Capitolo
25
Dopo la
tempesta
Ricordo la prima
volta che ho visto Andrea nudo – seminudo, di preciso. Fu la manciata di
interminabili secondi in cui calcò la scena vestito di soli boxer aderenti. Una
specie di nudo metaforico in verità, nulla di più, immerso in un alone di luce
carica che ne rendeva indistinti i contorni. Ma tanto
bastò.
Starmene
nell’ombra, quella volta, fu il vero colpo di fortuna. Specie se hai la fottuta
abitudine di arrossire nei momenti sbagliati.
Era stato il
mormorio soffuso di Blanche, accoccolata al mio fianco, a riscuotermi da quella
visione che mi bruciava in fondo alle pupille.
- C’est ton ami?
André Nicoletti?
- Mon
ami…?!
Amici, io e
Andrea? Non lo si poteva
manco sentire.
Il gesto casuale
che le rivolsi fu eloquente quanto un sonoro ‘sticazzi, perché sfido chiunque, al mio
posto, a fornire volentieri certe coordinate di vitale importanza, quando la
preoccupazione numero uno è impedire allo sguardo di vagare
oltre.
Adesso, fissagli
il pacco e sei fottuto.
Meglio glissare e
passare oltre, a quel paio di gambe diritte e ben cesellate, le movenze in
perfetta sincronia espressiva con il resto del corpo. Perfetto come sempre, Andrea. Con mio
sommo rammarico.
Parlare della
prima volta in cui lo (intra)vidi nudo, o quasi, è un po’ come parlare del sesso
degli angeli. A rendere la lista superflua, la sua maledetta abitudine di
andarsene in giro in accappatoio e mutande – almeno, entro il perimetro della
stanza che condividevamo, e sempre, puntuale, dopo la doccia rilassante di fine
giornata.
Di ancora più
osceno c’era il suo trascorrere la parte restante del suo tempo a starnazzare
con Isa e il suo clan di arpie, fermarsi ogni tanto per scagliarmi qualche
frecciata velenosa, e proseguire. Poi magari, girato l’angolo, ricominciare
tutto da capo e scoccarmi quegli sguardi indecifrabili per farsi desiderare
ancora, e di nuovo attirarmi nella tela.
O forse era la
mia semplice, snervante ossessione.
La verità,
Gabriele, è che avresti voluto averla, una possibilità con lui. Avresti voluto
non arrivare mai al punto di rottura in cui tutto è perduto; al punto di
desiderarlo di nascosto e ogni volta uccidere l’impulso sotto un’ondata di gelo,
sotto la spinta di quegli occhi taglienti. Al punto di detestarlo e progettare
con calma la sua rovina. In fondo, sarebbe bastato chiudere gli occhi e
riscrivere tutto da capo.
Il punto è che
non avresti voluto essere per lui ciò che gli altri dicevano – giudizi
tutt’altro che lusinghieri. Né vederlo varcare come un ladro l’ufficio di Neri
per non uscirne più.
La prima volta
che l’hai visto eccitato o qualcosa di simile, stava appoggiato con tutto il suo
peso contro la scrivania del coglione, le mani aperte a vagare sulla sua
schiena, in quella tristemente
celebre scopata vestiti che li rese tristemente celebri – almeno, agli occhi
di quella cimice piazzata in cima allo spigolo della
libreria.
Una spia
nell’armadio per svelarne gli scheletri – e sì che era venuto fuori di tutto,
discorsi a tu per tu, accordi presi sottobanco, baci strappati a
tradimento.
Tanto che ti
rigiri ancora quelle dannate registrazioni tra le mani come se scottassero,
perché renderle pubbliche sarebbe la madre di tutti gli
sputtanamenti.
Eccoli là: Andrea
che piagnucola per una cazzata qualunque a proposito di immedesimazione e pippe,
e il coglione che raccoglie quel paio di lacrime.
