La vostra
gioia è il vostro dolore senza maschera.
E quello
stesso pozzo che fa scaturire il vostro
riso fu più volte colmato dalle lacrime vostre.
Come
potrebb'essere altrimenti?
Più
a fondo vi scava il dolore, più gioia potete
contenere. […]
- Kahlil
Gibran, Il Profeta
Down Under
I. Australia
Una
Passaporta è capace di compiere un viaggio di cinquemila
chilometri in un minuto. L’esperienza può
risultare molto intensa ed avere
diversi effetti collaterali sulla salute dell’individuo (per
maggiori
informazioni, consultare la sezione ‘Effetti indesiderati del
viaggio in
Passaporta’). Per le persone in buona salute, è
raccomandato di non eccedere i
tremila chilometri nel corso di una singola tratta, e di astenersi dal
riprendere il viaggio in Passaporta per almeno un’ora.
Piccola
Guida del Viaggiatore
Ufficio
Passaporte Internazionali
Londra
‹‹
‹‹Sto
bene, davvero,››
borbottò Ron. Fu contraddetto subito dalla
maniera
sgraziata con cui si accasciò sul sedile. Il colore del suo
incarnato ricordava
vagamente il colore delle poltrone, e tra una sua rassicurazione e
l’altra che
no, davvero, stava bene, e che no, non aveva intenzione di bere la
pozione
contro la nausea, rimasero in quell’Ufficio per oltre
un’ora e mezza.
‹‹Ma
allora
qual è il piano esattamente?››
chiese
Ron dopo un po’, mentre addentava la seconda barretta di
cioccolata. Era una
qualità scura e fondente. Non si sarebbe detto ma a Ron
piaceva il cioccolato
speziato.
Le
veniva quasi da ridere. ‹‹È
incredibile, Ron. Sei riuscito ad aspettare fino a Sydney
per chiedermelo.›› Poi si guardò
attorno, e ammise che, bè, non c’era nessun piano
preciso. ‹‹Ho impiantato
nella memoria dei miei genitori che il loro sogno di tutta la vita
è sempre
stato vivere dalle parti di Sydney.››
Ron
diede una scrollata di spalle. ‹‹Dovrebbe essere
facile,›› disse. ‹‹Quanta
gente ci sarà da queste parti?››
‹‹Quattro
milioni?››
‹‹Ah.››
Ma
non sembrò scoraggiato. Gli era ritornato un po’
di sangue al viso, ed aveva un
angolo della bocca sporca di cioccolato; quindi si alzò, le
prese la mano e
annunciò che stava bene e aveva fame, e che, quindi, era
arrivato il momento di
lasciare il terminal.
Il
mezzo preposto ai collegamenti Ufficio-terraferma consisteva in una
cabina di
metallo sferragliante. Si ritrovarono a condividerla con una comitiva
di
ciarlieri maghi cinesi in vacanza. Una delle ragazze, una bellezza
occhi di
cerbiatta che ad Hermione ricordava straordinariamente Cho Chang,
sfruttò una
delle brusche curve della cabina per spalmare se stessa e il suo
aderente
vestito di seta su Ron.
Quando
finalmente decelerò in una lenta ascesa verticale fino alla
stasi, una
professionale voce femminile riempì la cabina.
‹‹Siamo arrivati a Toowong
Street. Premendo 2-4-8-8-6 riceverete in omaggio una mappa completa di
Sydney.
L’Australia vi da il suo benvenuto!›› E
partì un’incerta versione dell’inno
australiano, ma poi la registrazione iniziò a crepitare e si
zittì d’un colpo
con un piccolo schioppo.
Dall’esterno
la porta della cabina pareva una vecchia porta di metallo, arrugginita
e
sprangata, di uno stabile malandato in un vicolo maltenuto. La colonia
di gatti
randagi che aveva eletto Toowong Street sua dimora parve disturbata
dall’arrivo
dei maghi, e dai cassonetti appoggiati liberalmente ai muri
partì una sinfonia
minacciosa di fischi e sibili.
Erano
arrivati in Australia. Secondo una sua teoria maturata nel corso degli
anni, la
grande distinzione tra un viaggio Babbano e un viaggio magico, a parte
la
questione delle modalità, era la totale ed assoluta mancanza
di tutta quella
serie di piacevoli rituali che ricordavano al viaggiatore il suo
ingresso in
una realtà diversa da quella che aveva lasciato:
l’imbarco dei bagagli, il
lungo volo aereo, gli spaziosi, moderni aeroporti e le torme di
viaggiatori, i
controlli di sicurezza e, infine, il lungo, immaginifico viaggio
dall’aeroporto
alla città.
