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Autore: Cassandra Morgana    03/08/2011    1 recensioni
Sullo sfondo chiaroscurale di un'Accademia d'Arte Drammatica con troppe maschere da indossare e una posta in gioco che sale, tre ragazzi si incontrano.
Elena vince il proprio mal di vivere grazie a un'amicizia speciale, al ritrovato coraggio di gestire i conflitti e a un forte altruismo; si scontra con Isa, la sua nemesi, voce contraria e complementare che cerca di tessere una storia opposta.
Andrea, ragazzo ambiguo e dalla lingua affilata, vuole recuperare la stima di chi, troppo tardi, si è reso conto di amare.
Gabriele imbroglia la propria depressione fumando spinelli, nutre sentimenti ambivalenti verso Andrea e gioca da burattinaio.
Tra pettegolezzi sussurrati, volontà opposte in rotta di collisione, ambizioni frustrate, gelosie, complotti sotterranei, storie di ordinaria omofobia, dark enigmatici, musicisti irascibili, ex amanti, amicizie inossidabili e amori taciuti, in una storia in cui ognuno vuole far sentire la propria voce, resta solo stabilire chi sia Cleopatra e chi il serpente che le insidia il seno.
[Storia sesta classificata e vincitrice del premio "Stile e scrittura più originale" al contest Chi è normale non ha molta fantasia - La storia più originale su EFP, indetto da Butterphil]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Capitolo 25

Dopo la tempesta

 

 

Ricordo la prima volta che ho visto Andrea nudo – seminudo, di preciso. Fu la manciata di interminabili secondi in cui calcò la scena vestito di soli boxer aderenti. Una specie di nudo metaforico in verità, nulla di più, immerso in un alone di luce carica che ne rendeva indistinti i contorni. Ma tanto bastò.

Starmene nell’ombra, quella volta, fu il vero colpo di fortuna. Specie se hai la fottuta abitudine di arrossire nei momenti sbagliati.

Era stato il mormorio soffuso di Blanche, accoccolata al mio fianco, a riscuotermi da quella visione che mi bruciava in fondo alle pupille.

- C’est ton ami? André Nicoletti?

- Mon ami…?!

Amici, io e Andrea? Non lo si poteva manco sentire.

Il gesto casuale che le rivolsi fu eloquente quanto un sonoro ‘sticazzi, perché sfido chiunque, al mio posto, a fornire volentieri certe coordinate di vitale importanza, quando la preoccupazione numero uno è impedire allo sguardo di vagare oltre.

Adesso, fissagli il pacco e sei fottuto.

Meglio glissare e passare oltre, a quel paio di gambe diritte e ben cesellate, le movenze in perfetta sincronia espressiva con il resto del corpo. Perfetto come sempre, Andrea. Con mio sommo rammarico.

Parlare della prima volta in cui lo (intra)vidi nudo, o quasi, è un po’ come parlare del sesso degli angeli. A rendere la lista superflua, la sua maledetta abitudine di andarsene in giro in accappatoio e mutande – almeno, entro il perimetro della stanza che condividevamo, e sempre, puntuale, dopo la doccia rilassante di fine giornata.

Di ancora più osceno c’era il suo trascorrere la parte restante del suo tempo a starnazzare con Isa e il suo clan di arpie, fermarsi ogni tanto per scagliarmi qualche frecciata velenosa, e proseguire. Poi magari, girato l’angolo, ricominciare tutto da capo e scoccarmi quegli sguardi indecifrabili per farsi desiderare ancora, e di nuovo attirarmi nella tela.

O forse era la mia semplice, snervante ossessione.

 

La verità, Gabriele, è che avresti voluto averla, una possibilità con lui. Avresti voluto non arrivare mai al punto di rottura in cui tutto è perduto; al punto di desiderarlo di nascosto e ogni volta uccidere l’impulso sotto un’ondata di gelo, sotto la spinta di quegli occhi taglienti. Al punto di detestarlo e progettare con calma la sua rovina. In fondo, sarebbe bastato chiudere gli occhi e riscrivere tutto da capo.