Incastrare Neri
non aveva richiesto chissà quale studio, alla fine, perché è raro che quelli
come lui, sicuri di essere nel giusto, prendano le dovute
contromisure.
Scusi,
professore, ho perso la scorsa lezione. Non è che ha consegnato i copioni quando
io non c’ero?
Professore, il
cazzo.
Il cuore mi
martellava nel petto, l’ultima volta che varcai quella porta, e non solo perché
i miei istinti più bassi mi suggerivano di tirargli il collo. L’ultima volta
prima del disastro.
Lui non aveva
staccato gli occhi nemmeno per un attimo dal suo notebook, dai suoi affari di
importanza cruciale. Mi aveva liquidato con un cenno secco della mano, come
avrebbe scacciato un moscerino.
Ultimo piano
della libreria, Derossi.
Chi se ne
fotte…
Solo che così la
fa troppo facile, professore.
Davvero: lei vuole negarmi la soddisfazione di una vittoria sudata. Troppo
facile, piazzare una maledetta spia dentro lo studio. E poi incrociare le
braccia e attendere paziente.
La seconda volta
che l’ho visto eccitato, Andrea, fu la volta della tipa X e dei suoi capelli
biondi stesi su di lui a celargli l’inguine nudo. Il movimento ovvio della
testa, l’atmosfera tutt’intorno impregnata solo dal leggero schioccare della
bocca di lei, non lasciavano nulla all’immaginazione. E lui disteso e beato sul
divano, un continuo frusciare di stoffe e di labbra bagnate. Si
divertiva.
Ora, con qualche
cataclisma di distanza, non credevo fosse… così.
Cosa ti
aspettavi, Gabriele, i cori angelici? Un’esplosione dall’eco lunga quanto la
somma dei tuoi attimi da qui in avanti?
Se te l’avessero
chiesto allora, se avessi potuto cambiare le carte schioccando le dita, una
miscela inebriante ti avrebbe investito fin dentro le ossa. Uno sprofondare in
acque tiepide, ogni secondo scandito dal suo e dal tuo respiro, dall’infuriare
del sangue sotto la sua pelle.
Non credevi
sarebbe stato così… Completo, e di tutto. Carico di tutta la delusione e il
veleno e la non-aspettativa di mesi.
Se fosse accaduto
soltanto… un mese fa, sarebbe stato diverso, inaspettato. Un balsamo sulle
ferite e una vena guizzante di euforia.
E ora invece non
è niente di tutto ciò. Nessuna esplosione maturata nel tempo, nessuno
scioglimento finale. È la differenza che corre tra il dolore sordo che attendevi
a denti stretti, e tante fitte intermittenti là dove i corpi si sfiorano – e
scorrono l’uno contro l’altro.
Non toccarmi,
Andrea – non provarci neppure. Non parlare. Non dire più nulla, perché è tra un
rancore e l’altro che abbiamo trovato qualcosa che ci
accomuna.
Ribaltarti sotto
è la soluzione migliore per disinnescarti. E no, non muoio dalla voglia di
scoprire cosa sei capace di fare, sciolto da tutte le catene. Preferisco
continuare a immaginarlo.
La soluzione
migliore è scoprirti quanto basta e lasciarti lì a gemere. Ignorare le tue
pretese, quando catturi il lenzuolo sottostante nella stretta spasmodica delle
dita. Sono le mie labbra a scorrere imperterrite sul tuo corpo proteso, a
seguire la muscolatura contratta del ventre; scivolano su di te senza peso e
senza scopo, senza scioglierti da quella morsa di
languore.
Fa male,
Nicoletti, vero?
Quasi quanto
lasciarmi rapire dall’ossatura delle tue anche. E indugiarci senza regalarti
nulla. Non mi hai soggiogato abbastanza da ingannarmi, da trascinarmi nel tuo
baratro di irrazionalità.
Per un attimo
credo di essermi perso davvero, perché ogni tuo movimento è un fruscio di spire
che mi attira verso il centro… Il disegno sottile della muscolatura, il morbido
roteare dei fianchi, privo di scatti, fluido come i movimenti di un gatto –
persino ora, che sei eccitato da fare pietà.
