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Autore: Midvas    23/02/2004    1 recensioni
Un elfo e sua cugina mezzelfa si trovano lontani dalla loro foresta natia, a cui stanno facendo ritorno. I loro caratteri non sono del tutto compatibili e le avventure sul loro cammino possono essere varie... Nuovi incontri, nuovi sentieri, misteri e magie, sfociano in questo racconto ambientato nel Forgotten Realms.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1 – DI RITORNO DA WATERDEEP Il silenzio era pacatamente rotto solo dal leggero, quasi impercettibile, passo di due creature sulla Long Road.
Pareva ci fosse armonia fra loro e che fosse per la loro stupenda intesa che non correva nemmeno una parola a disturbare la quiete esistente, ma la realtà era ben differente. Si trattava di una mera impressione, che non nascondeva rancori profondi, ma che risultava essere la classica fine dell’ennesimo battibecco fra i due cugini. La bellezza tipica della razza elfica non veniva scalfita agli occhi inesperti dei pochi viandanti che li incontravano, ma se uno avesse osservato più attentamente, avrebbe notato un lieve arricciamento della bocca di Helian, il quale scordava molto più lentamente i propri crucci, probabilmente a causa del suo sangue puro.
All’apparenza i suoi occhi blu trasmettevano la tranquillità tipica della sua razza e i capelli bianco-argentei, memori delle lacrime di luna che scorrevano in lui fin dai tempi della guerra fra Corellon e Gruumsh, parevano infondergli un’aura di saggezza e di superiorità, sembrava incapace di adirarsi per delle sciocchezze. Quelle proferite dalla cugina, però, erano perfettamente in grado di fargli perdere il controllo!
«Suvvia, è dall’ultimo villaggio che non apri bocca!» sbottò lei ad un tratto, con un sorriso divertito sulle labbra «Sei ripetitivo, ogni volta fai la stessa sceneggiata»
«Se ti annoia così tanto, perché non fai a meno di parlare a sproposito?» lui le lanciò un’occhiata di traverso, senza scomporre la posizione aggraziata di cui andava fiero. Tutto in lui dava ridondantemente testimonianza della sua origine, anche le vesti blu morbide e leggere come la seta, ma resistenti come il cuoio lavorato, erano portate secondo le antiche usanze. Chiaramente il suo lignaggio era per lui motivo di vanto, e negli anni aveva sviluppato un’abilità particolare nell’ostentarlo; spinto anche dalla continua rivalità con la cugina, alla quale non perdeva occasione di rinfacciare la sua chioma del colore del fuoco. Anche lei aveva orecchie a punta e lineamenti sottili, ma non così perfetti, e nonostante i suoi movimenti fossero molto aggraziati, non avevano la stessa morbidezza di quelli del suo compagno di viaggio.
«Ti da fastidio essere più basso di me, neh?» lo canzonò ancora con evidente soddisfazione, prima di intonare una nenia che li accompagnasse nel viaggio. Forse la sua voce poteva essere meno modulata, ma il suo accento rendeva più bella quella melodia.
Helian incassò, dato che non aveva molti argomenti da aggiungere: le aveva rinfacciato di tutto da quando erano partiti tempo addietro per quel viaggio che malediva fra sé e sé. Sospettava di essere stato obbligato a fare quella spedizione dai contorni diplomatici per fargli aprire la mente, che tendeva ad essere un po’ troppo arrogante. Da millenni gli elfi preferivano restarsene nelle loro foreste, circondati dalla natura più incontaminata, a rimembrare il passato e a bearsi del tempo che passava infliggendo loro ben pochi segni. In lui queste caratteristiche eran sempre state accentuate, ma avevano assunto carattere di morbosità con la nascita della cugina. Lei era cresciuta in fretta, arrivando ben presto alla sua stessa maturità mentale e fisica acuendo il suo senso di diversità. Il sangue umano di Lethia, ereditato dal padre, era stranamente elogiato tra gli elfi con cui aveva vissuto, perché la contraddistingueva come una rosa rossa fra decine di delicati lilium.
