Miyako & Iori_Come sempre!
Ci
sono tre persone nella mia vita – e non proprio tre estranei,
in
quanto si tratta della mia migliore amica, del mio migliore amico e
del mio ragazzo – che sostengono fermamente che, con un
po’
d’attenzione e spirito d’osservazione, è
facile capire gli
aspetti generali del carattere di una persona. E io, ascoltandoli, non
posso fare a
meno di pensare che mi stiano prendendo per i fondelli. Una
personalità è troppo complessa perché
la si capisca con una
semplice occhiata, dico io. Infatti, ribattono loro, mica pretendiamo
di sapere tutto su qualcuno stando ad osservarlo, ma solo di intuire
che tipo di persona sia.
Qui
solitamente si fermano, perché sono tre persone estremamente
gentili, e non infieriscono su di me ricordandomi come, un tempo,
fossi io quella superficiale, e che proprio loro mi hanno insegnato a
non esserlo. Fino a non molto tempo fa, infatti, – questa
cosa sarà
un mio eterno rimorso – non solo non mi passava neanche
lontanamente nella testa di capire qualcuno, ma, come se non
bastasse, mi comportavo con tutti sicura che la prima impressione che
avevo avuto su di loro fosse giusta e li identificasse – ho
preso
una lunga serie di batoste con questo mio modo di fare, ma sono
riuscita a superarle tutte, in un modo o nell'altro. Adesso, in caso
di dubbio, faccio domande a destra e a manca, che non è
esattamente
più piacevole, ma sicuramente meglio che essere creduti dei
buzzurri
solamente perché di cattivo umore al momento del nostro
primo
incontro. Sono estremamente contenta di aver aperto gli occhi.
Aldilà
di questo il mio passato comportamento, svanendo, mi ha lasciato un
regalo: la capacità, anche se purtroppo non la
volontà, di essere
sintetica. Ciò significa che sono un asso nel dare
definizioni
stringate e "inquadrare una persona con poco più di una
parola"
è in assoluto l'attività che più mi
piace fare. Un esempio banale:
me stessa. Io sono di facilissimo inquadramento, poiché
qualsiasi
mio atteggiamento reca la scritta EMOTIVITÀ,
EMOTIVITÀ, EMOTIVITÀ,
ovvero: sputo sempre e subito tutto ciò che ho da dire in
base a ciò
che provo in quel preciso momento. Il che, mi è stato detto
e lo
capisco, può dare fastidio, a me e all'interessato. Come
quando ho
incontrato lui.
È
precisamente questo il motivo per cui, un tempo, gli stavo alla
larga..
Sarebbe
infatti stato un problema, se lo avessi strangolato.
Lui
era ed è Iori
Hida.
È più piccolo di me di
tre anni, infatti la prima volta lo incontrai per caso, quando tornai
con mio fratello maggiore Mantarou a salutare i miei, o meglio i
nostri, maestri d'asilo. Avevo appena finito la prima elementare.
Lui catturò
subito la mia attenzione.
Era piccolo, enigmatico,
ma soprattutto aveva un’aria sfuggente perché,
mentre gli altri
bambini mi circondavano e mi inserivano nei loro giochi, lui se ne
stava in disparte, quasi al buio, a fare un puzzle.
Ma andiamo, un puzzle un
bambino di non più di quattro anni?
Decisi quindi (dall'alto
dei miei sette) che dovevo fare qualcosa per lui. Mi congedai
momentaneamente dai miei ammiratori e ammiratrici e mi avvicinai a
Iori.
<< Ciao piccolo! >>
lo inondai, fermamente convinta di stare facendo del bene.
<<
Io sono Miyako e sono già alle elementari, ma puoi chiamarmi
solo
con il mio nome perché Miyako-senpai mi fa sentire vecchia.
>>
Io gli sorrisi.
Lui mi ignorò. Deliberatamente. Ero
indispettita.
<< Dai, dai, dai,
ascoltami, vieni a giocare con noi. Il puzzle non è bello
come
cucinare tutti insieme! >> continuai imperterrita. Non
accettavo di essere ignorata. << Ti chiami Iori, non
è così?