Dillo adesso,
raccontalo ai tuoi amici, Andrea. Che mi ritieni nient’altro che un ronzio
fastidioso. Di certo non all’altezza di stare al tuo livello o di meritarmi le
tue provocazioni. Che il gioco non vale la candela.
È una risata,
quella che ti esplode tra le labbra?
I pensieri ad
alta voce non sono una grande invenzione, come le parole pronunciate da ubriachi
o strascicate nel sonno, perché possono contenere molecole di verità. Se escludi
che, tecnicamente, saremmo entrambi fatti come ciminiere – e quindi il nonsense
può starci. Il punto è stabilire quanto; quanto e chi tra noi due tenga le
redini.
- Perché ridi? –
suona un po’ stupido, ma devo cavargli fuori qualcosa.
Ora o mai
più.
- Che cosa stavi
dicendo, scusa? – sgrana gli occhi, Andrea – Che avrei parlato con loro… loro
chi? Di te? E quando mai? Di quanto sei bravo… a letto? – altra risata
argentina, perforante – Senza esperienza diretta. Siamo mai stati insieme, noi?
O su quanto saresti bravo a farmi un p…
-
Zitto!
Una parola in
più, e rovineresti tutto – come al solito. È sempre stato il tuo asso nella
manica.
E poi resta solo
la sua voce che si scioglie in un sospiro, i suoi vestiti e le sue resistenze
che scivolano a terra. La sua erezione che mi pulsa addosso, con
urgenza.
È quasi crudele,
ignorare il suo urlo silenzioso e ogni fibra del suo corpo che vibra per essere
accarezzata, per trovare il nodo focale di tutta la tensione accumulata. La cute
coperta di brividi e lucida di sudore, e quel suo modo ipnotico di oscillare, di
chiedermi, per favore, metti fine a questo stillicidio; portalo alle estreme
conseguenze.
Strusciare il
viso contro le sue cosce spalancate non è una risposta soddisfacente; a
rivelarmelo, il cupo miagolio che gli strappo via in capo a un istante, come a
un gatto allontanato dalla sua ciotola. Potrei indugiare ancora, il mio respiro
contro la sua pelle rovente, le mie labbra che si schiudono su di lui con
parsimonia; potrei ignorare la sua eccitazione e dedicarmi all’estatica
contemplazione dell’attaccatura della coscia o dell’anca in rilievo o della
linea scura che precipita verso il basso, fino ai riccioli del pube. Lasciarlo
agonizzante. Assaporare ancora – con sadico piacere – il raschiare dei suoi
denti contro il labbro, e gli ansiti che crescono.
È strano. Strano
tutto, in lui. Il suo modo di muovere i fianchi, di godere – darebbe l’idea che
qualcuno voglia fargli del male, se non fosse per la piega delle labbra e la
punta delle orecchie che va a fuoco. Azzarderei a dire “femminile”, il suo modo
di dirti che è sull’orlo dell’orgasmo. Se la prova schiacciante della sua
mascolinità non stesse fisicamente davanti ai miei occhi.
Non farò nulla:
non tirerò per le lunghe, per il sapore perverso di tenerlo metaforicamente in
pugno per la prima volta in vita mia – a che servirebbe?
Penso che una
parte di me lo vorrebbe davvero: compiere il salto nel buio, perdermi in lui
senza proiettarmi sul domani, sulle conseguenze, sul ghiaccio della razionalità
e del dopo. Sfuggire alle normali relazioni di causa-effetto e mettermi nelle
sue mani.
Vorrei
stringerlo, disperatamente, e dirgli che andrà tutto bene, che sono con lui… Ma
non posso: non spetta a me – non ancora. Non sa cosa sono. Lo sa Elena, ma sarà
una tomba.
Credo che
scriverò adesso l’epilogo del nostro tragico incontro – riscrivere su una pagina
già sporca?