I
viaggi magici erano una questione più diretta: il mondo
intero era percorribile
con qualche scalo di Passaporta in poche ore; non c’erano
aeroporti, né grandi
folle, e i controlli di sicurezza erano più
un’eccezione che una regola; cabine
sferraglianti, navette ed autobus magici portavano nella
città prescelta nel
giro di pochi minuti, e bam, il viaggiatore o turista che fosse si
ritrovava in
un buio vicoletto, nella realtà concreta della
città, senza ammortizzatori.
Dieci ore prima erano a
Londra, e ora erano a
Sydney, in una stradina simile in ogni maniera ad una stradina
londinese, con
gatti e bidoni altrettanto simili a quelli lasciati in patria.
Furono
il buio pomeridiano e il fresco autunnale a ricordarle che avevano
cambiato
drasticamente il loro contesto. Avevano lasciato il mite, tiepido
maggio
inglese per l’autunno inoltrato australiano.
‹‹Immagino
che i Caraibi non andassero bene, eh?››
borbottò Ron, stringendosi di più la
giacca al collo.
Presero
la direzione opposta dei maghi cinesi e il loro energico
chiacchiericcio e
perlustrarono mano nella mano l’isolato, un gioiellino di
palazzine in stile
vittoriano. Prese da sole avrebbero potuto mantenere
l’illusione che non
avessero davvero lasciato l’Inghilterra, tuttavia la presenza
indiscreta di
alti grattacieli nella media distanza segnalava che, per quanto poco
frequentato fosse quel particolare isolato, non si trovavano in una
qualunque
cittadina inglese.
Elessero
loro bivacco una pizzeria di poche pretese, un locale caldo in stile
pseudo-rustico italiano-nostalgico, con i mattoni a vista e i poster
standard
de
Fu
solo lì che Ron, guardandosi attorno, si lasciò
andare contro lo schienale
della sedia e dichiarò con aria soddisfatta,
‹‹Miseriaccia. Sono in Australia.
E ho una fame che mi mangerei
un canguro.››
Alla
volta del loro albergo sotto la guida della mappa magica attraversarono
viali
popolosi e stradine minori, guardarono vetrine e osservarono le luci
della
città. Fu una camminata di quasi venti minuti, in cui si
sentirono tutti e due
irresistibilmente romantici, soli e all’avventura a Sydney,
ubriachi di quella
specie di gioia che coglie i turisti quando sono in una
città straniera,
godendosi la consapevolezza che in quella metropoli
dell’altro emisfero loro
non erano i compagni fedeli di Colui-Che-Ha-Vinto, eroi, liberatori,
guerrieri
per la libertà, e, a seconda della testata giornalistica,
quasi-martiri, ma
solo Ron Weasley ed Hermione Granger.
La
loro neonata storia d’amore era una questione che non era
stata dibattuta
intellettualmente. Erano scivolati nel nuovo ruolo di fidanzati come in
un paio
di vecchie, comode scarpe. Tutto era nuovo e allo stesso tempo
già familiare.
Il loro albergo era un
modesto ma elegante
quattro stelle che si affacciava su un piccolo parco cittadino. Il
parco era un
quadrato perfetto, con poca erba, molto ghiaino e un laghetto col ponte
di
legno, ispirato allo zen e all’urbanistica minimale. Dalla
loro camera, una piccola
suite al penultimo piano, con la carta da parati bianco crema e oro, se
ne
godeva una vista molto rilassante.
Ron
fischiò, ammirato. ‹‹Kingsley ci vuole
bene, eh?››
‹‹Ho
accettato il minimo indispensabile,››
replicò Hermione, vagamente infastidita,
lasciandosi cadere sul divanetto.
‹‹Sì,
e a quest’ora il Ministero della Magia australiano avrebbe
potuto fare tutto il
lavoro per noi, senza che ci sforzassimo di cercarli in tutta Sydney.
Non ho
ancora capito esattamente perché hai rifiutato il suo
aiuto.››
Hermione
sbuffò. ‹‹Solo perché avrei
potuto chiederglielo non significa che avrei
dovuto. E poi,›› aggiunse, lanciandogli
un’occhiata significativa, ‹‹abbiamo
trovato l’impossibile, no? Scommetto che trovarli
sarà una passeggiata.››
Ron
non disse nulla, ma sbadigliò e si passò una mano
sugli occhi, quindi annunciò
che avrebbe fatto una doccia e, soggiunse un po’
nervosamente, si sarebbe
infilato sotto le coperte.
Hermione
lo seguì con lo sguardo finché non si fu chiuso
in bagno. Quelle ultime due
settimane avevano infuso dentro di lui una nuova qualità, Harriesca, se così si poteva
definire; quella specie di
indescrivibile ma tangibile emanazione di stanchezza, rigata da
fiumiciattoli
di malinconia e pensieroso silenzio che negli anni era diventata
così caratteristica
del loro migliore amico. “Harry si sta comportando da
Harry,” avevano detto
tante volte, quando lo vedevano scomparire su per le scale del
dormitorio con
le spalle basse. Bè, ora era Ron a ‘comportarsi da
Harry’. Aveva amato Fred, e
non dimenticava il suo ultimo sorriso, ma il dolore provoca misteriose
sconnessioni tra chi è in lutto ufficiale e chi, per un
motivo o l’altro, si
trova solo alla periferia di quel dolore.