Qualcuno me l'ha borbottato... se non giochi con tutti, starai solo!
>> gli gesticolai addosso. Ripensandoci, devo concludere
che la
faccenda mi prendeva parecchio.
Ricordo benissimo la
scena seguente. Lui non lascia nemmeno il pezzo di puzzle che ha in
mano. Senza metterlo, si volta verso di me e io, speranzosa, lo
guardo tutta sorridente. E senza neanche puntarmi il dito contro,
come ogni bambino di questo mondo avrebbe fatto, mi guarda negli
occhi e dice << Noiosa. >>
Tutte le volte che
glielo ricordo, Iori ride e concorda con me sul fatto che
probabilmente, per quella volta, deve la vita a mio fratello.
Infatti, non appena mi
disse quella parola, quando il mio cervello aveva già
elaborato la
cosa e aveva deciso che no, non poteva accettare quell'offesa
–
"Brutta", d'accordo. "Antipatica" ok. Ma
"Noiosa", questo proprio no – e veramente un istante
prima che gli esplodessi in faccia ( non so come, ma non sarebbe
stato piacevole per lui ) Mantarou mi aveva preso in braccio
facendomi sputare tutta l'aria che avevo incamerato per quella che
definivo "la vendetta".
<< Forza Miya,
saluta. Dobbiamo tornare a casa. >>
Io fui estremamente
scortese con tutti, lo so, perché a malapena alzai la mano
in segno
di saluto e non guardai comunque in faccia nessuno, andando via.
I miei piccoli occhi,
ridotti a fessure dietro le lenti che già portavo, fissavano
sempre
lo stesso angolino, dove Iori aveva ripreso a fare il suo puzzle,
infischiandosene della sottoscritta.
Non sapevo bene le
dinamiche, allora, mentre lo guardavo scomparire alla mia vista oltre
la porta, ma di una cosa ero certa: l’avrebbe pagata cara.
O
almeno così credevo.
Per i successivi sei mesi non sentii più neanche parlare di
Iori
Hida. Nella mia testa avevo già creato diversi piani di
vendetta,
estremamente fantasiosi, ma purtroppo – me ne rendo conto
solo ora
– tutti di difficile realizzazione.
La creazione di tutte
queste strategie mi aveva fatto compagnia in più di
un’occasione
ed era diventata un’attività che mi occupava
più o meno un’ora
al giorno. Ciò non aveva fatto altro che ingigantire, ai
miei occhi,
la cattiveria che Iori mi aveva fatto e che ormai mi trovavo a
considerare alla stregua di un delitto di lesa maestà ( in
cui la
maestà ovviamente ero io ) – se non avevate ancora
capito che sono
una persona piuttosto vendicativa, adesso se avete la conferma. In
tutto questo, Iori non aveva alcun ruolo, anzi: probabilmente si era
già dimenticato di me, mi ero detta – senza
ascoltarmi, però. Ma
non avevo ancora imparato che Iori non era come tutti gli altri.
Il nostro secondo
incontro avvenne come il primo: per caso. Era sempre il 1998 ed era
metà Ottobre, il 16 se non sbaglio, e alle ore 14.30 di quel
Venerdì
avevo l’appuntamento dall’oculista...
<< Bene, piccola.
Allora, i tuoi occhi sono assolutamente sani, ma visto che entrambi i
tuoi genitori portano gli occhiali non è strano che li debba
indossare anche tu. >>
<< Però io non ci
vedo più bene! >>
<< Lo so, infatti
la vista ti è un pochino peggiorata, ma non…
>>
<< Ma lei aveva
detto che i miei occhi stavano bene! >> strillai io,
dall’ansia
che avevo.
<< Miya su, sta’
buona. Ascolta quello che ti dice il dottore. >> mi
ammonì la
mamma.
<< Sì, dicevo…
La miopia non è una malattia, Miyako. Non è come
la cecità che
alla fine non ti fa più vedere, mi segui? >>
Io annuii, senza far
notare quanto ero preoccupata.
<< Però può
diventare più forte, ma tutto quello che te devi fare
è mettere
occhiali più forti anche tu. D’accordo, piccola?