Il fatto è che ho
conosciuto il sapore cristallino della tua bocca, Andrea; della menzogna, dei
baci elargiti senza sconto. Resta da abbattere l’ultima barriera, svelare
l’ultima piega di cui sono all’oscuro, e poi resteranno solo Gabriele e
Andrea.
* *
*
- Andre, mi fai
preoccupare.
Ha la pelle
caldissima, gli occhi così lustri che qualche linea di febbre potrebbe averla
per davvero. Quasi brucia sotto il tuo tocco, mentre le labbra si distendono in
un sorriso stanco. Vagamente ebete.
- Senti, Gabriele
me l’ha detto, che eri un po’ giù di tono – pausa strategica, in attesa di una
risposta che non sia enigmatica o strutturata come un mosaico da ricomporre –
Solo che… non credevo tanto.
La fatica di
aprire un occhio è un istante eterno. Ogni singola movenza sembra costargli
un’immane fatica. È lì, disteso sul suo letto come se qualcuno ce l’avesse
buttato per caso, scomposto, e con quello sguardo perso.
Per poco non ti
prende un colpo, quando quel vago inarcamento di sopracciglio non culmina in una
risata di petto.
- Dio, Loria,
questa è bella! Secondo lui sarei giù di tono? – cincischia – Su di tono, se proprio… – e ammicca,
sibillino.
Accennando con lo
sguardo, non troppo velatamente, verso la cintura.
-
Idiota…!
- Il tuo amico Gabriele ha una gran faccia
tosta… – prosegue con voce querula, gli occhi che roteano verso il cielo – O non
ci vede bene. Dice che sono giù di morale… quando è stato lui a riportarmi
su.
Scuoti il capo.
Il fatto che l’ultima volta che l’hai visto, avesse come unico chiodo fisso la
sua faida personale con Federico Riccardi, e subito dopo sia crollato sotto il
peso di una vittoria risicata e qualche responsabilità di troppo, fa pensare.
Come ora, con quell’ennesima, inaspettata metamorfosi, la faccia deboluccia e
beata con annessa palpebra calante di chi è appena uscito da una sauna o da una
scopata stellare.
Deglutisci a
fatica: Gabriele non l’avrebbe gridato ai quattro venti, di aver appena avuto un
incontro ravvicinato con la propria negazione vivente. E poi Andrea ha gli occhi
decisamente strani.
- Ma vi siete
fatti? – gli domandi, a bruciapelo.
Lui solleva il
capo sul cuscino con indolenza. Uno sbadiglio soffocato nel luccicore umido
delle ciglia. E socchiude le labbra in quel sorriso che scioglie le
pietre.
- Dipende da cosa
intendi con la parola “fatti”, carissima – e strizza le palpebre,
sarcastico.
No, ferma, un
secondo.
Mi sono persa
qualcosa. Troppo veloce, neppure il tempo per metabolizzare
tutto.
Gabriele è
Galileus. Gabriele voleva distruggere Andrea – ma si accontenterà solo dello scalpo di Neri. Andrea si è
appena fottuto nei suoi deliri di vendetta-onnipotenza e ha avuto un crollo
psicologico non da poco – non l’ultimo, ti temi. Gabriele e Andrea sono finiti a
letto insieme, in qualche passaggio che al momento sfugge. E Andrea è lì a dieci
centimetri da te che sorride con aria beota e sembra fremere dalla voglia di
sciorinarti i dettagli. È come se abbia stampato in faccia a caratteri cubitali
che è reduce dall’orgasmo più devastante dei suoi diciannove
anni.
Il resoconto di
Andrea e Gabriele che si fanno i cavoli loro, no – pietà! È l’ultima cosa a cui
potresti reggere. Anche se l’idea di loro due insieme – del trionfo di Gabriele,
che tutti davano per bruciato – per un attimo ti fa gongolare come se dall’altra
parte, insieme ad Andrea, ci fossi stata tu. È un’idea che, per qualche motivo
strampalato, ti ha sempre fatto gola. Forse perché, in pratica, sarebbe il
prodotto ultimo di ciò che hai sospinto e tessuto con certosina
ostinazione.