Il punto è che non avresti voluto essere per lui ciò che gli altri dicevano – giudizi tutt’altro che lusinghieri. Né vederlo varcare come un ladro l’ufficio di Neri per non uscirne più.

La prima volta che l’hai visto eccitato o qualcosa di simile, stava appoggiato con tutto il suo peso contro la scrivania del coglione, le mani aperte a vagare sulla sua schiena, in quella tristemente celebre scopata vestiti che li rese tristemente celebri – almeno, agli occhi di quella cimice piazzata in cima allo spigolo della libreria.

Una spia nell’armadio per svelarne gli scheletri – e sì che era venuto fuori di tutto, discorsi a tu per tu, accordi presi sottobanco, baci strappati a tradimento.

Tanto che ti rigiri ancora quelle dannate registrazioni tra le mani come se scottassero, perché renderle pubbliche sarebbe la madre di tutti gli sputtanamenti.

Eccoli là: Andrea che piagnucola per una cazzata qualunque a proposito di immedesimazione e pippe, e il coglione che raccoglie quel paio di lacrime.

Incastrare Neri non aveva richiesto chissà quale studio, alla fine, perché è raro che quelli come lui, sicuri di essere nel giusto, prendano le dovute contromisure.

 

Scusi, professore, ho perso la scorsa lezione. Non è che ha consegnato i copioni quando io non c’ero?

Professore, il cazzo.

Il cuore mi martellava nel petto, l’ultima volta che varcai quella porta, e non solo perché i miei istinti più bassi mi suggerivano di tirargli il collo. L’ultima volta prima del disastro.

Lui non aveva staccato gli occhi nemmeno per un attimo dal suo notebook, dai suoi affari di importanza cruciale. Mi aveva liquidato con un cenno secco della mano, come avrebbe scacciato un moscerino.

Ultimo piano della libreria, Derossi.

Chi se ne fotte…

Solo che così la fa troppo facile, professore. Davvero: lei vuole negarmi la soddisfazione di una vittoria sudata. Troppo facile, piazzare una maledetta spia dentro lo studio. E poi incrociare le braccia e attendere paziente.

 

La seconda volta che l’ho visto eccitato, Andrea, fu la volta della tipa X e dei suoi capelli biondi stesi su di lui a celargli l’inguine nudo. Il movimento ovvio della testa, l’atmosfera tutt’intorno impregnata solo dal leggero schioccare della bocca di lei, non lasciavano nulla all’immaginazione. E lui disteso e beato sul divano, un continuo frusciare di stoffe e di labbra bagnate. Si divertiva.

 

Ora, con qualche cataclisma di distanza, non credevo fosse… così.

Cosa ti aspettavi, Gabriele, i cori angelici? Un’esplosione dall’eco lunga quanto la somma dei tuoi attimi da qui in avanti?

Se te l’avessero chiesto allora, se avessi potuto cambiare le carte schioccando le dita, una miscela inebriante ti avrebbe investito fin dentro le ossa. Uno sprofondare in acque tiepide, ogni secondo scandito dal suo e dal tuo respiro, dall’infuriare del sangue sotto la sua pelle.

Non credevi sarebbe stato così… Completo, e di tutto. Carico di tutta la delusione e il veleno e la non-aspettativa di mesi.

Se fosse accaduto soltanto… un mese fa, sarebbe stato diverso, inaspettato. Un balsamo sulle ferite e una vena guizzante di euforia.

E ora invece non è niente di tutto ciò. Nessuna esplosione maturata nel tempo, nessuno scioglimento finale. È la differenza che corre tra il dolore sordo che attendevi a denti stretti, e tante fitte intermittenti là dove i corpi si sfiorano – e scorrono l’uno contro l’altro.

Non toccarmi, Andrea – non provarci neppure. Non parlare. Non dire più nulla, perché è tra un rancore e l’altro che abbiamo trovato qualcosa che ci accomuna.