>>
<< Sì, signore, ho
capito. >>
<< Brava. Allora ci
rivediamo tra altri sei mesi, va bene? >>
No che non andava bene,
accidenti! Io non volevo quell’affare di
metallo e vetro sul
mio naso! L’avevo sempre odiato! Mi ricordavo bene la prima
volta
con indosso un paio di occhiali. Mi ero sembrata un gufo, o ancora
peggio un topo! Un orrido topo viola!
Ma sapevo che, se proprio
non volevo tenerli, potevo stare senza per un po’, come
durante i
giochi con i miei amici. Quindi mi limitai ad annuire al dottore, e
ad uscire dall’ambulatorio mano nella mano alla mamma. Un
pensiero
mi attraversò la mente.
<< Mamma! >>
<< Che c’è? Hai
lasciato qualcosa nello studio? >>
<< No, è che avevo
detto a Nanae-chan che sarei andata al parco appena finito qui!
Posso? >>
Lei mi sorrise <<
D’accordo… ci andiamo subito. >>
<<
Perché non ti
togli gli occhiali, mentre giochi? >> fu un bambino di
cui
conoscevo solo il nome, Yuukimaru, a farmi questa domanda. Stavamo
giocando con la sabbia e la questione era se scavare o meno il
fossato attorno al castello. Ma si sa, la concentrazione dei bambini
non è il massimo. A lui era venuta in mente questa cosa, e
me
l’aveva subito chiesta.
Io rimasi senza parole.
Perché non ci avevo pensato da sola? Li sfilai, senza
pensarci più
di tanto, ed ebbi una brutta sorpresa. Terrificante, e
incomprensibile per chi non ci è passato, lo capisco. Ma
credetemi
se vi dico che è tremendo, togliersi dal viso un oggetto
piccolo e
dall’aria insignificante come un paio di occhiali di metallo
e
scoprire che il mondo è composto solo da macchiette di
colore
artisticamente intrecciate fra loro. Questo vidi quel pomeriggio. Il
panico mi invase.
Non
sapevo dove mettere i piedi. Non sapevo come muovermi, senza cadere.
Non sapevo a che distanza fosse il bambino che mi aveva posto questa
domanda, né se bastasse allungare un braccio per
raggiungerlo. Non
sapevo a quale macchia di colore rivolgermi per chiamare Nanae, che
si trovava allo scivolo appena cinque metri più in
là.
Scoppiai in lacrime,
senza freno, e scappai verso l’altro lato del parco.
<< Ehi, aspetta,
dove vai? Non importa se non li togli! >> mi
gridò dietro il
bambino di prima, ma io non lo ascoltavo. Raggiunsi il girello e
gettai per terra gli occhiali, prima di raggomitolarmi su me stessa a
singhiozzare. Io non volevo non vederci
più!
Sentii che qualcuno mi si
avvicinava.
<< Lasciatemi in
pace! >> strillai senza alzare la testa. Chiunque fosse,
si
abbassò accanto a me.
<< Non fa bene agli
occhiali essere buttati giù. >>
Se non fossi stata già
per terra, sarei caduta dalla stupore. Mi voltai di scatto, riuscendo
comunque a perdere l’equilibrio, e mi trovai a fissare i
contorni
sfocati del viso di Iori Hida.
<< Perché sei qui?
Perché non mi lasci in pace? Perché sei tu?
>> dissi, mentre
un'altra scarica di lacrme mi bagnava il viso.
Lui non si scompose
neanche un po’ davanti a quella sfuriata. Si
limitò ad alzare un
sopracciglio e a chiedermi.
<< Ce l’hai con
me? >>
Come previsto, non si
ricordava di me.
