13 – Bittersweet
Bittersweet
I want you
I'm only wanting you
And I need you
I'm only needing you
Non
lo vedeva a scuola da due giorni.
Due lunghi, eterni giorni. E conoscendo la sua situazione a casa
nessuno l’avrebbe
biasimato per quella paura che gli aveva stretto lo stomaco sin dal
primo
momento in cui non era passato a salutarlo all’inizio della
giornata.
Venerdì. Se quel pomeriggio non si fosse presentato a casa
sua, a costo di
vederlo avrebbe chiamato la polizia con una scusa e condotta fino a
casa sua.
Avrebbe sfondato la porta, se necessario, sarebbe entrato dalla
finestra.
Cristo.
Magari era solamente malato.
Conoscendo sua madre, non avrebbe acconsentito che rimanesse a casa a
meno che
non avesse come minimo la peste bubbonica, era necessariamente qualcosa
di
grave. E lui non sopportava di sentirsi così tremendamente
inutile.
Osservò la lavagna senza davvero vederla, mordendosi
furiosamente il labbro e
sperando che le dannate etichette dell’orologio volassero
sopra i numeri.
La campanella del venerdì era sempre particolarmente
gioiosa, per tutti, perché
annunciava un weekend libero, finalmente, ma quella che
suonò quel pomeriggio
gli sembrò più un coro di angeli.
Aveva la cartella pronta da almeno venti minuti, con il risultato che
gli
ultimi appunti – solitamente i più importanti,
perché agli insegnanti sembrava
sempre che gli argomenti più importanti venissero in mente
solo quando mancava
poco alla fine della lezione – erano solamente scritti alla
lavagna e non sul
suo quaderno.
Poco male, in quel momento non era la scuola la cosa più
importante, di certo
sarebbe riuscito a convincere qualcuno a farseli passare senza indugi.
Volò fuori dalla stanza, travolgendo qualcuno al suo
passaggio, ma senza
nemmeno fermarsi a chiedere scusa, in
quel momento non gli interessava. Corse fuori dalla porta,
saltando in un
balzo i gradini e correndo a perdifiato sul prato come se non avesse un
domani,
rischiando più volte di perdere qualche arto lungo il
percorso.
Si diede più volte dell’idiota, mentre cercava di
infilare la chiave nella
serratura dell’auto.
Cazzo, mancavano anche le mani che tremavano!
Doveva andare a casa sua quella mattina, se lo sentiva. O quantomeno
rimanere a
casa ad elaborare un piano. Ma no, lui era andato a scuola, seguendo
quella
vocina inutile che gli diceva che sarebbe andato tutto bene, che Jude
sarebbe
stato a scuola con una spiegazione banalissima per l’assenza
del giorno prima.
Ma nulla andava mai tutto bene.
Avrebbe
dovuto capirlo, dopo tutti quegli anni.
Lanciò la borsa sui sedili posteriori, buttandosi a sedere e
tirando così
velocemente la cintura che temeva gli sarebbe rimasta in mano.
Allacciò e partì
sgommando verso casa, là avrebbe davvero deciso cosa fare,
al momento aveva
solo bisogno di fermarsi e ragionare. E magari anche calmarsi,
pensò mentre insultava
volgarmente un uomo solo perché aveva osato girare a destra
come lui invece che
a sinistra.
Parcheggiò alla bell’e meglio, quasi finendo sul
prato – sua madre l’avrebbe
come minimo castrato.
Capì di essere davvero, davvero, davvero
distrutto psicologicamente solo quando cercò di buttarsi
fuori dalla macchina
con ancora la cintura allacciata. La slacciò con rabbia,
scendendo e sbattendo
lo sportello con furia, tanto che il suono rimbombò un paio
di secondi tra le
case eleganti ed i prati curati. Non si sarebbe stupito di averlo
minimo staccato.
O aver ammaccato la macchina.
Arrivò in camera alla velocità della luce,
salendo i gradini due a due e
chiudendosi dentro. Se qualcuno l’avesse disturbato in quel
momento, avrebbe
rischiato sul serio di staccargli la testa a morsi. Letteralmente.
Recisa con
un colpo secco.