- Comunque,
Loria, la risposta alla domanda è: entrambi – e fugge con lo sguardo, a
sottintendere cose meravigliose.
- Vi siete fumati
una canna? – maledizione…
Andrea annuisce
come di fronte a qualcosa di poco importante.
- Solo qualche
tiro… E comunque è tutta colpa di Gabriele. Ero a un passo da una crisi di
nervi, poi è arrivato lui, è spuntato fuori dal nulla – e la voce
sfuma.
Per un attimo un
brivido di gelo ti incunea addosso il dubbio che Gabriele sia meno innocente di
ciò che vuole sembrare. Che i suoi disegni machiavellici non finiscano dove dice
lui; che non fosse sincero, quando ha giurato che l’unica persona che brama di
spedire nella merda, si chiama Fabio Neri – a che pro, continua a ripetersi un
certo campanello d’allarme nella tua testa. Che forse il pesce grosso – o
l’ingranaggio principale di tutto il meccanismo – sia proprio Andrea, e Gabriele
abbia perso il senso della realtà, ciò che compete a Gabriele e ciò che compete
a Galileus. E questo è decisamente troppo.
- E insomma… –
pausa imbarazzata – L’avete fatto, no?
La voce plana
insolitamente dolce. Perché non vorresti essere nei suoi panni, se ciò che ha in
serbo Gabriele dovesse rivelarsi peggiore dei peggiori pronostici. Compreso il
lento lavorio su Andrea.
- Macché! –
risposta secca, seguita da un automatico arricciamento di labbra – Non si è
fatto manco sfiorare… Povero lui!
Ti prego, ti
supplico, non i dettagli! Morirei di imbarazzo. E sì, lo so che vorresti
ragguagliarmi sui tuoi ultimi numeri da circo, perché ti fidi di me e vorresti
parlare di tutto… Ma la descrizione della vostra scopata – o qualunque altra
cosa sia stata – è troppo anche per me.
- Diciamo che… –
almeno il pudore di arrossire – Non l’abbiamo fatto ma ci siamo andati molto
vicini. Ti basti sapere che è un manipolatore sadico, e che le sue cazzo di
dannatissime, fottutissime, meravigliose labbra, me le sognerò
stanotte… su di me, dappertutto – sussulta, mentre le sue dita si arrestano in
direzione del ventre, spinte da qualche forza superiore.
Okay, Andre, ho
capito: ho una fervida immaginazione, non serve il disegnino. Ora, ti scongiuro,
torna alla realtà ed evita di venirtene qui davanti a me.
Grazie.
E cosa si dice di
solito a questo punto? Auguri? Congratulazioni?
Una neutrale
arruffata di capelli. Può andare.
Andrea chiude gli
occhi; sospira, e c’è un nonsoché di felino in quello strusciamento
impercettibile – o forse è solo il suo respiro.
- Ti amo, Elena –
sussurra, a bruciapelo, e la conferma che sia completamente fatto, stavolta è
precisa e diretta; non si limita a un semplice alone arrossato dentro le orbite
o alla voce strascicata – Voglio che ci sia.
Sospiri. Quando
l’hai intravisto giù al bar, Gabriele aveva due occhi che quasi schizzavano
fuori. Ha chiesto solo un bicchiere d’acqua e sembrava un po’ svanito. Qualche
tavolo più avanti, Isa gli ha lanciato un’occhiata nera e ha mormorato qualcosa
all’amica.
Se Gabriele era
così elettrico, è verosimile che Andrea sia allo stato di plasma, dato che non è
abituato – a quanto ne sai – a sfondarsi in quel modo.
- È… – azzarda,
di nuovo – è tutto ciò che volevo. Pensavo fosse… diverso. Invece era tutto qui,
a portata di mano. Mi viene da piangere…
- Cosa succede,
Andre?
