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Autore: boll11    03/08/2011    1 recensioni
Raccolta di sette brevi one shot.
1) La notte prima del trasferimento a Central, sotto la luce impietosa del neon, in un locale anonimo dell'Est...
2) Quando qualcuno nasce sfortunato, è inutile cercare di cambiare le cose. Bisogna solo saper stringere tra i denti una sigaretta...
3) Quella sera avevo cominciato a costruire questo muro tra me e l’amore che provo per lui.
4) Fissando lo sguardo a un brutto soffitto si possono prendere decisioni che segnano una svolta. O almeno tentano.
5) Ho sperato che le parole che ha detto una volta che m’ha issato in macchina sarebbero state le ultime.“Puoi dormire mentre guido.”
6) L’aspro del fumo mi invade le narici e mi penetra nella pelle come un cancro.
7) Forse è questo che mi impedisce di dormire, il mio nome sussurrato come una maledizione.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Havoc, Roy Mustang
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: A soul with no footprint
Autore:
Fandom: Fullmetal Alchemist
Coppia: Roy Mustang/Jean Havoc
Rating: PG13
Prompt: 5. the smoke sank into the skin
Conteggio parole: 2.228 (contatore word)
Avvertenze: Slash - linguaggio un po' colorito, ma giusto un po'
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà di Hiromu Arakawa che ne detiene ogni diritto. Non ho la pretesa di guadagnarci se non in fantasia.
Tabella: Tabella
Note: Scrivo dopo quello che mi pare un secolo. Chi mi conosce sa che le cose lasciate a metà mi tormentano come incubi. Finalmente mi sono riappropriata della voglia di scrivere. Li ho ritrovati intatti quaesti due. Più tormentati e infelici che mai. Per questo li amerò sempre.


A soul with no footprint

(Prompt 5. the smoke sank into the skin)