<< Se ce l’ho con
te? Certo che ce l’ho con te! Mi hai dato della persona
noiosa e
non mi hai considerato minimamente mentre io mi impegnavo a farti
socializzare col resto dei bambini della tua classe! Ti ho offerto io
mio aiuto su un piatto d’argento e tu mi hai fatto fare una
figura
orribile senza chiedermi nemmeno scusa! E come se non bastasse non ti
ricordi nemmeno di me! E adesso che voglio stare per i fatti miei
proprio tu mi appari davanti! >>
<< Come io mi sto
impicciando ora dei fatti tuoi, anche tu ti stavi impicciando dei
fatti miei, all’asilo. Quindi se ti ho detto che eri noiosa
era
perché lo meritavi. E poi non è colpa mia se non
ti ho chiesto
scusa. Tuo fratello ti ha portato subito via. >>
<< Io ti volevo
aiutare! E anche se Mantarou mi ha portato via potevi gridarmelo
dietro “scusa”, non è che io…
>> mi bloccai, smettendo
di piangere.
<< Questo vuol dire
che ti ricordi di me! >>
<< “Io sono
Miyako e sono già alle elementari, ma puoi chiamarmi solo
con il mio
nome perché Miyako-sempai mi fa sentire vecchia.”
>> mi citò
lui in risposta.
<< Ma allora mi
stavi ascoltando! >>
<< Certo. Mi
incuriosivi. >>
<< Scusa se te lo
dico, ma sembravi tutto meno che incuriosito. >> Lo
fissai da
vicino – molto da vicino, perché senza occhiali
com’ero avevo
bisogno di corte distanze per vedere.
Così vidi qualcosa che
non avevo notato la prima volta sul viso di Iori. O meglio, avevo
colto quella stranezza anche al nostro primo incontro, ma non ci
avevo dato peso.
Il fatto era che, anche
se l’espressione sul suo volto non era cambiata di un
millimetro,
non era come prima, perché, da qualsiasi prospettiva la si
guardasse, l’espressione chiusa e indecifrabile di Iori
irradiava
tristezza… se non disperazione.
Nonostante tutti i
propositi di odio eterno che mi ero proposta nei suoi confronti, mi
si strinse il cuore a vederlo così.
<< Perché sei
triste? >>
Lui mi guardò,
l’espressione incredibilmente mutata – mi fece
rimanere a bocca
aperta, con questo cambio inaspettato.
<< Te ne sei
accorta? >>
Io rimanevo senza parole,
la bocca aperta a formare una piccola “o”. Lui
parve capire la
mia confusione e sorrise malinconico.
Quasi quasi mi veniva un
colpo. Due espressioni diverse in meno di un minuto. Non potevo dire
che lo conoscessi a fondo, ma l’idea che mi ero fatta di lui
era
totalmente l’opposto. Così, ad appena sette anni e
mezzo, mi
investì come secchiata di acqua gelida la consapevolezza che
la
prima impressione non sempre è quella giusta. Era dura da
accettare
per me, orgogliosa come sono.
Tutto questo mi passò
per la mente in un attimo, ma mi lasciò spaesata.
Meccanicamente,
ripetei l’ultima domanda che avevo fatto.
<< Perché sei
triste? >>
<< Perché se non
recito gli altri sono tristi, ma se recito sono triste io!
>>
<< E perché devi
recitare? >>
<< Perché non
voglio piangere tutto il tempo. >>
Lo capivo sempre meno.
Era già impressionante il livello che riuscivamo a tenere
nonostante
io avessi appena sette anni e lui quattro – era davvero un
fenomeno.
<< Scusa ma non
capisco. >>
<< È che il mio
papà… il mio papà è andato
ancora in una missione pericolosa…
>> si interruppe ed emise un piccolo lamento
<< Lui è un
poliziotto… il suo lavoro è pericoloso, lo so
perché la mamma è
sempre molto preoccupata. E io non voglio che lo faccia… Ho
paura
che… ho paura che… >> non
finì la frase. Nonostante ciò –
o forse proprio per quello – ricompose la sua maschera.
<< Oh, Iori… >>
mugolai io, di nuovo sull’orlo delle lacrime. Anzi,
macchè
sull’orlo. Ruppi l’argine, e cominciai a frignare.
Lui sobbalzò
e mi guardò sconcertato. Sarei sicuramente scoppiata a
ridere,
vedendo la sua faccia, se non stessi piangendo come una fontana.
<< Che ti prende?
>> io, per tutta risposta, lo abbracciai, prendendolo
praticamente in braccio. Ero parecchio più grande di lui.