- È come… non lo
so – china lo sguardo, e la sua voce è leggermente più ferma – Mi ha lasciato un
senso di vuoto. Sembrava che volesse tenermi a bada.
E posso capirlo,
dopo i tuoi ultimi exploit.
Strategico
sollevamento degli occhi verso il cielo.
- È stato
meraviglioso… assurdo! – ridacchia: forse cerca di mascherare quella punta
naturale d’imbarazzo – Ma pian piano se ne va.
- Cosa se ne va,
Andrea? – stavolta le dita indugiano lente tra i suoi
capelli.
- Tutto. La
gioia… – distoglie il viso, raccogliendo i pensieri – La gioia di quel momento.
Come un bel sogno. Tu ti svegli, pensi che tutto sommato ti abbia lasciato
addosso qualcosa di bello. Poi ti svegli del tutto e vedi la tua realtà che fa
pena. Stop, tutto svanito in una bolla di sapone. Eppure sei stato bene. Lui se
ne è andato. Era qui, credevi di morire felice, di dimenticare tutto lo schifo
che hai lasciato là fuori. Adesso il brivido sta già svanendo, e sarò di nuovo
lo sfigato voltabandiera a cui pure il più coglione dell’istituto può dire che
era meglio che sua mamma l’avesse buttato nel cassonetto da
piccolo.
- Okay, basta!
Così non ci capisco più niente…
- Ecco. Nemmeno
io – puntualizza Andrea – Era solo per dire che tra un po’ sarà tutto di nuovo
schifosamente normale, e allora cosa rimane?
Perfetto. È
ancora mezzo anestetizzato dal torpore erotico-sentimentale al retrogusto di
spinello, e già teme il momento in cui la negatività tornerà a galla. Compresa
l’impossibilità di un seguito tra lui e Gabriele. Tabula rasa, cancella quel che
è successo dalle cinque alle sei e mezza di stasera, ho un alibi di ferro. Il
tutto starà a racimolare qualche altro granello di
lucidità.
- D’accordo,
facciamo un po’ d’ordine: chi è il genio che ha tirato in ballo tua madre, e a
che proposito? – incalzi.
Andrea si solleva
sui gomiti e si sforza di cavarsi fuori un sorriso
sarcastico.
- Uno solo.
Indovina…?
- Lo stronzo,
l’avevo capito – però gliel’hai chiesto,
giusto per perdere tempo.
Silenzio.
- Okay, so cosa
stai per dirmi – l’ha preceduta, stavolta – Dovrei impiparmi su ciò che dice,
ciò che pensa lo stronzo? No, fin qui ci siamo, e ti prego, non farmi la
paternale, ci ha già pensato Gabriele. Ma se lo stronzo che tu dici, prende
tanto sul serio le proprie perle di saggezza, tanto da rivendicare, in nome
delle sue cazzate, il diritto di picchiarmi, portarmi via oggetti personali e
desiderare la mia morte, e così con tutti quelli che lui ritiene feccia, se
permetti un po’ me ne frega – solleva gli occhi al cielo, ispirato, e per un
attimo sembra quasi troppo lucido – Quello adesso farà
peggio…
- Posso sapere
allora che bisogno c’era di buttarti a terra, fingere che ti avesse picchiato,
mettere su quella farsa ridicola…? – adesso, alzare la voce è quasi
d’obbligo.
Andrea scuote il
capo, gli occhi tristi.
- Pensi che ne
vada fiero? Pensi che non tornerei indietro? – e tace, ma solo il tempo di
tirare su col naso e ravviarsi i capelli – Probabilmente no. Per le conseguenze,
mica per lui… Figurati se il direttore gli torcerà un capello…! Al massimo si
consulterà con compare Alberti. Ma ti giuro che stamattina impazzivo dal
nervoso. Dovevo fare qualcosa. Ho sbagliato, adesso me lo prenderò di là come
tutti gli altri, e buonanotte… Ma dovevo fare qualcosa.