 
C’è un silenzio insopportabile.
Sotto di me il petto di Jean si alza e si abbassa lento, in modo impercettibile.
Anche il battito del suo cuore è come in sordina, quieto, lontano.
Jean non è qui.
Lo stringo a me e affondo il viso nell’incavo sudato del suo collo.
Non si muove.
Neanche quando consumavo il mio desiderio, bestialmente, in maniera frenetica, furioso per la sua evidente insensibilità ha mosso un muscolo.
E sì che avrebbe potuto farmi fuori in almeno un paio di occasioni.
Non ho pensato alla mia sicurezza in quel momento, stavo solo cercando di trattenerlo, di conservare almeno un brandello di quello che eravamo.
Ma Jean è come fumo oramai. Non si può trattenerlo. E’ scivolato via da me in lente volute. E’ già a casa. Lontano.
Anche il suo odore è come di fumo, pungente e aspro.
All’improvviso mi sento stanco, stanchissimo.
Esausto.
Bisbiglio il suo nome contro la pelle sperando che spezzi il silenzio.
Jean non mi guarda. Fissa qualcosa lì fuori tra il verde della boscaglia.
Non risponde.
Ancora l’unico rumore è un tintinnare sommesso che fa da contrappunto al mio respiro soffocato.
Qualcosa gocciola lì fuori. Forse la coppa dell’olio.
Non è stato proprio intelligente gettare la macchina in mezzo a questa boscaglia. La macchina ha sobbalzato impazzita per un lungo tratto prima che io mi decidessi ad arrestarla in una brusca frenata proprio in uno spiazzo tra gli alberi fitti; prima che mi avventassi su Jean come un animale rabbioso.
Strizzo gli occhi cercando di ricacciare indietro questa assurda voglia di mettermi ad urlare.
“E’ come fumo”, riesco solo a ripetermi stringendomi a lui, serrandogli le dita sugli avambracci, furente. E come fumo mi punge la gola, mi impregna le narici e mi fa lacrimare.
Urlo.
Non riesco a trattenermi.
Alzo il viso contro il tetto grigio della macchina e urlo impotente.
Devo lasciarlo andare, lo so.
Devo arrendermi.
Eppure urlo perché qui non c’è nessuno oltre a lui e posso farlo, finalmente.
So che devo arrendermi ma per una volta voglio potermi disperare.
Mi sembra di non potermi fermare eppure il mio sfogo dura solo pochi secondi, il tempo di scoppiare in una tosse cavernosa, ridicola.
“Hai finito?”, mi chiede quando i miei rantoli si trasformano in un raspare sommesso.
Chino il viso a guardarlo ma lui non lo fa. Continua a fissare l’esterno, sereno e troppo distante.
Accenno un sì con il capo anche se non può vedermi.
Non mi fido a parlare.
Sento le guancie umide di lacrime e non vorrei che le sentisse anche nella voce.
Non posso credere che m’abbia ridotto a tanto. Non lui.
“Se hai finito ti dispiacerebbe prendermi una sigaretta nel taschino della giacca?” continua lui quieto. “Non avrei voluto disturbare questa sceneggiata ma il tuo corpo mi impedisce di farlo da solo.”
E si volta a guardarmi.
E sorride.
Ed io mi sento un miserabile inutile e falso.
Mi sollevo quel tanto che basta a liberargli il petto facendo forza sugli avambracci e poi mi getto di lato voltandogli le spalle.
Lo sento finalmente muoversi e frugare e quando sento il clic dello zippo afferro con forza il volante.
“Ti porto a casa,” sussurro.
“Come?” mi chiede e c’è una risata repressa in fondo alla gola. “Lo senti questo gocciare? E’ la pompa dell’olio. L’hai rotta, fottuto bastardo!”
Non trovo niente da dire.
Il dolore che mi scava il petto deve sembrargli davvero poco cosa e allora perché mi sento così male?
“Aiutami a rivestirmi”, mi dice ed è il primo moto di stizza che avverto.
Mi tocca guardarlo ora. Lui aspetta placido che io mi decida a rimettergli boxer e pantaloni ammassati in malo modo sul fondo dell’abitacolo, Mi squadra attraverso il fumo, gli occhi socchiusi e un accenno di ghigno all’angolo della bocca.
“Non c’è niente di meglio di una sigaretta dopo il sesso, lo sai?” mi dice mentre frugo alla ricerca delle sue mutande. “E’ la regola di ogni buon fumatore. Sigaretta sicura dopo sesso e caffè. Non potevo proprio aspettare.”
Il tono colloquiale con cui mi parla mi gela il sangue. Mi guardo bene dal rispondere anche perché rinfilare una paio di boxer a uno che non collabora in uno spazio tanto stretto non è proprio facile.
“Tieni.” E mi avvicina una sigaretta alle labbra dopo che son riuscito a chiudere l’ultimo bottone.
Alzo il viso a guardarlo ancora e lui non sorride più.
“Lo sai che non fumo.” dico.
“C’è sempre una prima volta e questa mi pare la più adatta.” risponde secco.
Scuoto la testa rifiutando.
“Io te lo sto chiedendo ed è molto di più di quello che tu hai fatto.”
Lo guardo e non vedo neanche un accenno di sorriso sulle labbra, neanche un ghigno minuscolo.
“Devi farmi compagnia,” fa. Non è una proposta. Non ho scelta.
Mi spinge il filtro tra i denti ed io lo stringo senza smettere di guardarlo.
Quando fa scattare lo zippo aspiro con rabbia e subito mi coglie la tosse. Mi stacco la sigaretta dalle labbra e lascio che questa tosse si sopisca pian piano poi mi risiedo al mio posto.
 “Questo è un vizio che si impara in fretta” riprende Jean. “Non è soddisfacente? Niente di meglio dopo una scopata. Lo dico sempre io.”
Rimane zitto per qualche attimo e sento il suo sguardo fisso su di me, sulla mia mano che indugia troppo a lungo. Tiro solo un po’ e lascio uscire subito il fumo. E’ spesso e bianco.
“Non stai aspirando” mi dice lui subito. Mi afferra il viso con la mano e mi forza a guardarlo. “Se non aspiri non c’è soddisfazione. Quando fai una cosa devi farla per bene, non credi?”
Inala una lunga boccata dalla sua sigaretta e spinge le sue labbra contro le mie  forzandomi ad aprirle. Il fumo che mi getta in gola è orrendo ma ha anche il suo sapore.
Rimane attaccato a me abbastanza a lungo da accogliere nella sua bocca fumo e colpi secchi di tosse prima di staccarsi con una spinta indolente.
Mentre tossisco non riesco a trattenere un verso di disgusto neanche con le mani premute a coppa sulle labbra.
“Ti fa schifo?” mi chiede e lo sento addirittura ridacchiare. “Ti assicuro che è un vizio meno merdoso del tuo, Roy.”
Lo guardo ed è mortalmente serio.
“Vuoi sapere che cazzo di vizio hai, Colonnello?” ma non aspetta risposta. “Hai il maledetto vizio di fare quello che cazzo ti pare con chiunque, se ti va. Chiunque riesca a farti passare in allegria almeno cinque fottuti minuti, vero? Beh, io non sono più il tuo pupazzo. Non lo sono da un casino di tempo, ricordi? Non ti servo più a niente!” Svia lo sguardo da me visibilmente agitato. Il tempo di un tiro di sigaretta e conclude con un “Tu non mi servi più a un cazzo” che gli scivola dalle labbra sicuro e pulito.
 