<< Mi
dispiaceeeeeeeee… Non avevo capito nullaaaaaaaaa…
e invece tu hai
questo problema così graveeeeeee… sono una
stupida, per tutti
questi mesi ti credevo un mostroooooooooo… >>
ululai.
Lui era ancora
esterrefatto, ma decise saggiamente di non provare a fermarmi, ma di
lasciarmi esaurire le lacrime. Alzò invece una mano e
cominciò ad
accarezzarmi la testa.
Io ululai ancora più
forte.
Continuai per dieci
minuti abbondanti. Poi, tutt’a un tratto, mi placai. Anche
stavolta, lui non disse una parola e mi passò due fazzoletti.
<< Asciugati le
lacrime, dai. >>
Obbedii.
<< Perché me ne
hai dati due? >>
Lui sorrise. Un’altra
espressione strana, e più bella di tutte le altre che gli
avessi mai
visto sul viso.
<< Perché devi
pulire gli occhiali! >> mi disse restituendomeli.
Finalmente
un’affermazione degna della sua età.
Così smisi di odiare Iori Hida e, anche se ancora non lo sapevo, così ebbe inizio la nostra relazione d’amicizia e fratellanza in cui ancora non è ben chiaro chi tra noi sia il fratello maggiore, e chi il minore.
Ci sono alcune cose
che, sin dall’inizio della nostra amicizia, mi erano state
ben
chiare su Iori.
Per prima cosa, era
molto acuto e sensibile.
Seconda cosa, teneva
tantissimo alle persone cui voleva bene, gruppo al quale ero
felicissima di appartenere.
Terza cosa, era forte,
emotivamente, e ciò mi rassicurava tantissimo,
perché mi permetteva
di appoggiarmi a lui in ogni situazione per la quale ero indecisa.
Quarta cosa,
conseguenza della terza, era probabilmente una delle persone
più
importanti per me e nella mia vita era una sorta di colonna portante.
Quello che invece non
avevo ancora capito su di lui, nonostante i sette mesi di amicizia
che fino a quell’avvenimento ci avevano
legato, erano tre
cose.
La prima, che anche
lui era un essere umano.
La seconda, che era
piccolo… molto piccolo.
La terza, che la sua
maschera non poteva durare in eterno. E quando si infranse, davanti
ai miei occhi, fu lo shock più grande che avessi mai avuto.
Il
telegiornale mi
annoiava. È comune avere reticenza nell’ascoltare
le notizie di
cronaca, a otto anni e cinque mesi. Per questo, quando una volta al
giorno i miei genitori e i miei fratelli decidevano di guardare
almeno i titoli del notiziario, io mi spostavo in un angolo del
salotto a giocare con le mie bambole. Di solito restavo così
finché
qualcuno, di solito la mamma, sospirava e veniva a farmi compagnia.
Quel giorno, però – perché proprio quel
giorno, ancora oggi me lo
chiedo, senza sapermi dare risposta –, avevo sete. Era piena
estate, e presto saremmo partiti per le vacanze estive. Comunque sia,
mi spostai in cucina, per prendere un bicchiere d’acqua. "Non
ho sentito Iori oggi", avevo pensato distrattamente rientrando
in salotto, mentre ascoltavo la notizia di un attentato che aveva
causato la morte di qualcuno. Lo sguardo mi cadde allo schermo. Lessi
il nome della vittima.
Hiroki Hida.
Il bicchiere che avevo in
meno mi cadde e si infranse sul pavimento, lasciando ai miei piedi
una pioggia di brina bagnata, mentre io per un attimo smettevo di
respirare, la stanza che girava intorno a me. Mi appoggiai allo
stipite della porta, le gambe che tremavano, gli occhi spalancati nel
vuoto, nella mente una cosa sola.
Iori.
Quell'uomo era il
padre di Iori.
