sonno leggero e tormentato.
La mattina arrivò tardi, dopo quell'orribile notte. Avevo pianto più lacrime di quanto avessi mai fatto, più di quanto credevo fosse possibile, quindi non ero altro che uno straccio stanco in un angolino del letto dei miei. Sentivo papà parlare piano a telefono, il tono di voce grave, ma non distinguevo le parole. Capii però cosa disse ai miei fratelli.
<< C'è il funerale, oggi, alle 11.00. >>
Mi tirai su a sedere e alla mamma venne quasi un colpo – non mi ero ancora mossa di un millimetro.
<< Voglio andarci anch'io. >> le parole mi uscirono come un sussurro.
<< Tesoro... >>
<< Mamma, io devo andare. Devo vedere Iori, in tutti i modi. >> dissi, cercando di comunicare l'urgenza, nonostante il tremolio nella voce. Forse ci riuscii, o forse no, fatto sta che il mio papà sospirò e si inginocchiò davanti a me.
<< Il piccolo Iori ha appena subito una disgrazia terribile. Lo capisci questo, vero, Miyako? >> mi chiese.
<< Sì. >> gli risposi, guardandolo fisso negli occhi e chiedendomi come sarebbe stato per me se mio papà fosse... morto. Non riuscivo neanche a pensare a questa eventualità. A quel punto, lui capì.
<< D'accordo, puoi andare. Ma veniamo anche noi. >>
<< Caro! >>
<< Fidati di me, per favore. Fidati di me. >>
La mamma non rispose. Io corsi all'armadio, ed estrassi un paio di calze e la mia gonna nera.


Erano in tanti, al funerale. Lo sapevo perché, già all'entrata del cimitero, si notava una grande folla di uomini e donne in nero, alcuni in divisa, venuti a rendere omaggio a quel poliziotto morto in servizio. Non vedevo Iori, ma lui era certamente più avanti, le persone attorno a lui erano tutte adulte e lui era piccolo, così piccolo...
Mi aspettavo un'altra scarica di lacrime, che non arrivò. Dovevo averle finite proprio tutte.
Un attimo, ed eravamo ai bordi della folla. Mio padre si fermò ad ascoltare le parole dell'ispettore di polizia che declamava un lungo elogio sul coraggio e sul cuore forte che Hiroki Hida aveva avuto. Io tirai dritto, passando tra la gente, che inspiegabilmente mi faceva passare senza storie.
Raggiunsi il centro del gruppo, e la tomba. Lì lo vidi.
La mano di sua madre attorno alle sue spalle, suo nonno appena dietro, rigido e composto. Fumiko Hida piangeva sommessamente, senza isteria, frenata, credo, dal dolore stesso. Iori, invece, non piangeva. Irradiava dolore, però, e sembrava... spento. Non alzò gli occhi, quando arrivai, ma ero certo che avesse intuito la mia presenza lì.
Io ero bloccata. Non sapevo cosa fare. Sapevo che Iori stava male, ma non sapevo se gradiva la mia presenza lì. Se avesse voluto che io mi avvicinassi, me l'avrebbe detto, per togliermi dall'imbarazzo. In qualsiasi altra situazione. Ma in quel momento, probabilmente, non era abbastanza lucido per fare alcunché.
Decisi da sola, e mi avvicinai quindi a lui, piano, senza fretta. Nessuno ancora mi disse niente. Stetti vicino al mio migliore amico per tutto il tempo del discorso, un tempo lungo e infinito, a non guardare nient'altro che sono fossero quella bara, e il nome sulla lapide. Non notai nemmeno la fine del discorso, se non quando la bara venne spostata nella tomba, e ricoperta di terra. La gente cominciò ad avvicinarsi alla famiglia, piano e con dolcezza, porgendo i propri saluti e le proprie condoglianze, alle quali la mamma e il nonno di Iori rispondevano più per cortesia che per gratitudine.
Io non mi mossi, Iori neppure. Mi chiesi, distrattamente, fin quando sarebbe durata. I minuti trascorrevano lenti, le persone si susseguivano. Fu quando l'ispettore si abbassò per posare sulla lapide una medaglia al merito che qualcosa si mosse. Impercettibilemente, accanto a me, Iori cominciò a tremare, le scosse che pian piano diventavano sempre più forti, fino quasi a diventare sussulti. Preoccupata, mi voltai verso di lui, e lo chiamai.
<< Iori... >>
Il mio amico si voltò verso di me, e io vidi una lacrima scivolare sul suo viso. La mia anima andò in pezzi, mentre Iori mi saltava al collo ed emetteva un lungo urlo di dolore.


Ci volle un po' perché Iori si riprendesse totalmente dallo shock e per più di un anno non fu più il bimbo di prima. Ancora oggi, non credo che sia riuscito a scavalcare completamente il dolore, ma del resto, questo non è qualcosa da cui si può guarire, da cui si può tornare indietro.
Personalmente, diedi prova della mia migliore rappresentazione di persona piena di tatto. Non lo cercai, non lo chiamai, non tentai mai di farlo ridere, le poche volte che ci vedevamo. A dire il vero, attuai una vera e propria rivoluzione del mio carattere, in quei mesi. Non ero più impulsiva, non ero più agitata, non ero più invadente e, soprattutto, smisi di piangere, perché qualcuno stava peggio di me, qualcuno che mi era vicino.
Le cose, comunque, in qualche modo proseguirono. Dapprima recalcitrante, poi sempre più rassegnata al tempo che continuava a proseguire, per tutti noi la vita ricominciò a scorrere, gettando disinfettante sulle ferita passate e permettendoci, ogni tanto, di assaporare la passata normalità.