Perdonami.
Vorrei dirglielo eppure non mi riesce.
Dovrei spiegargli troppe cose e a troppe non c’è neanche una risposta.
E’ che lo amo e non posso averlo. Tutto si riduce a questo.
Guardo la sigaretta che sfrigola tra le mie dita e provo una rabbia cieca per quello che sento, per come lo sento e per questo sapore orrendo che sembra trasformarmi la bocca in cenere.
In un moto di stizza la scaravento fuori dal finestrino.
La vedo planare sopra un mucchio di sterpaglia e fisso le scintille schizzare attorno sfrigolando.
Lo schiaffo mi colpisce una guancia in modo tanto violento da farmi cozzare la testa contro la portiera.
“Valla a raccogliere pezzo di stronzo.”
Mi volto con la mano ancora a coprirmi il viso e lui è furioso. L’ira gli ha acceso le guance e gli occhi socchiusi. “Dove hai vissuto finora che non sai le più elementari regole del buon senso?”
Si agita sul sedile come se volesse precipitarsi fuori e intanto spegne la sua cicca in un posacenere che neanche sapevo esistesse.
Apro la portiera ed esco e solo allora mi rendo conto di non essermi ricomposto.
Mi affretto a farlo e intanto mi chino a raccogliere la cicca in terra.
Quando rientro in macchina mi guarda in cagnesco per qualche secondo.
“Prova a metterla in moto. Sono stanco e voglio andare a casa.”
Giro la chiave e come temevamo entrambi il motore spasima gorgogliando ma non ingrana.
Lo guardo e lui ha il viso chino e si tormenta le labbra coi denti.
Sfila dal pacchetto ammaccato un’altra sigaretta che stringe tra le labbra con decisione prima di dirmi:
“Cerca qualcuno, Roy. Fammi andare a casa.”
“Jean…”
“Esci di qui prima che t’ammazzi.” Stritola il pacchetto nel pugno e mi volta le spalle fissando il finestrino. “Vai.”
 
Quando risalgo la strada, cinque minuti dopo , sto piangendo come un ragazzino, guardando le distese di campi a destra e sinistra in cerca di una qualunque abitazione. La prima la incontro dopo una mezzora distante dalla strada un paio di miglia.  
Mentre percorro il sentiero sterrato alzando nuvolette di polvere rossa mi asciugo rabbiosamente gli occhi e tento di ravvivarmi i capelli.
La fattoria sembra deserta se non fosse per il filo di fumo che vedo disperdersi dal tozzo comignolo di pietra grigia.
Mi do un’ultima rassettata e faccio un profondo respiro prima di attraversare il cancello che delimita l’aia dove razzolano alcune galline starnazzanti.
Un vecchio cane alza appena la testa al mio arrivo poi riappoggia il capo sulle zampe e torna a sonnecchiare.
Sospiro e mi sforzo di abbozzare un sorriso accattivante mentre busso con decisione alla porta.
 