In Ron quel dolore aveva
scavato macchie
grigie sotto gli occhi. Nonostante lo avesse visto piangere solo una
volta, al
funerale di Fred, aveva gli occhi sempre rossi.
Si
era confidato con Harry, lo sapeva: li aveva sentiti conversare a
lungo, prima
di dormire. Erano bisbigli quieti ed interminabili oltre la porta dai
quali lei
era esclusa. Forse era una di quelle stupide cose da uomini, nascondere
alla
Donna il dolore. Non era virile e tutto il resto. Da lei Ron aveva
chiesto un
altro tipo di conforto: abbracci, baci agitati da quattordicenni alle
prime
armi. Dopo qualche risposta evasiva non aveva avuto il coraggio di
insistere
che si aprisse di più con lei.
Ron
aveva la pelle delicata. Dopo la doccia era sempre arrossata e
incredibilmente
morbida. Le piaceva l’odore della sua pelle
quand’era così fresca (ma, doveva
ammettere, le piaceva anche l’odore del suo sudore, per
quanto strano potesse
sembrare), ma toccarla, sotto le coperte di un letto vero, senza la
supervisione di nessuno, le provocava capriole nello stomaco,
mancamenti
d’aria.
Ron
non notava. Stava guardando con espressione serena il soffitto.
‹‹Forse sono
stanco, forse sono ubriaco, ma questo letto è bello quasi
quanto quello a
Bombay.››
‹‹
Mumbai,
Ron, ora si chiama Mumbai,›› lo corresse
Hermione, accoccolata sul suo petto,
in ascolto del suo cuore. Quella sera non aveva molta voglia di
pensare.
L’indomani avrebbero incominciato le loro ricerche, e non si
sarebbe sorpresa
se li avessero trovati entro la giornata; poi ci sarebbero stati anche
i suoi
genitori, e tante spiegazioni da dare. Quella era forse
l’ultima sera, prima di
chissà quanto tempo, da trascorrere nell’assoluta,
indisturbata compagnia l’uno
dell’altra.
‹‹È
strano essere qui, eh?›› chiese Ron, vago,
accarezzandole la nuca. ‹‹Me
l’aspettavo diverso.››
‹‹Canguri
per strada e koala sugli alberi in centro?››
Sentì,
con qualche nuovo senso che aveva sviluppato da poco, che Ron aveva
sorriso.
Forse era quella lieve espirazione dal naso, quella provocata dalla
contrazione
dei muscoli del viso.
‹‹Più
o meno,›› rispose
Ron.‹‹Qualche emu, qualche
liana…››
‹‹Un
po’ di deserto…››
‹‹Anche.
Per scenografia.››
Hermione
gli diede un piccolo colpo al petto, divertita.
Le
piaceva stare lì con Ron, i piedi puntati contro gli stinchi
di lui.
‹‹Secondo
te avremmo dovuto insistere con Harry?›› chiese
ad un tratto. ‹‹Magari a quest’ora
si sarebbe divertito.››
‹‹Oh,
sì. Sono sicuro che si sarebbe divertito un mondo a stare
proprio qui, nel letto con
noi,›› rispose Ron.
Rise
suo malgrado. ‹‹Lo sai che non intendevo
quello.››
‹‹Bè,
se vuoi il mio parere, lo sai com’è Harry. Non
sarebbe venuto comunque, per non
essere ‘di troppo’. L’idiota si
è messo in testa quest’idea
-››
‹‹
-
classico Harry - ››
‹‹
-
e poi immagino che se vuole un po’ di divertimento, Ginny
-››
‹‹Ron…!››
‹‹Cosa?
Non ho detto nulla!›› esclamò lui. Le
sembrò di sentire la temperatura della
sua pelle aumentare. Era arrossito?
Rimasero
in un confortevole silenzio per qualche minuto. Avevano deciso di non
bere
‹‹Come
te li immagini?›› chiese Ron alla fine, iniziando
a giocherellare con uno dei
suoi ricci. ‹‹I tuoi genitori,
dico.››
‹‹Credo
più felici di come li ho lasciati.››
‹‹Erano
tristi, prima?››
Dovette
sopprimere l’istinto di ridere. Lo chiedeva come se i Granger
fossero dei
malinconici di natura.
‹‹Mmm,
non lo so. C’è stato un periodo in cui le cose
erano andate male tra di loro.
Volevano divorziare, ecco.››
‹‹Oh.