- Non te l’ha
ordinato il medico di provocare un imbecille per farlo diventare ancora più
imbecille! – il sospiro di rassegnazione è breve ma perfettamente udibile – Lo
sai che non ne caverai niente di buono. Non ti è bastata la piazzata di ieri
sera? Quello è così cretino che solo all’idea che la sua ragazzina creda a un
decimo delle tue cazzate, si fa il fegato così!
- Stava per
mandarmi all’ospedale – sgrana gli occhi, Andrea, i bordi arrossati ben
visibili; e adesso sembra decisamente alterato – Ma io ci manderei lui… in un
bel manicomio! E non hai sentito quello che mi ha detto a ora di pranzo. La sua
faccia mi è già indigesta così, più del cibo della mensa…!
- Ah, è venuto
pure a raccogliere le briciole – sorridi, indecisa su quale sia la parte più
grottesca dell’intera storia.
- Mi ha detto
cose assurde… Non gliene frega niente, se lo sbattono fuori. L’unica cosa che
gli interessa è prendermi a insulti e ribadire le sue posizioni
pseudonaziste.
- Perfetto,
Andrea – scuoti il capo, e provi a crederci almeno un istante, che un sorriso
imperturbabile possa restituirgli un attimo di calma – Ti importa qualcosa delle
sue idiozie? Cosa ti aspettavi, che ti recitasse l’Iliade? Vuoi stare al suo gioco e
scendere al suo livello? Accòmodati.
- Io vorrei che
lui e tutti i bulli del cazzo come lui la smettessero di rompere l’anima a chi
nemmeno se li fila! Vorrei che la finissero… tutti. Sono una puttana? Sono
andato a letto col professore? Mi piacciono i ragazzi? Bene, cazzacci miei. La
cosa li tocca? No. E allora basta, stop, fine delle trattative – adesso sta
quasi urlando; se non urla, ha quel tono esasperato che fa vibrare le
pareti.
- Andre, mi
dispiace…
Andrea intreccia
le braccia sul petto, ricacciando indietro qualcosa di troppo simile a una
lacrima.
- A me no –
ribatte, acido – In fondo, sto raccogliendo quello che ho seminato. Lo so cosa
succede in questi casi: c’ero dentro anch’io. Secondo te, cosa facevo quando è
toccato a Gabriele? Nulla. Non avevo niente da guadagnarci, però appena qualcuno
diceva una cazzata, io dovevo aggiungerne una peggiore. Mi ero fatto una mia
teoria personale. Appena mi ha torto un capello, apriti cielo. Ricordi la
questione dello stage? Io sì, purtroppo… Come dimenticarla? Sono saltato su e
gliene ho detto di tutti i colori, e per poco non ci siamo accapigliati. Perché?
Perché tutta la banda era d’accordo. Stavolta c’è un effetto boomerang, e forse
me la sono davvero andata a cercare. Ma sai cosa mi dispiace davvero? Che il
problema non sia solo il mio. Che ci sarà sempre un maledetto capro
espiatorio.
E qualcosa che
suona come un’autopunizione sembra fare capolino tra un delirio e l’altro, per
nulla rassicurante. Il gusto amaro della colpevolezza nelle
parole.
- Possiamo
tornare alla questione di Gabriele?
La voce è venuta
fuori piccola piccola, come se da un momento all’altro temessi una sua
esplosione di collera. O una crisi di pianto. Invece, contro ogni aspettativa,
sorride come se qualcuno abbia pronunciato la parola magica. La panacea che
calma tutti i mali.
- È stato
assurdo, che devo dire? – si stringe nelle spalle, le parole attutite dal
fruscio del lenzuolo – Credevo di morirne – socchiude gli occhi, adagiandosi
meglio al tuo fianco, la testa china sul tuo braccio come se aspettasse una
carezza che scioglie tutti i nodi.
E poi si stira
come un gatto. Un respiro profondo.
- Era… era qui.