I ricordi successivi sono fotogrammi. La mamma che si alza in piedi, capisce e mi corre incontro abbracciandomi. Papà che invece non ha capito niente, è mio fratello, che nel frattempo ha fatto il collegamento, che bianco come un cencio spiega tutto a lui e alle nostre sorelle. Io che scappo dall’abbraccio e corro verso la porta, la mamma che mi ferma e mi dice che non posso andare da Iori, non in quel momento. Poi non ricordo più nessuna immagine, perché scoppio a piangere, e le lacrime mi inondano gli occhi e il viso, impedendomi di vedere e cancellando dalla mente ogni traccia di pensiero coerente.
Piansi
tutta la notte,
abbracciata alla mamma. Ogni tanto mi addormentavo, ma era un sonno
leggero e tormentato.
La mattina arrivò tardi,
dopo quell'orribile notte. Avevo pianto più lacrime di
quanto avessi
mai fatto, più di quanto credevo fosse possibile, quindi non
ero
altro che uno straccio stanco in un angolino del letto dei miei.
Sentivo papà parlare piano a telefono, il tono di voce
grave, ma non
distinguevo le parole. Capii però cosa disse ai miei
fratelli.
<< C'è il
funerale, oggi, alle 11.00. >>
Mi tirai su a sedere e
alla mamma venne quasi un colpo – non mi ero ancora mossa di
un
millimetro.
<< Voglio andarci
anch'io. >> le parole mi uscirono come un sussurro.
<< Tesoro... >>
<< Mamma, io devo
andare. Devo vedere Iori, in tutti i modi. >> dissi,
cercando
di comunicare l'urgenza, nonostante il tremolio nella voce. Forse ci
riuscii, o forse no, fatto sta che il mio papà
sospirò e si
inginocchiò davanti a me.
<< Il piccolo Iori
ha appena subito una disgrazia terribile. Lo capisci questo, vero,
Miyako? >> mi chiese.
<< Sì. >>
gli risposi, guardandolo fisso negli occhi e chiedendomi come sarebbe
stato per me se mio papà fosse... morto.
Non riuscivo
neanche a pensare a questa eventualità. A quel punto, lui
capì.
<< D'accordo, puoi
andare. Ma veniamo anche noi. >>
<< Caro! >>
<< Fidati di me,
per favore. Fidati di me. >>
La mamma non rispose. Io
corsi all'armadio, ed estrassi un paio di calze e la mia gonna nera.
Erano in tanti, al
funerale. Lo sapevo perché, già all'entrata del
cimitero, si notava
una grande folla di uomini e donne in nero, alcuni in divisa, venuti
a rendere omaggio a quel poliziotto morto in servizio. Non vedevo
Iori, ma lui era certamente più avanti, le persone attorno a
lui
erano tutte adulte e lui era piccolo, così piccolo...
Mi aspettavo un'altra
scarica di lacrime, che non arrivò. Dovevo averle finite
proprio
tutte.
Un attimo, ed eravamo ai
bordi della folla. Mio padre si fermò ad ascoltare le parole
dell'ispettore di polizia che declamava un lungo elogio sul coraggio
e sul cuore forte che Hiroki Hida aveva avuto. Io tirai dritto,
passando tra la gente, che inspiegabilmente mi faceva passare senza
storie.
Raggiunsi il centro del
gruppo, e la tomba. Lì lo vidi.
La mano di sua madre
attorno alle sue spalle, suo nonno appena dietro, rigido e composto.
Fumiko Hida piangeva sommessamente, senza isteria, frenata, credo,
dal dolore stesso. Iori, invece, non piangeva. Irradiava dolore,
però, e sembrava... spento. Non alzò gli occhi,
quando arrivai, ma
ero certo che avesse intuito la mia presenza lì.
Io ero bloccata. Non
sapevo cosa fare. Sapevo che Iori stava male, ma non sapevo se
gradiva la mia presenza lì. Se avesse voluto che io mi
avvicinassi,
me l'avrebbe detto, per togliermi dall'imbarazzo. In qualsiasi altra
situazione. Ma in quel momento, probabilmente, non era abbastanza
lucido per fare alcunché.