Mi dispiace,›› disse Ron.
‹‹Ma ora va tutto bene,
giusto?››
‹‹Sì,
credo di sì.››
Non
gliene aveva mai parlato; quell’argomento lo aveva accennato
solo ad Harry. Era
difficile esprimere il senso di colpa, di fallimento, quella paura di
non
conoscerli più. Ne aveva parlato con Harry in tenda, durante
quell’anno, una
sera in cui erano stati particolarmente tristi e avevano bevuto ed
erano
insieme sotto le coperte, scambiandosi saggezze del momento e speranze
per il
futuro. Harry era stato pessimista e sarcastico e poi lei aveva
iniziato a
parlare dei suoi genitori. Harry aveva detto che gli dispiaceva e
avevano
buttato giù un altro giro di vodka da supermercato.
‹‹Ogni
tanto non mi sento più parte del loro mondo. Ma immagino che
sia così per tutti
i nati-Babbani. Prima o poi devi scegliere, no?››
‹‹Tu
fai parte del mio mondo,›› disse Ron. Le parole
risuonarono profonde ed
appassionate al buio.
Hermione
sorrise contro il suo petto. ‹‹Oh, molto
romantico, Ron.››
‹‹Lo
dico davvero. È una di quelle cose per cui abbiamo lottato
quest’anno, no?››
Ogni
tanto Ron aveva dei momenti in cui pareva l’uomo
più sensibile e accorto del
mondo, un cucchiaino tramutatosi in un poeta, o qualcosa di simile. Lo
baciò
piuttosto felicemente, e funzionò a conciliare loro il
sonno, forse, perché scivolarono
nel mare dei sogni.
Fu
un
mare tempestoso.
Le
parve di sognare qualcosa di brutto ma stupido, come quel ragazzino
della sua
classe che la prendeva in giro alle elementari. Si chiamava Christopher
Grube,
ed era un arrogante e un presuntuoso. Non era mai stata molto popolare
con gli
altri bambini, ma Grube, quel piccolo animale in divisa da scuola
privata,
aveva subodorato qualcosa. E non gli era mai piaciuta.
‹‹Granger,
Granger,›› cantilenava.
‹‹Strana
Granger…››
E
poi
si avvicinava, ed arrivava sempre più vicino,
finché non era così vicino da
urlarle nell’orecchio ‹‹Granger, Granger!››
E
quando le parve che stesse per perforarle un timpano la svegliarono dei
calci.
‹‹Ron!››
Si
dimenava, roteava i pugni e piangeva nel sonno; ma non sembrava
riuscire a
parlare. Le parole gli morivano in gola come dei ringhi, ma a sprazzi
sembrava
riuscire a comporre delle parole, una sequela di
‘no’ disperati e un ‘dalla a
me’ appena sospirato. Un’occhiata
all’orologio sul comodino la informò che
erano le quattro del mattino. Fuori dalla finestra c’era
ancora buio pesto.
‹‹Svegliati,
Ron, svegliati… Ron!››
Cercava
di evitare le sue gomitate, ma poi si arrestò, ebbe un
sussulto e spalancò gli
occhi. Aveva il volto tutto bagnato di lacrime, e la fissava come se
fosse un
fantasma. Tremava, terrorizzato alla follia.
‹‹Cosa…››
‹‹Era
un sogno. Solo un sogno.››
Ron
prese un paio di boccate d’aria e scosse la testa, come per
schiarirsela. Si
guardò da un lato e dall’altro come un animale
impazzito, poi si rilassò contro
il materasso e la guardò di nuovo.
‹‹Scusami,››
le disse, allungando una mano verso il suo viso.
‹‹Ti ho fatto male?››
‹‹No,››
mentì Hermione. ‹‹Cosa stavi
sognando?››
‹‹Nulla.
Io – uh, non ricordo -››
Hermione
lo squadrò bene, dritto in volto.
‹‹Cosa hai sognato, Ron?››
‹‹Nulla
– è – è una cosa
stupida.››
‹‹Raccontamela
lo stesso.››
Il
ragazzo deglutì sonoramente e si passò una mano
per i capelli, arruffandoli
ancora di più. Si asciugò la faccia furiosamente
con il dorso della mano, e,
nel buio, ad Hermione diede tanto l’impressione di un bambino
spaventato.
‹‹Sogno
sempre che uso
*
Note
dell’Autrice
Buonsalve a
tutti! Mi ripropongo con una long di
cinque capitoli bella canon. Prossimo aggiornamento il 9 agosto :) La storia partecipa al contest
Ron&Hermione di
Sara_Marauder sul forum di EFP. Spero vi piaccia :)
Per la
sezione ‘trivia’: Bombay cambiò il suo
nome
in Mumbai nel 1995. Diciamo che la lacuna di Ron era comprensibile ;)