Poi, un istante dopo era tutto svanito. Mi ha abbracciato qui, attorno alla
vita, mi ha stretto a sé e ha poggiato la testa qui, sul mio grembo –
s’interrompe; e ti si stringe addosso, accoccolandosi come un
cucciolo.
È come se
ricordare i dettagli, elencarli a bassa voce, potesse renderglieli in qualche
modo vivi, tangibili.
È successo,
Andrea, tranquillo: se me lo racconti così, ti credo. Non è stata una tua
allucinazione.
- Non lo so
quanto è durato – stavolta è un mormorio appena velato di tristezza – So che a
un certo punto ho riaperto gli occhi, e i soli residui erano i postumi di quei
due tiri di canna. E poi domani è un altro giorno. Di
merda.
Almeno ci si
sguazza. Ci sono stati giorni peggiori, Andrea. Decisamente peggiori. Come
quando vivevi nell’ignoranza.
* *
*
Volevo dirtelo,
Elena, ma poi ho pensato che sarei sceso sempre di più nel terreno
minato.
La verità è che
non lo so. Cosa voglio. Rimescolare queste carte all’infinito. Affondare nel
petto di lei e dimenticare tutto. Cancellare la parola “domani” e rifugiarmi in
una dimensione che sia solo nostra. Oppure tornare da Gabriele e chiedergli
spiegazioni con qualche scaglia di razionalità in più: affrontare
l’ignoto.
Perché l’hai
fatto, Gabriele? È stato meraviglioso. Fottutamente imbarazzate, verso l’inizio,
quando non sapevo dove mettere le mani e tu mi impedivi di
muovermi.
Con lei sarebbe
stato diverso. Non sarebbe stata una frustata improvvisa, trovarmi senza difese,
completamente esposto, le sue labbra a rompere ogni indugio. A soffermarsi tra
le mie gambe. Lui che mi guarda con diffidenza fino a cinque secondi prima, che
mi soppesa e cerca di sviscerare ogni mio pensiero – quel “chi sei, Andrea?”
come una nenia oscura tra le pieghe della fronte, come una barriera tra noi. La
macchia sbiadita di quel che era stato. Di quel che eravamo stati l’uno nei
confronti dell’altro.
A un certo punto
c’è stato solo il sapore delle sue labbra. E poi il contatto più intimo. La
conoscenza che ha riscritto i confini – solo un attimo. La deriva totale, il
fuoco e la luce sotto le palpebre serrate. La sua bocca che faceva quasi male,
mentre toccava le corde scoperte, la carne viva. Una scossa lungo la spina
dorsale e il suo profumo scolpito addosso. E un calore insopportabile inchiodato
intorno ai fianchi.
E tu non ti sei
lasciato scalfire nemmeno per un istante – non posso saperlo: so solo che mi
volevi così, come cera da plasmare, o almeno
l’illusione.
Mi fa quasi
sorridere, la tua strana predilezione per quel punto che va dall’ombelico fino
all’anca. Ti ci sei soffermato tanto a lungo da farmi impazzire, da coprirmi la
pelle di brividi. Mi hai leccato come un gatto. E il mio grembo sarebbe stato il
tuo giaciglio, il tuo cuscino, per questa sera, se solo io non fossi venuto meno
e non avessi riaperto gli occhi su una stanza vuota – la parete in ombra, la
brezza sulla pelle nuda e uno spiraglio socchiuso verso l’esterno. Avrei voluto
cullarti così. Come tu mi hai scosso all’infinito, fino a rendere la vibrazione
insopportabile.
Vorrei solo che
l’aroma del fumo nella stanza e la tua impronta calda non svanissero mai più –
trascendessero i secondi.
Vorrei dirlo a
lei. Metterlo nero su bianco per renderlo meno assurdo. Scrollarmi di dosso la
sensazione di lei che mi legge tra le righe, e svelarmi da
solo.
Essere con lui e
contemporaneamente con lei, a colmare lo stesso
istante.