Decisi da sola, e mi
avvicinai quindi a lui, piano, senza fretta. Nessuno ancora mi disse
niente. Stetti vicino al mio migliore amico per tutto il tempo del
discorso, un tempo lungo e infinito, a non guardare nient'altro che
sono fossero quella bara, e il nome sulla lapide. Non notai nemmeno
la fine del discorso, se non quando la bara venne spostata nella
tomba, e ricoperta di terra. La gente cominciò ad
avvicinarsi alla
famiglia, piano e con dolcezza, porgendo i propri saluti e le proprie
condoglianze, alle quali la mamma e il nonno di Iori rispondevano
più
per cortesia che per gratitudine.
Io non mi mossi, Iori
neppure. Mi chiesi, distrattamente, fin quando sarebbe durata. I
minuti trascorrevano lenti, le persone si susseguivano. Fu quando
l'ispettore si abbassò per posare sulla lapide una medaglia
al
merito che qualcosa si mosse. Impercettibilemente, accanto a me, Iori
cominciò a tremare, le scosse che pian piano diventavano
sempre più
forti, fino quasi a diventare sussulti. Preoccupata, mi voltai verso
di lui, e lo chiamai.
<< Iori... >>
Il mio amico si voltò
verso di me, e io vidi una lacrima scivolare sul suo viso. La mia
anima andò in pezzi, mentre Iori mi saltava al collo ed
emetteva un
lungo urlo di dolore.
Ci volle un po' perché
Iori si riprendesse totalmente dallo shock e per più di un
anno non
fu più il bimbo di prima. Ancora oggi, non credo che sia
riuscito a
scavalcare completamente il dolore, ma del resto, questo non
è
qualcosa da cui si può guarire, da cui si può
tornare indietro.
Personalmente, diedi
prova della mia migliore rappresentazione di persona piena di tatto.
Non lo cercai, non lo chiamai, non tentai mai di farlo ridere, le
poche volte che ci vedevamo. A dire il vero, attuai una vera e
propria rivoluzione del mio carattere, in quei mesi. Non ero
più
impulsiva, non ero più agitata, non ero più
invadente e,
soprattutto, smisi di piangere, perché qualcuno stava peggio
di me,
qualcuno che mi era vicino.
Le cose, comunque, in
qualche modo proseguirono. Dapprima recalcitrante, poi sempre
più
rassegnata al tempo che continuava a proseguire, per tutti noi la
vita ricominciò a scorrere, gettando disinfettante sulle
ferita
passate e permettendoci, ogni tanto, di assaporare la passata
normalità.
Me
ne resi conto un
pomeriggio di pioggia nel settembre del 2000. Mi trovavo a passare
davanti allo stesso parco in cui io e Iori eravamo diventati amici.
Non lo vedevo da tre
mesi, ormai. Quando eravamo tornati al cimitero in occasione del
primo anniversario della scomparsa di suo padre, Iori non c'era.
Forse si era nascosto, avevo pensato, perché incontrare
altra gente
gli faceva male.
Comunque fosse, Iori
cominciava a mancarmi. Sapevo che non sarebbe più stato lo
Iori di
una volta, e non sarei mai andata a infastidirlo, ma non potevo
mentirmi: mi mancava il mio migliore amico.
Le lacrime mi salirono di
nuovo agli occhi, ma non le lasciai uscire. Ero diventata proprio
brava.
Arrivai a casa e suonai
al campanello. Mi aprì mia sorella Chizuru, un enorme
sorriso
stampato in volto e anche la mamma, dietro di lei, mi guardava serena
e con una strana luce negli occhi.
<< Ma cosa... >>
<< Vieni! >>
mi fece Chizuru, trascinandomi in salotto.
Dentro c'erano due
persone. Una signora minuta e vestita di scuro, e un bambino di sei
anni, seduto sul divano. Entrambi mi guardavano. Io guardavo loro.
Avanzai titubante, in modo buffo e quasi meccanico, lasciandomi
cadere sul divano, senza staccare gli occhi da quelli del piccolo
seduto accanto a me. Non so come, trattenni ancora le lacrime che
già
mi pungevano, mentre con una voce tremante e flebile, un sussurro,
dicevo << Ciao Iori.>>
<< Ciao. >>
Mia sorella, davanti a
me, mi informava senza che le avessi chiesto nulla del fatto che
l'anno seguente Iori, sua mamma e suo nonno si sarebbero con ottime
probabilità trasferiti nel nostro condominio e che lei e la
mamma li
avevano incontrati mentre rientravano dopo aver fatto la spesa e che
li avevano invitati a prendere qualcosa come un the mentre
aspettavano il mio ritorno...
