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Autore: LadyofDarkness    02/04/2006    3 recensioni
Non ci si può sottrarre alla nostra condanna. Essa è il nostro unico destino. E’ ciò che è stato, è e sarà. Per sempre.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Condanna – My only Destiny

 

 

La prima volta che era successo avevo dieci anni. I ricordi sono qui, nella mia mente, che urlano e si dibattono per uscire fuori quando meno me lo aspetto, per ricordarmi che così è stato, così è, e così sarà per sempre.

Alcuni episodi restano nebulosi, celati tra mille altri pensieri, altri invece sono lì, vividi, le immagini così perfette ai miei occhi da farmi credere di starle vivendo ora, ancora e ancora e ancora.

Una dannazione che non avrebbe avuto mai fine.

Ma quello che in realtà mi colpisce sempre sono le sensazioni, così vivide, così assolutamente e terribilmente intatte che mi dilaniano il cuore ogni volta, mentre le lacrime che non posso più versare sembrano voler rompere gli argini che la mia mente ha dato loro, inondandomi il volto, amare.

Uno sfogo che in realtà sa solo di angoscia… no… di disperazione.

Nessuna speranza per me.

Nessuna voglia che essa si affacci nel mio cuore. Perché per lei non vi è posto, non vi è alimento alcuno.

Una fiammella che non attecchirebbe, relegata ad un gelido angolo del mio animo, che finirebbe per trasformarsi in cristallo e morire soffocata in esso.

E la paura è lì, subito dopo, pressante.

Paura e consapevolezza.

Perché so che quello è il mio destino, perché so che ciò accadrà anche a me.

Una condanna scritta nel mio sangue, che aspetta solo di essere messa in atto.

La prima volta che successe avevo dieci anni, e mio padre mi strinse le braccia intorno alle spalle, facendomi affondare il volto nel suo petto, cercando di nascondermi quella vista, chiudendo la porta per non farmi ascoltare quelle urla, quelle bestemmie verso un Dio a cui io avrei tanto voluto credere, verso un Signore che diceva la avesse abbandonata.

Spergiuri, terribili minacce, sconcezze non adatte alle orecchie del bambino che ero, e che non avrei mai associato a quelle morbide labbra che tante volte si erano posate sulla mia fronte quando, malato, non riuscivo a dormire.

Quella presenza che mi aveva sempre cullato, e che ora non sapeva neanche esistessi.

Mio padre non ne era eccessivamente sorpreso.

Ne era raccapricciato, certo, ma non certo meravigliato. Leggevo rassegnazione della più completa nel suo sguardo. E ciò mi faceva ancora più orrore.

«Padre mio, che succede a mia madre?» la piccola voce di un bambino, che tremula vuole sapere perché tutto quello, perché quel dolore.

«Sta male. E’ meglio non disturbarla» l’unica risposta che ottenni.

Non so come fosse cominciato, non so neanche perché.

A volte sono convinto sia stata colpa mia, che sia stata una punizione per qualcosa che avevo fatto. A volte sono convinto di esserne stato la causa scatenante, per motivi che mi sono oscuri, ma che forse per la mente della mia genitrice sono nitidissimi.

Ogni rumore che sento provenire dalla sua stanza mi fa rabbrividire.

Ogni piccola risata mi fa tremare.

E quei sussurri… Merlino, quei sussurri sembrano trapanarmi la mente, impedendomi di concentrarmi su qualunque altra cosa.

Ci sono solo loro, e la loro insensatezza.

E l’odio che provo per essi, per lei, e per me stesso.

Per me stesso, senza una ragione apparente, senza un reale motivo. Chissà, magari è un modo come un altro per cercare di lenire quel senso di vuoto che mi pervade ogni volta.

Non lo so come sia cominciato tutto.

Non lo ricordo, ma ben viva in me è la sensazione delle lacrime che cercavano di salire ai miei occhi. Ma non dovevo piangere. Non dovevo.

La prima volta fu la più terribile.

Due anni durò… due anni di segreto, due anni in cui non riusciva neanche a riconoscermi.

A riconoscere me, suo figlio, sangue del suo sangue, sua creatura.

Ero una parte di lei, cresciuta nel suo ventre, che lei aveva messo al mondo… e non mi riconosceva.

Le sue urla erano spaventose, raccontavano di simili vergogne che io non sapevo neanche potessero esistere.

Ma non dovevo piangere.

Ricordo una volta che mi avvicinai a lei. Sembrava quasi stare meglio quel giorno. Era lì, immobile, seduta sul letto, rivolta di schiena alla porta, e sembrava stesse cercando di guardare qualcosa fuori dalla finestra, al di là dei tendaggi lilla della camera.

Volevo solo sentire nuovamente le sue braccia stringermi, volevo avvicinarmi, farmi rassicurare che fosse tornato tutto apposto, che quella strana malattia di cui imparavo a conoscere ora l’esistenza fosse guarita, facendo tornare quel sorriso tanto dolce sul suo volto.

«Madre…»

Un semplice sussurro che seppe scatenare il putiferio.

Lei, come una belva ferita si voltò verso di me, gli occhi spalancati, spiritati, un urlo atto a scacciarmi che si spandeva dalla sua bocca distruggendomi i timpani, il volto sfatto come se fosse invecchiata tutta assieme, in un solo istante.