Me ne resi conto un pomeriggio di pioggia nel settembre del 2000. Mi trovavo a passare davanti allo stesso parco in cui io e Iori eravamo diventati amici.
Non lo vedevo da tre mesi, ormai. Quando eravamo tornati al cimitero in occasione del primo anniversario della scomparsa di suo padre, Iori non c'era. Forse si era nascosto, avevo pensato, perché incontrare altra gente gli faceva male.
Comunque fosse, Iori cominciava a mancarmi. Sapevo che non sarebbe più stato lo Iori di una volta, e non sarei mai andata a infastidirlo, ma non potevo mentirmi: mi mancava il mio migliore amico.
Le lacrime mi salirono di nuovo agli occhi, ma non le lasciai uscire. Ero diventata proprio brava.
Arrivai a casa e suonai al campanello. Mi aprì mia sorella Chizuru, un enorme sorriso stampato in volto e anche la mamma, dietro di lei, mi guardava serena e con una strana luce negli occhi.
<< Ma cosa... >>
<< Vieni! >> mi fece Chizuru, trascinandomi in salotto.
Dentro c'erano due persone. Una signora minuta e vestita di scuro, e un bambino di sei anni, seduto sul divano. Entrambi mi guardavano. Io guardavo loro. Avanzai titubante, in modo buffo e quasi meccanico, lasciandomi cadere sul divano, senza staccare gli occhi da quelli del piccolo seduto accanto a me. Non so come, trattenni ancora le lacrime che già mi pungevano, mentre con una voce tremante e flebile, un sussurro, dicevo << Ciao Iori.>>
<< Ciao. >>
Mia sorella, davanti a me, mi informava senza che le avessi chiesto nulla del fatto che l'anno seguente Iori, sua mamma e suo nonno si sarebbero con ottime probabilità trasferiti nel nostro condominio e che lei e la mamma li avevano incontrati mentre rientravano dopo aver fatto la spesa e che li avevano invitati a prendere qualcosa come un the mentre aspettavano il mio ritorno...
Io la ignoravo beatamente – ascoltavo i lunghi monologhi massacranti di Chizuru da quando sono nata e ormai sapevo come difendermi.
Sempre con in faccia un'espressione sbalordita, lottavo contro le lacrime che minacciavano di uscire mentre ingaggiavo con Iori una gara di sguardi. La interruppe lui, mentre assumeva un cipiglio incuriosito. << Perché non piangi, Miyako? >>
Eccoci. Colta in flagrante. Sia maledetta la sua sensibilità!
<< Perché dovrebbe piangere, tesoro? >>
<< Sta trattendendo le lacrime... >>
Accidenti, mica potevo mentire davanti a uno che pareva un antenna radio dei miei sentimenti!
Mi decisi a parlare. << Perché... >>
Lui mi fissò.
<< Perché dovrei piangere? Non ho nessun motivo che giustifichi la mia tristezza. >>
Iori mi fissò, un sospetto negli occhi.
<< Io non ho ragioni per essere triste. >>
Il sospetto che aveva divenne certezza.
<< Miya... >> mi disse prendendomi una mano. << Le tue non sono mica sempre lacrime di tristezza, giusto? Tu piangi per qualsiasi cosa... >>
Pericolo, pericolo cedimento diga! Allarme, allarme sovraccarico di acqua!
<< Comunque, non volevo dirti questo. Volevo dirti che... insomma... mi dispiace di essere sparito, ecco. >>
Io non riuscivo a spiccicare parole, o avrei infranto un equilibrio fin troppo precario. Eeeevacure! Eeeeeevacuare!
Negli occhi di Iori c'era qualcosa che non avevo mai visto. Era... supplica?
<< Possiamo ancora essere amici? >> mi chiese implorante.
Oddio.
Gli esplosi in faccia. Come avevo promesso al nostro primissimo incontro. E non fu piacevole per lui... lo inzuppai da capo a piedi, con tutte le lacrime che aveva trattenuto in quei sedici mesi.
Inutile ogni sforzo. Piagnona ero stata, piagnona ero, e piagnona sarei rimasta per tutta la vita.

È Iori a ricordarmi questo avvenimento, qualche volta, e ogni volta mi ringrazia, perché, in quella situazione assurda, con io che riuscivo a bagnare contemporaneamente me stessa, lui e il divano, con le nostre mamme che cercavano di restare serie ed evitavano accuratamente di incrociare gli sguardi e mia sorella che ci guardava stralunata, lui fece una cosa che gli era molto mancata in quei mesi. Scoppiò a ridere.
Rise, rise, rise fino alle lacrime, restando senza fiato. Dopo di lui, anche sua mamma, la mia, mia sorella si unirono al delirio, e per finire anch'io cominciai ad alternare risa e singhiozzi, senza smettere di piangere, ma anzi, raddoppiando le lacrime. Mezz'ora dopo, quando i miei fratelli e mio padre rincasarono, ci trovarono esattemente in quelle posizioni.
Ci scattarono anche una foto, che io conservo come un tesoro, e tiro fuori quando voglio farmi due risate.
Ne ha una anche Iori, ovviamente, e guardandola sostiene che io, col mio comportamento, l'avevo fatto guarire.
Ne sono felice, gli rispondo, ma in fondo non avevo fatto niente di diverso dal mio solito.
È vero, concorda, hai solo pianto. Mentre io no. Ma finalmente eravamo di nuovo il vero me e la vera te.
Grazie per identificarmi così.
Sai cosa voglio dire.
È vero. Stavolta ho capito. Io piango, e tu mi consoli.
Come al solito.
Già. Come sempre!

  
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