Prese qualche respiro profondo, appese la giacca, e si sedette a gambe
incrociate sul letto, tenendo il cellulare accanto e la sveglia davanti.
Le lancette scorrevano fin troppo lente.
Sua madre bussò un paio di volte senza ricevere risposta, la
cosa migliore per
farla andare via senza fare domande, di certo credeva si fosse
addormentato.
Le tre arrivarono e passarono.
Di Jude nessuna traccia e lui si sentiva il cuore in gola ed i polmoni
improvvisamente privi di aria.
Certo, ora ci mancava un attacco di
panico come quelli di Jude, rise istericamente, passandosi le
mani tra i
capelli.
Le quattro.
Le quattro e mezza.
Le cinque.
Non avrebbe mai avuto il coraggio di ritardare così.
Scese dal letto, aprì la porta, e corse di sotto nello
studio di suo padre,
sperando di trovarlo.
Spalancò la porta troppo violentemente, mandandola a
sbattere contro il muro,
ma se ne fregò altamente.
Niente, la poltrona era vuota.
Fece dietrofront, correndo in cucina.
Vuota.
“Mamma!”
Il salotto. Nulla.
“Mamma!”
Il giardino.
“MAMMA!”
Elsie era china su un libro, pigramente abbandonata su una chaise
longue
accanto alla piscina. I lunghi capelli scuri erano stretti severamente
solo il
largo cappello di paglia.
“MAMMA!”
Alzò la testa, gli occhi nascosti da grandi occhiali scuri.
Il ritratto della
calma, ancora più evidente visto ciò che si
agitava in lui.
“Dimmi.”
“Dov’è papà?”
“In ufficio, stasera fa tardi. Avevi bisogno?”
Quasi urlò, a quella risposta. Dio, lo sapeva, lo sapeva.
Nulla andava mai nel
verso giusto. Mai.
“No, non importa, grazie.”
“Chiedi a me, vedo cosa posso fare.” Rispose lei,
ma quando terminò Robert era
già scomparso di nuovo dentro casa.
Non aveva mai corso così tanto in vita sua, nemmeno nelle
ore di ginnastica.
Lui odiava ginnastica e odiava correre, ma gli sembrava questione di
vita o di
morte.
Recuperò le chiavi della macchina ed uscì di
nuovo, sbattendosi la porta alle
spalle.
Quasi fece un testacoda davanti a casa di Jude, quando
arrivò.
Scese lasciando aperto lo sportello e prese a bussare violentemente
alla porta,
alternando con sonore scampanellate. Non gli importava che la madre di
Jude lo
vedesse, che lo mandasse via. Aveva tutta l’intenzione di
portarlo
definitivamente via di lì, avrebbe affrontato dopo le
conseguenze,
semplicemente non poteva ridursi in quello stato se non lo vedeva per
un minimo
lasso di tempo, averlo costantemente sott’occhio sarebbe
stato più facile. L’avrebbe
osservato costantemente, a costo di doversi accampare con un sacco a
pelo nella
camera degli ospiti e seguirlo anche in bagno.
Era affrettato, era sbagliato, un errore gigantesco, colossale, ma non
ce la
faceva più, davvero.
Gli scoppiava la testa.
E nessuno rispondeva.
“QUALCUNO MI APRA O CHIAMO LA POLIZIA.” Si mise a
gridare, certo che la
minaccia avrebbe funzionato se qualcuno fosse stato in casa.
Niente, la porta rimaneva desolatamente chiusa.
Non seppe trattenersi, cominciò a pensare al peggio.
Recuperò il cellulare dalla tasca e riuscì
miracolosamente a comporre il numero
del servizio informazioni.
“Mi metta in contatto con...” si prese un secondo
per pensare, mentre la voce
del centralinista lo incalzava dalla cornetta. Se si fosse fatto male,
di certo
sua madre l’avrebbe portato all’ospedale
più piccolo, più nascosto, per evitare
problemi. “…l’ospedale più
piccolo nei paraggi.”
Benedì l’inventore del GPS, mentre
l’uomo cercava.
Partì a tutta velocità con un indirizzo ben
stampato in mente e terrore puro
che gli mangiava il fegato.