Fu quel giorno che la speranza in me per la prima volta si affievolì. Da quel giorno smisi di desiderare abbracci da lei, smisi di bramare con tutto me stesso una dimostrazione di affetto di qualunque genere.

Una dimostrazione d’affetto che sapevo non sarebbe mai stata fatta.

Smisi di vedere in lei l’affettuosa madre che mi aveva tante volte abbracciato, le cui labbra fresche sulle mie guance mi facevano sorridere.

Quel giorno abbandonai tutte le mie illusioni, e crebbi.

Crebbi, perché non avrei potuto fare nient’altro.

Furono due anni d’inferno, in cui non volevo neanche avvicinarmi alla sua camera, e tutte le volte che la incrociavo per i corridoi finivo per tremare di disgusto sentendo i suoi sibili, quelle conversazioni che aveva con il nulla, mentre gli occhi si puntavano a terra, e non mi notavano neanche.

E poi, sotto le cure che le fece avere mio padre, sembrò guarire. Sembrò in parte riuscire calmarsi, tornare in sé, recuperare un briciolo di sanità mentale che in tutto quel tempo le era mancata.

Eppure avremmo già dovuto capirlo che non sarebbe potuto durare. Avremmo già dovuto leggere i segnali che lei ci inviava involontariamente.

Non mi aveva più sorriso in quella maniera che da bambino mi aveva sempre fatto sentire così amato. O chissà, magari quegli episodi nel ricordo si erano colorati di una dolcezza che non era mai realmente esistita.

Un sollievo che durò appena un anno, e poi di nuovo l’incubo.

Perché la follia non può essere dimenticata in questo modo. Non sparisce, non può farlo. Resta lì, a corroderti la mente, nascosta, facendosi dimenticare, facendoti credere che non è mai stata e che mai sarà.

Agguantandoti sul più bello.

I miei castelli di sabbia, le mie illusioni ancora neonate vennero nuovamente spazzate via dalla mareggiata che è la delusione. Ma questa volta faceva decisamente meno male.

Periodi di calma si intervallavano con i suoi ritorni alla follia, come brevi parentesi crudeli, che sembravano non avere altro scopo se non far ricordare quanto si era perso, quanto non sarebbe tornato.

E quel fastidio quasi fisico nel vederla in simili condizioni tornava ogni volta, mi impediva di rivolgerle la parola, di posare anche solo per un istante gli occhi su di lei.

Per quale ragione avrei dovuto osservarla? Solo per poterne contemplare la follia? Solo per poter vedere quanto mi rimaneva del passato?

Ormai ero cresciuto, e la consapevolezza che mai nulla sarebbe tornato come prima era coscienza inevitabile per me.

Come fu inevitabile per me notare come, nella “nobile ed antichissima” casata dei Black sembrasse decisamente normale lo squilibrio mentale.

E non si trattava di casi come quello della mia “adorabile” prozia Walburga, con la sua fissa per la purezza del sangue e per la sua famiglia, propria di tutti gli appartenenti a casate Purosangue.

Era follia pura, squilibrio mentale, che si traduceva in violenza, sadismo, depressione…

Era la follia della zia Bellatrix, di Sirius, di Elladora… di mia madre.

La mia follia.

Oh, perché lo sapevo… lo percepivo nei miei pensieri, nelle mie azioni.

Vedevo il mio ingegno corrompersi lentamente. Lo percepivo nei miei sbalzi d’umore, nelle frasi  a volte preoccupate a volte scherzose dei miei amici, lo leggevo negli occhi di mio padre…

Lo vedevo nei miei occhi, quando mi specchiavo. Quando vedevo quell’ombra oscura, quell’opacità calare su di essi.

Ed era terribile rendersene conto ogni secondo di più.

Sapevo quale sarebbe stato il mio destino… perché ormai si stava già compiendo.

Ma tutto ciò ormai non è importante… anzi, forse sarebbe stata addirittura una liberazione.

Una liberazione da me stesso.

Perché una mente ottenebrata non sa… e dalla mancanza di consapevolezza non può generarsi il dolore, ma solo un completo mare di nulla.

«Draco Malfoy… allunga il braccio»

La bacchetta sulla mia pelle bianca, l’arto proteso davanti a me, lo sguardo fisso negli occhi rossi dell’essere a cui mi stavo votando.

E la pazzia che già alberga in me.

Perché non ci si può sottrarre alla nostra condanna.

Essa è il nostro unico destino.

E’ ciò che è stato, è e sarà.

Per sempre.

 

The End

 

 

Mmmmmh… ennesima ff senza senso partorita in uno dei miei tanti momenti di depressa follia.

Che dirne? Mah… che è stata partorita prima di un compito di Fisica e quindi credo di poter essere giustificata.

Credo ^^;;;

 

A parte gli scherzi, che ve ne pare? Sarò grata a chiunque mi lascerà un parere, e ringrazio tutti coloro che hanno commentato le altre mie one-shot e continuano a leggere le mie long-fic.

Non sono sparita, lo giuro ^^; semplicemente pondero un po’ di più sui capiti ^^;;;;

 

Grazie mille a tutti voi, un bacione

 

Marcycas – the Lady of Darkness


Nota al 31/07/2014: Se voleste leggere altro scritto da me, ho pubblicato un libro a quattro mani che potrete trovare a questo link http://www.amazon.it/Guilty-Pleasure-Ludovica-Valle-Marcella-ebook/dp/B00K37549M. Dateci un'occhiata mi raccomando!
  
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