Ribaltarti sotto è la soluzione migliore per disinnescarti. E no, non muoio dalla voglia di scoprire cosa sei capace di fare, sciolto da tutte le catene. Preferisco continuare a immaginarlo.

La soluzione migliore è scoprirti quanto basta e lasciarti lì a gemere. Ignorare le tue pretese, quando catturi il lenzuolo sottostante nella stretta spasmodica delle dita. Sono le mie labbra a scorrere imperterrite sul tuo corpo proteso, a seguire la muscolatura contratta del ventre; scivolano su di te senza peso e senza scopo, senza scioglierti da quella morsa di languore.

Fa male, Nicoletti, vero?

Quasi quanto lasciarmi rapire dall’ossatura delle tue anche. E indugiarci senza regalarti nulla. Non mi hai soggiogato abbastanza da ingannarmi, da trascinarmi nel tuo baratro di irrazionalità.

Per un attimo credo di essermi perso davvero, perché ogni tuo movimento è un fruscio di spire che mi attira verso il centro… Il disegno sottile della muscolatura, il morbido roteare dei fianchi, privo di scatti, fluido come i movimenti di un gatto – persino ora, che sei eccitato da fare pietà.

Dillo adesso, raccontalo ai tuoi amici, Andrea. Che mi ritieni nient’altro che un ronzio fastidioso. Di certo non all’altezza di stare al tuo livello o di meritarmi le tue provocazioni. Che il gioco non vale la candela.

È una risata, quella che ti esplode tra le labbra?

I pensieri ad alta voce non sono una grande invenzione, come le parole pronunciate da ubriachi o strascicate nel sonno, perché possono contenere molecole di verità. Se escludi che, tecnicamente, saremmo entrambi fatti come ciminiere – e quindi il nonsense può starci. Il punto è stabilire quanto; quanto e chi tra noi due tenga le redini.

- Perché ridi? – suona un po’ stupido, ma devo cavargli fuori qualcosa.

Ora o mai più.

- Che cosa stavi dicendo, scusa? – sgrana gli occhi, Andrea – Che avrei parlato con loro… loro chi? Di te? E quando mai? Di quanto sei bravo… a letto? – altra risata argentina, perforante – Senza esperienza diretta. Siamo mai stati insieme, noi? O su quanto saresti bravo a farmi un p…

- Zitto!

Una parola in più, e rovineresti tutto – come al solito. È sempre stato il tuo asso nella manica.

E poi resta solo la sua voce che si scioglie in un sospiro, i suoi vestiti e le sue resistenze che scivolano a terra. La sua erezione che mi pulsa addosso, con urgenza.

È quasi crudele, ignorare il suo urlo silenzioso e ogni fibra del suo corpo che vibra per essere accarezzata, per trovare il nodo focale di tutta la tensione accumulata. La cute coperta di brividi e lucida di sudore, e quel suo modo ipnotico di oscillare, di chiedermi, per favore, metti fine a questo stillicidio; portalo alle estreme conseguenze.

Strusciare il viso contro le sue cosce spalancate non è una risposta soddisfacente; a rivelarmelo, il cupo miagolio che gli strappo via in capo a un istante, come a un gatto allontanato dalla sua ciotola. Potrei indugiare ancora, il mio respiro contro la sua pelle rovente, le mie labbra che si schiudono su di lui con parsimonia; potrei ignorare la sua eccitazione e dedicarmi all’estatica contemplazione dell’attaccatura della coscia o dell’anca in rilievo o della linea scura che precipita verso il basso, fino ai riccioli del pube. Lasciarlo agonizzante. Assaporare ancora – con sadico piacere – il raschiare dei suoi denti contro il labbro, e gli ansiti che crescono.

È strano. Strano tutto, in lui. Il suo modo di muovere i fianchi, di godere – darebbe l’idea che qualcuno voglia fargli del male, se non fosse per la piega delle labbra e la punta delle orecchie che va a fuoco. Azzarderei a dire “femminile”, il suo modo di dirti che è sull’orlo dell’orgasmo. Se la prova schiacciante della sua mascolinità non stesse fisicamente davanti ai miei occhi.