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Aprì
gli occhi, venendo accecato da tutto quel
bianco. Li richiuse il più in fretta possibile.
“Oh, finalmente sei sveglio. Bene, credo di poter andare,
ora, i medici mi
hanno costretta a rimanere almeno finchè non avessi aperto
gli occhi. Se hai
bisogno c’è l’infermiera, se non
è troppo occupata.”
Sorrise. Si era preoccupata per lui, come sempre. Era rimasta
nonostante gli
innumerevoli impegni che aveva di certo.
“Grazie, mamma.”
Socchiuse appena un occhio, ma lei era già andata.
Si allungò di lato, cercando la caraffa
dell’acqua, ed il dolore alla gamba gli
ricordò l’incidente.
Sentì la tristezza ed il dispiacere opprimerlo.
Non avrebbe più visto Robert, sua madre sapeva.
Ripensò con orrore a quando
gliel’aveva confessato, risucchiandogli tutta
l’aria dai polmoni.
L’aveva picchiato bene, quel pomeriggio, fin troppo. E non
poteva biasimarla,
sapeva dall’inizio che era sbagliato frequentarlo, eppure era
andato avanti
testardamente a vederlo. Se l’era cercata, niente di meno.
Gli aveva rotto una gamba.
Un prezzo minuscolo, per un errore così grande. Senza poi
contare il peso che
era stato portarlo all’ospedale ed ora il ricovero, la
vigilanza costante che,
era certo, sua madre gli aveva tenuto mentre dormiva. E, a giudicare
dall’orologio
attaccato alla parete e dal buio oltre la finestra, doveva essere stato
incosciente almeno un giorno. Troppi antidolorifici. Era certo che sua
madre l’avesse
fatto a fin di bene per fargli provare meno dolore, ma purtroppo aveva
di certo
sbagliato la dose.
Si rattristò pensando a lei seduta là ad
aspettare che aprisse gli occhi. Da
sola, annoiata.
Era solo un peso, e lei era così buona, gli voleva
così bene.
Si appuntò mentalmente di scusarsi, quando fosse tornata. E
ringraziarla di
nuovo per le cure.
Bevve avidamente, ritornando a posto sempre con qualche gemito causato
dalla
gamba. Gli faceva un male pazzesco.
Mentre si risistemava sui cuscini, un pensiero orribile lo
inchiodò. Lo avevano
visitato, lo avevano spogliato.
Avevano visto i segni.
Terrorizzato, provò a calmarsi pensando che di certo sua
madre aveva spiegato
ogni cosa. Avrebbe dovuto chiederle anche cosa avrebbe dovuto
confermare ai
dottori, in caso, quando sarebbe tornata. Se fosse tornata, era sempre
così
impegnata.
Si guardò intorno, cercando un qualcosa per passarsi il
tempo.
Poi tra i pensieri si infilò poco galantemente anche lui,
sgusciando qui e là.
Dopo la punizione non era riuscito a pensare a nulla, accecato dal
dolore, ma
avrebbe dovuto trovare al più presto una scusa per Robert.
Un motivo che
giustificasse il perché in futuro non si sarebbero
più visti nemmeno per
sbaglio.
Gli sarebbe mancato tanto, ne era certo, lui, i suoi grandi occhi
scuri, i suoi
capelli scompigliati. Ridacchiò appena, vedendoselo
perfettamente davanti, aperto
in uno di quei sorrisi letali.
L’aveva deluso. E non l’avrebbe rivisto mai
più.
Mentre si stendeva per provare a dormire ancora un poco, si
sentì infinitamente
triste.
Chiuse gli occhi, dicendo addio ad un pezzo del suo cuore.
[Mah.]
Volevo scrivere ed ho scritto nonostante abbia cominciato tipo
all’una.
E si vede, direi, Madonna santa che schifezza.
Bè, intanto si avvicina la grande svolta
muahahahahahahahahahahaha.
E… ah, la canzone è Bittersweet –
Apocalyptica ft. Ville Valo & Lauri
Ylonen, una meraviglia, ascoltatela, ve lo ordino *A*
Poi direi basta così, stasera sono di poche parole,
all’alba delle due vado a
dormire.
- G