E’ quasi il crepuscolo quando torno da Jean.
Ad un occhio distratto parrebbe dormire col volto riverso sul petto. So per certo che non è così. Nasconde le mani tra le cosce inerti e so che impugna una pistola.
Lo chiamo prima di avvicinarmi e lui alza il capo a guardarmi. Solleva l’arma e me la punta contro.
Non ho paura. Non me ne frega nulla in realtà.
Continuo ad avvicinarmi senza esitazione e lui segue la traiettoria dei miei passi con la canna puntata e lo sguardo sottile. Mira alla testa. Un bel buco in mezzo alla fronte e tutto sarebbe finito.
Spalanco la portiera e m’accascio sfinito senza guardarlo.
“Avresti dovuto riconsegnarla quella,” dico solo.
Non risponde. Con la coda dell’occhio vedo che abbassa piano la mano senza smettere di fissarmi.
“Non hanno telefoni in questo dannatissimo posto”. Sbuffo dopo un po’. Lui continua a tacere, solo reclina il capo all’indietro contro la spalliera. “Però dovrebbe passare domani mattina dal contadino un tizio che ritira il raccolto per portarlo al mercato. M’ha promesso che si sarebbe fermato a prenderci.”
“Non ho intenzione di passare la notte con te in questa macchina.” Mi dice e s’accende una sigaretta.
“Non ho detto che la passerai qui,” sbotto. Poi sospiro. Non ha senso. Non posso prendermela. Non ne ha alcun diritto.
“C’è una rimessa proprio dietro questa macchia di alberi. Dovrebbe esserci anche una branda. Ti porto lì così puoi riposarti.”
Si strofina con forza i pugni sugli occhi come un bambino in preda ai capricci prima di scuotere il capo in segno di diniego.
“No,” ripete più volte sempre più sfinito.
“Non resterò con te,” lo rassicuro, ma so già che è una rassicurazione inutile. Non si fiderà ancora di me. E passerà una notte da schifo.
“Che devo fare, Jean?” bisbiglio piano come a me stesso fissando lo sguardo contro il filo d’oro dell’orizzonte, poi torno a ripeterlo un po’ più forte e lo guardo.
Gli tremano le mani che reggono l’ennesima sigaretta. Anche le labbra che sbuffano fuori fumo perlaceo che subito si dissipa nell’aria lasciandosi dietro quell’odore pungente.
“Portami lì, allora” sussurra spossato. Nella penombra dell’abitacolo le sue occhiaie spiccano marcate di un insano colore violaceo, piccole gocce di sudore gli imperlano la fronte e l’incavo tra il naso e le labbra pallide. Mi afferra il braccio con la mano, la sigaretta pericolosamente in bilico tra indice e medio.  E’ terribile vederlo così stanco di me. “Portami lì,” ripete, “ma ti prego, lasciami andare.” Mi fissa e stringe le dita in una morsa convulsa. “Non sono che un capriccio…,” bisbiglia.
“Te lo prometto”, gli dico e lotto ancora per ricacciare indietro queste stupide lacrime. Sospira e molla la presa. Si appoggia di nuovo contro la spalliera e chiude gli occhi. Vedo il suo respiro farsi più regolare, il fumo disperdersi in piccoli cerchi tranquilli.
Lascio che finisca la sua sigaretta, e la calma con cui se la porta alle labbra ora  che ho promesso mi colpisce come una stilettata.
L’aspro del fumo mi invade le narici e mi penetra nella pelle come un cancro.
Non mi ama più.
Come potevo davvero credere che avrei potuto porre rimedio a qualsiasi cosa? Sento salire dentro di me un ringhio che assomiglia a una risata.
Stupido, fottuto idiota.
Stringo le labbra tra i denti e mordo per reprimere quella che sembra l’inizio di una risata isterica e l’insopprimibile desiderio di mettermi in ginocchio e pregarlo. Pregarlo di aspettare ancora un po’, solo un po’, ma ho promesso e questa volta ho capito. Il messaggio è penetrato bene come questo cazzo di fumo appiccicoso. Ma una cosa vorrei poterla dire.
Vorrei dirgli che non è mai stato un capriccio. Neanche per un istante ho mai pensato che stare con lui fosse un passatempo divertente, ma solo una maledetta necessità.
 
 
 
 
 
 

  
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