Non farò nulla: non tirerò per le lunghe, per il sapore perverso di tenerlo metaforicamente in pugno per la prima volta in vita mia – a che servirebbe?

Penso che una parte di me lo vorrebbe davvero: compiere il salto nel buio, perdermi in lui senza proiettarmi sul domani, sulle conseguenze, sul ghiaccio della razionalità e del dopo. Sfuggire alle normali relazioni di causa-effetto e mettermi nelle sue mani.

Vorrei stringerlo, disperatamente, e dirgli che andrà tutto bene, che sono con lui… Ma non posso: non spetta a me – non ancora. Non sa cosa sono. Lo sa Elena, ma sarà una tomba.

Credo che scriverò adesso l’epilogo del nostro tragico incontro – riscrivere su una pagina già sporca?

Il fatto è che ho conosciuto il sapore cristallino della tua bocca, Andrea; della menzogna, dei baci elargiti senza sconto. Resta da abbattere l’ultima barriera, svelare l’ultima piega di cui sono all’oscuro, e poi resteranno solo Gabriele e Andrea.

 

* * *

 

- Andre, mi fai preoccupare.

Ha la pelle caldissima, gli occhi così lustri che qualche linea di febbre potrebbe averla per davvero. Quasi brucia sotto il tuo tocco, mentre le labbra si distendono in un sorriso stanco. Vagamente ebete.

- Senti, Gabriele me l’ha detto, che eri un po’ giù di tono – pausa strategica, in attesa di una risposta che non sia enigmatica o strutturata come un mosaico da ricomporre – Solo che… non credevo tanto.

La fatica di aprire un occhio è un istante eterno. Ogni singola movenza sembra costargli un’immane fatica. È lì, disteso sul suo letto come se qualcuno ce l’avesse buttato per caso, scomposto, e con quello sguardo perso.

Per poco non ti prende un colpo, quando quel vago inarcamento di sopracciglio non culmina in una risata di petto.

- Dio, Loria, questa è bella! Secondo lui sarei giù di tono? – cincischia – Su di tono, se proprio… – e ammicca, sibillino.

Accennando con lo sguardo, non troppo velatamente, verso la cintura.

- Idiota…!

- Il tuo amico Gabriele ha una gran faccia tosta… – prosegue con voce querula, gli occhi che roteano verso il cielo – O non ci vede bene. Dice che sono giù di morale… quando è stato lui a riportarmi su.

Scuoti il capo. Il fatto che l’ultima volta che l’hai visto, avesse come unico chiodo fisso la sua faida personale con Federico Riccardi, e subito dopo sia crollato sotto il peso di una vittoria risicata e qualche responsabilità di troppo, fa pensare. Come ora, con quell’ennesima, inaspettata metamorfosi, la faccia deboluccia e beata con annessa palpebra calante di chi è appena uscito da una sauna o da una scopata stellare.

Deglutisci a fatica: Gabriele non l’avrebbe gridato ai quattro venti, di aver appena avuto un incontro ravvicinato con la propria negazione vivente. E poi Andrea ha gli occhi decisamente strani.

- Ma vi siete fatti? – gli domandi, a bruciapelo.

Lui solleva il capo sul cuscino con indolenza. Uno sbadiglio soffocato nel luccicore umido delle ciglia. E socchiude le labbra in quel sorriso che scioglie le pietre.

- Dipende da cosa intendi con la parola “fatti”, carissima – e strizza le palpebre, sarcastico.

No, ferma, un secondo.

Mi sono persa qualcosa. Troppo veloce, neppure il tempo per metabolizzare tutto.

Gabriele è Galileus. Gabriele voleva distruggere Andrea – ma si accontenterà solo dello scalpo di Neri. Andrea si è appena fottuto nei suoi deliri di vendetta-onnipotenza e ha avuto un crollo psicologico non da poco – non l’ultimo, ti temi. Gabriele e Andrea sono finiti a letto insieme, in qualche passaggio che al momento sfugge. E Andrea è lì a dieci centimetri da te che sorride con aria beota e sembra fremere dalla voglia di sciorinarti i dettagli. È come se abbia stampato in faccia a caratteri cubitali che è reduce dall’orgasmo più devastante dei suoi diciannove anni.