Io la ignoravo beatamente
– ascoltavo i lunghi monologhi massacranti di Chizuru da
quando
sono nata e ormai sapevo come difendermi.
Sempre con in faccia
un'espressione sbalordita, lottavo contro le lacrime che minacciavano
di uscire mentre ingaggiavo con Iori una gara di sguardi. La
interruppe lui, mentre assumeva un cipiglio incuriosito.
<<
Perché non piangi, Miyako? >>
Eccoci. Colta in
flagrante. Sia maledetta la sua sensibilità!
<< Perché dovrebbe
piangere, tesoro? >>
<< Sta trattendendo
le lacrime... >>
Accidenti, mica potevo
mentire davanti a uno che pareva un antenna radio dei miei
sentimenti!
Mi decisi a parlare. <<
Perché... >>
Lui mi fissò.
<< Perché dovrei
piangere? Non ho nessun motivo che giustifichi la mia tristezza.
>>
Iori mi fissò, un
sospetto negli occhi.
<< Io non ho
ragioni per essere triste. >>
Il sospetto che aveva
divenne certezza.
<< Miya... >>
mi disse prendendomi una mano. << Le tue non sono mica
sempre
lacrime di tristezza, giusto? Tu piangi per qualsiasi cosa...
>>
Pericolo, pericolo
cedimento diga! Allarme, allarme sovraccarico di acqua!
<< Comunque, non
volevo dirti questo. Volevo dirti che... insomma... mi dispiace di
essere sparito, ecco. >>
Io non riuscivo a
spiccicare parole, o avrei infranto un equilibrio fin troppo
precario. Eeeevacure! Eeeeeevacuare!
Negli occhi di Iori c'era
qualcosa che non avevo mai visto. Era... supplica?
<< Possiamo ancora
essere amici? >> mi chiese implorante.
Oddio.
Gli esplosi in faccia.
Come avevo promesso al nostro primissimo incontro. E non fu piacevole
per lui... lo inzuppai da capo a piedi, con tutte le lacrime che
aveva trattenuto in quei sedici mesi.
Inutile ogni sforzo.
Piagnona ero stata, piagnona ero, e piagnona sarei rimasta per tutta
la vita.
È Iori a ricordarmi
questo avvenimento, qualche volta, e ogni volta mi ringrazia,
perché,
in quella situazione assurda, con io che riuscivo a bagnare
contemporaneamente me stessa, lui e il divano, con le nostre mamme
che cercavano di restare serie ed evitavano accuratamente di
incrociare gli sguardi e mia sorella che ci guardava stralunata, lui
fece una cosa che gli era molto mancata in quei mesi.
Scoppiò a
ridere.
Rise, rise, rise fino
alle lacrime, restando senza fiato. Dopo di lui, anche sua mamma, la
mia, mia sorella si unirono al delirio, e per finire anch'io
cominciai ad alternare risa e singhiozzi, senza smettere di
piangere, ma anzi, raddoppiando le lacrime. Mezz'ora dopo, quando i
miei fratelli e mio padre rincasarono, ci trovarono esattemente in
quelle posizioni.
Ci scattarono anche
una foto, che io conservo come un tesoro, e tiro fuori quando voglio
farmi due risate.
Ne ha una anche Iori,
ovviamente, e guardandola sostiene che io, col mio comportamento,
l'avevo fatto guarire.
Ne sono felice, gli
rispondo, ma in fondo non avevo fatto niente di diverso dal mio
solito.
È vero, concorda, hai
solo pianto. Mentre io no. Ma finalmente eravamo di nuovo il vero me
e la vera te.
Grazie per
identificarmi così.
Sai cosa voglio dire.
È vero. Stavolta ho
capito. Io piango, e tu mi consoli.
Come al solito.
Già. Come sempre!