Il resoconto di Andrea e Gabriele che si fanno i cavoli loro, no – pietà! È l’ultima cosa a cui potresti reggere. Anche se l’idea di loro due insieme – del trionfo di Gabriele, che tutti davano per bruciato – per un attimo ti fa gongolare come se dall’altra parte, insieme ad Andrea, ci fossi stata tu. È un’idea che, per qualche motivo strampalato, ti ha sempre fatto gola. Forse perché, in pratica, sarebbe il prodotto ultimo di ciò che hai sospinto e tessuto con certosina ostinazione.

- Comunque, Loria, la risposta alla domanda è: entrambi – e fugge con lo sguardo, a sottintendere cose meravigliose.

- Vi siete fumati una canna? – maledizione

Andrea annuisce come di fronte a qualcosa di poco importante.

- Solo qualche tiro… E comunque è tutta colpa di Gabriele. Ero a un passo da una crisi di nervi, poi è arrivato lui, è spuntato fuori dal nulla – e la voce sfuma.

Per un attimo un brivido di gelo ti incunea addosso il dubbio che Gabriele sia meno innocente di ciò che vuole sembrare. Che i suoi disegni machiavellici non finiscano dove dice lui; che non fosse sincero, quando ha giurato che l’unica persona che brama di spedire nella merda, si chiama Fabio Neri – a che pro, continua a ripetersi un certo campanello d’allarme nella tua testa. Che forse il pesce grosso – o l’ingranaggio principale di tutto il meccanismo – sia proprio Andrea, e Gabriele abbia perso il senso della realtà, ciò che compete a Gabriele e ciò che compete a Galileus. E questo è decisamente troppo.

- E insomma… – pausa imbarazzata – L’avete fatto, no?

La voce plana insolitamente dolce. Perché non vorresti essere nei suoi panni, se ciò che ha in serbo Gabriele dovesse rivelarsi peggiore dei peggiori pronostici. Compreso il lento lavorio su Andrea.

- Macché! – risposta secca, seguita da un automatico arricciamento di labbra – Non si è fatto manco sfiorare… Povero lui!

Ti prego, ti supplico, non i dettagli! Morirei di imbarazzo. E sì, lo so che vorresti ragguagliarmi sui tuoi ultimi numeri da circo, perché ti fidi di me e vorresti parlare di tutto… Ma la descrizione della vostra scopata – o qualunque altra cosa sia stata – è troppo anche per me.

- Diciamo che… – almeno il pudore di arrossire – Non l’abbiamo fatto ma ci siamo andati molto vicini. Ti basti sapere che è un manipolatore sadico, e che le sue cazzo di dannatissime, fottutissime, meravigliose labbra, me le sognerò stanotte… su di me, dappertutto – sussulta, mentre le sue dita si arrestano in direzione del ventre, spinte da qualche forza superiore.

Okay, Andre, ho capito: ho una fervida immaginazione, non serve il disegnino. Ora, ti scongiuro, torna alla realtà ed evita di venirtene qui davanti a me. Grazie.

E cosa si dice di solito a questo punto? Auguri? Congratulazioni?

Una neutrale arruffata di capelli. Può andare.

Andrea chiude gli occhi; sospira, e c’è un nonsoché di felino in quello strusciamento impercettibile – o forse è solo il suo respiro.

- Ti amo, Elena – sussurra, a bruciapelo, e la conferma che sia completamente fatto, stavolta è precisa e diretta; non si limita a un semplice alone arrossato dentro le orbite o alla voce strascicata – Voglio che ci sia.

Sospiri. Quando l’hai intravisto giù al bar, Gabriele aveva due occhi che quasi schizzavano fuori. Ha chiesto solo un bicchiere d’acqua e sembrava un po’ svanito. Qualche tavolo più avanti, Isa gli ha lanciato un’occhiata nera e ha mormorato qualcosa all’amica.

Se Gabriele era così elettrico, è verosimile che Andrea sia allo stato di plasma, dato che non è abituato – a quanto ne sai – a sfondarsi in quel modo.

- È… – azzarda, di nuovo – è tutto ciò che volevo. Pensavo fosse… diverso. Invece era tutto qui, a portata di mano. Mi viene da piangere…

- Cosa succede, Andre?

- È come… non lo so – china lo sguardo, e la sua voce è leggermente più ferma – Mi ha lasciato un senso di vuoto. Sembrava che volesse tenermi a bada.

E posso capirlo, dopo i tuoi ultimi exploit.

Strategico sollevamento degli occhi verso il cielo.

- È stato meraviglioso… assurdo! – ridacchia: forse cerca di mascherare quella punta naturale d’imbarazzo – Ma pian piano se ne va.

- Cosa se ne va, Andrea? – stavolta le dita indugiano lente tra i suoi capelli.

- Tutto. La gioia… – distoglie il viso, raccogliendo i pensieri – La gioia di quel momento. Come un bel sogno. Tu ti svegli, pensi che tutto sommato ti abbia lasciato addosso qualcosa di bello. Poi ti svegli del tutto e vedi la tua realtà che fa pena. Stop, tutto svanito in una bolla di sapone. Eppure sei stato bene. Lui se ne è andato. Era qui, credevi di morire felice, di dimenticare tutto lo schifo che hai lasciato là fuori. Adesso il brivido sta già svanendo, e sarò di nuovo lo sfigato voltabandiera a cui pure il più coglione dell’istituto può dire che era meglio che sua mamma l’avesse buttato nel cassonetto da piccolo.

- Okay, basta! Così non ci capisco più niente…

- Ecco. Nemmeno io – puntualizza Andrea – Era solo per dire che tra un po’ sarà tutto di nuovo schifosamente normale, e allora cosa rimane?

Perfetto. È ancora mezzo anestetizzato dal torpore erotico-sentimentale al retrogusto di spinello, e già teme il momento in cui la negatività tornerà a galla. Compresa l’impossibilità di un seguito tra lui e Gabriele. Tabula rasa, cancella quel che è successo dalle cinque alle sei e mezza di stasera, ho un alibi di ferro. Il tutto starà a racimolare qualche altro granello di lucidità.

- D’accordo, facciamo un po’ d’ordine: chi è il genio che ha tirato in ballo tua madre, e a che proposito? – incalzi.

Andrea si solleva sui gomiti e si sforza di cavarsi fuori un sorriso sarcastico.

- Uno solo. Indovina…?

- Lo stronzo, l’avevo capito – però gliel’hai chiesto, giusto per perdere tempo.

Silenzio.

- Okay, so cosa stai per dirmi – l’ha preceduta, stavolta – Dovrei impiparmi su ciò che dice, ciò che pensa lo stronzo? No, fin qui ci siamo, e ti prego, non farmi la paternale, ci ha già pensato Gabriele. Ma se lo stronzo che tu dici, prende tanto sul serio le proprie perle di saggezza, tanto da rivendicare, in nome delle sue cazzate, il diritto di picchiarmi, portarmi via oggetti personali e desiderare la mia morte, e così con tutti quelli che lui ritiene feccia, se permetti un po’ me ne frega – solleva gli occhi al cielo, ispirato, e per un attimo sembra quasi troppo lucido – Quello adesso farà peggio…

- Posso sapere allora che bisogno c’era di buttarti a terra, fingere che ti avesse picchiato, mettere su quella farsa ridicola…? – adesso, alzare la voce è quasi d’obbligo.

Andrea scuote il capo, gli occhi tristi.

- Pensi che ne vada fiero? Pensi che non tornerei indietro? – e tace, ma solo il tempo di tirare su col naso e ravviarsi i capelli – Probabilmente no. Per le conseguenze, mica per lui… Figurati se il direttore gli torcerà un capello…! Al massimo si consulterà con compare Alberti. Ma ti giuro che stamattina impazzivo dal nervoso. Dovevo fare qualcosa. Ho sbagliato, adesso me lo prenderò di là come tutti gli altri, e buonanotte… Ma dovevo fare qualcosa.

- Non te l’ha ordinato il medico di provocare un imbecille per farlo diventare ancora più imbecille! – il sospiro di rassegnazione è breve ma perfettamente udibile – Lo sai che non ne caverai niente di buono. Non ti è bastata la piazzata di ieri sera? Quello è così cretino che solo all’idea che la sua ragazzina creda a un decimo delle tue cazzate, si fa il fegato così!

- Stava per mandarmi all’ospedale – sgrana gli occhi, Andrea, i bordi arrossati ben visibili; e adesso sembra decisamente alterato – Ma io ci manderei lui… in un bel manicomio! E non hai sentito quello che mi ha detto a ora di pranzo. La sua faccia mi è già indigesta così, più del cibo della mensa…!

- Ah, è venuto pure a raccogliere le briciole – sorridi, indecisa su quale sia la parte più grottesca dell’intera storia.

- Mi ha detto cose assurde… Non gliene frega niente, se lo sbattono fuori. L’unica cosa che gli interessa è prendermi a insulti e ribadire le sue posizioni pseudonaziste.

- Perfetto, Andrea – scuoti il capo, e provi a crederci almeno un istante, che un sorriso imperturbabile possa restituirgli un attimo di calma – Ti importa qualcosa delle sue idiozie? Cosa ti aspettavi, che ti recitasse l’Iliade? Vuoi stare al suo gioco e scendere al suo livello? Accòmodati.

- Io vorrei che lui e tutti i bulli del cazzo come lui la smettessero di rompere l’anima a chi nemmeno se li fila! Vorrei che la finissero… tutti. Sono una puttana? Sono andato a letto col professore? Mi piacciono i ragazzi? Bene, cazzacci miei. La cosa li tocca? No. E allora basta, stop, fine delle trattative – adesso sta quasi urlando; se non urla, ha quel tono esasperato che fa vibrare le pareti.

- Andre, mi dispiace…

Andrea intreccia le braccia sul petto, ricacciando indietro qualcosa di troppo simile a una lacrima.

- A me no – ribatte, acido – In fondo, sto raccogliendo quello che ho seminato. Lo so cosa succede in questi casi: c’ero dentro anch’io. Secondo te, cosa facevo quando è toccato a Gabriele? Nulla. Non avevo niente da guadagnarci, però appena qualcuno diceva una cazzata, io dovevo aggiungerne una peggiore. Mi ero fatto una mia teoria personale. Appena mi ha torto un capello, apriti cielo. Ricordi la questione dello stage? Io sì, purtroppo… Come dimenticarla? Sono saltato su e gliene ho detto di tutti i colori, e per poco non ci siamo accapigliati. Perché? Perché tutta la banda era d’accordo. Stavolta c’è un effetto boomerang, e forse me la sono davvero andata a cercare. Ma sai cosa mi dispiace davvero? Che il problema non sia solo il mio. Che ci sarà sempre un maledetto capro espiatorio.

E qualcosa che suona come un’autopunizione sembra fare capolino tra un delirio e l’altro, per nulla rassicurante. Il gusto amaro della colpevolezza nelle parole.

- Possiamo tornare alla questione di Gabriele?

La voce è venuta fuori piccola piccola, come se da un momento all’altro temessi una sua esplosione di collera. O una crisi di pianto. Invece, contro ogni aspettativa, sorride come se qualcuno abbia pronunciato la parola magica. La panacea che calma tutti i mali.

- È stato assurdo, che devo dire? – si stringe nelle spalle, le parole attutite dal fruscio del lenzuolo – Credevo di morirne – socchiude gli occhi, adagiandosi meglio al tuo fianco, la testa china sul tuo braccio come se aspettasse una carezza che scioglie tutti i nodi.

E poi si stira come un gatto. Un respiro profondo.

- Era… era qui. Poi, un istante dopo era tutto svanito. Mi ha abbracciato qui, attorno alla vita, mi ha stretto a sé e ha poggiato la testa qui, sul mio grembo – s’interrompe; e ti si stringe addosso, accoccolandosi come un cucciolo.

È come se ricordare i dettagli, elencarli a bassa voce, potesse renderglieli in qualche modo vivi, tangibili.

È successo, Andrea, tranquillo: se me lo racconti così, ti credo. Non è stata una tua allucinazione.

- Non lo so quanto è durato – stavolta è un mormorio appena velato di tristezza – So che a un certo punto ho riaperto gli occhi, e i soli residui erano i postumi di quei due tiri di canna. E poi domani è un altro giorno. Di merda.

Almeno ci si sguazza. Ci sono stati giorni peggiori, Andrea. Decisamente peggiori. Come quando vivevi nell’ignoranza.

 

* * *

 

Volevo dirtelo, Elena, ma poi ho pensato che sarei sceso sempre di più nel terreno minato.

La verità è che non lo so. Cosa voglio. Rimescolare queste carte all’infinito. Affondare nel petto di lei e dimenticare tutto. Cancellare la parola “domani” e rifugiarmi in una dimensione che sia solo nostra. Oppure tornare da Gabriele e chiedergli spiegazioni con qualche scaglia di razionalità in più: affrontare l’ignoto.

Perché l’hai fatto, Gabriele? È stato meraviglioso. Fottutamente imbarazzate, verso l’inizio, quando non sapevo dove mettere le mani e tu mi impedivi di muovermi.

Con lei sarebbe stato diverso. Non sarebbe stata una frustata improvvisa, trovarmi senza difese, completamente esposto, le sue labbra a rompere ogni indugio. A soffermarsi tra le mie gambe. Lui che mi guarda con diffidenza fino a cinque secondi prima, che mi soppesa e cerca di sviscerare ogni mio pensiero – quel “chi sei, Andrea?” come una nenia oscura tra le pieghe della fronte, come una barriera tra noi. La macchia sbiadita di quel che era stato. Di quel che eravamo stati l’uno nei confronti dell’altro.

A un certo punto c’è stato solo il sapore delle sue labbra. E poi il contatto più intimo. La conoscenza che ha riscritto i confini – solo un attimo. La deriva totale, il fuoco e la luce sotto le palpebre serrate. La sua bocca che faceva quasi male, mentre toccava le corde scoperte, la carne viva. Una scossa lungo la spina dorsale e il suo profumo scolpito addosso. E un calore insopportabile inchiodato intorno ai fianchi.

E tu non ti sei lasciato scalfire nemmeno per un istante – non posso saperlo: so solo che mi volevi così, come cera da plasmare, o almeno l’illusione.

Mi fa quasi sorridere, la tua strana predilezione per quel punto che va dall’ombelico fino all’anca. Ti ci sei soffermato tanto a lungo da farmi impazzire, da coprirmi la pelle di brividi. Mi hai leccato come un gatto. E il mio grembo sarebbe stato il tuo giaciglio, il tuo cuscino, per questa sera, se solo io non fossi venuto meno e non avessi riaperto gli occhi su una stanza vuota – la parete in ombra, la brezza sulla pelle nuda e uno spiraglio socchiuso verso l’esterno. Avrei voluto cullarti così. Come tu mi hai scosso all’infinito, fino a rendere la vibrazione insopportabile.

Vorrei solo che l’aroma del fumo nella stanza e la tua impronta calda non svanissero mai più – trascendessero i secondi.

Vorrei dirlo a lei. Metterlo nero su bianco per renderlo meno assurdo. Scrollarmi di dosso la sensazione di lei che mi legge tra le righe, e svelarmi da solo.

Essere con lui e contemporaneamente con lei, a colmare lo stesso istante.

 

 

   
 
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