«Vedere il mondo ti farà bene» udiva ancora la voce della zia spronarlo. Non gli era stata mai raccontata la storia a causa della quale lei aveva messo al mondo una mezz’umana; effettivamente non se n’era nemmeno interessato, ma non gli risultava che se ne parlasse frequentemente. «E mi raccomando, fa attenzione a Lethia, che non le succeda niente di male» Queste erano state le ultime parole giunte alle sue orecchie prima di lasciare Silverymoon, ma presto avrebbe potuto tornare nell’abbraccio confortevole della sua foresta: ormai erano di ritorno! Si ricordava talmente bene di ogni singolo ramoscello della sua zona, che avrebbe sicuramente notato uno ad uno tutti i cambiamenti avvenuti in sua assenza. Per quanto il tempo scorresse lento per gli elfi e il loro viaggio fosse da considerarsi una breve parentesi nella vita di Helian, non vedeva l’ora di tornare nella sua foresta e in un certo senso si poteva dire che non ne fosse mai uscito. Si era creato una sorta di impermeabilità al mondo esterno, tale da non osservare nemmeno quello che succedeva lontano da casa sua: i suoi occhi vedevano giusto il tanto che gli serviva per non inciampare ed erano sempre coperti da un velo di memoria dell’ambiente a lui più caro.
La cugina, al contrario, aveva avuto modo di apprezzare la varietà dei villaggi umani che costellavano la Long Road, aveva stretto amicizia con gli elfi della Grande Waterdeep, escluso ovviamente chi, suo malgrado, si era accorto del quasi involontario vizietto della mezz’elfa, ma data la sua bravura non erano in molti ad entrare in questa lista. Era dotata di una curiosità senza pari, che la stimolava a conoscere gli altri modi di vivere, a scoprire cose nuove, ad interessarsi di ogni ombra di mistero che le venisse prospettata. Ciò probabilmente costituiva la molla che scatenava quello che per gli altri era il suo principale difetto, benché lei ne andasse ugualmente orgogliosa. La primavera accennava appena il suo arrivo, tramite un primo timido risveglio di qualche pianta che osava far spuntare sui rami più esterni delle foglioline di un verde luminoso, tale e quale agli occhi di Lethia, che stava ancora canticchiando. Per un momento il cuore di Helian rimosse l’irritazione e gli fece comparire un timido sorriso sul volto: «I tuoi occhi sono sicuramente elfici» esclamò.
Lei sorrise di rimando, accogliendo quelle parole come un complimento, sebbene sapesse come controbattere se avesse voluto portare la discussione su terreni più animati. Helian vedeva come positive solo le qualità che riguardavano gli elfi e non c’era verso di fargli cambiare idea; i loro battibecchi avevano anche la funzione di spronarlo ad aprire un po’ il suo modo di vedere, oltre che divertirla, ma si erano tutti rivelati completamente inutili: lui sarebbe tornato a casa così com’era partito, senza che il viaggio lo avesse in qualche modo cambiato. Ad un tratto un rumore di stivali che battevano velocemente contro il selciato si fece sentire alla loro sinistra e da una strada secondaria videro scendere un uomo alto dai capelli nerissimi. Portava uno zaino piuttosto grande sulla schiena, che dava però l’idea di essere quasi vuoto. Attaccata alla cintura c’era una bisaccia, ma dalla forma Lethia suppose che non contenesse né un’arma, né qualcosa per ristorarsi. Delle gocce di sudore gli imperlavano la fronte, anche se il tratto che stava percorrendo era in discesa, dato che aveva già superato la cima di una collina. La mezzelfa esaminava l’estraneo senza smettere mai di rallegrare l’aria circostante con i suoi motivi musicali, fino a che le loro strade non s’incontrarono. A quel punto diede le note finali e si rivolse all’uomo in linguaggio comune: «E’ un peccato avere tanta fretta in una giornata così radiosa».
Di primo lui non capì nemmeno che la giovane si stava rivolgendo a lui, ma una parte blandamente consapevole nella sua mente lo portò a rispondere, seppur con ritardo. Era nervoso, per la prima volta in vita sua aveva un incarico ufficiale e aveva tanta paura di non portarlo a termine, per errori propri o per volere del fato. Diffidava di ogni persona sulla sua strada, temendo innanzitutto di combinare qualche danno inconsapevolmente, e, in seconda battuta, temendo che si trattasse di malintenzionati pronti a rovinare la sua missione, motivo per il quale questa era segretissima.
«Nessuna fretta» mentì poco credibilmente e cercò di trovare qualcosa di più convincente, per non insospettire i due sconosciuti. Notò che solo lei gli aveva prestato attenzione… a prima vista gli era sembrata un’elfa, ma quel colore dei capelli era troppo inusuale perché lo fosse. Era troppo acceso, mentre a partire dalla carnagione stessa gli elfi parevano voler diventare trasparenti. Inoltre era piuttosto alta. Curioso, nessun altro particolare sembrava distinguerla dalla razza elfica. L’uomo dette un’occhiata anche all’altro viandante, non trovando segni umani in lui, ma nemmeno un cenno di saluto.
Una scusa, doveva trovare una scusa e non insospettire nessuno!
«Non di arrivare a sera perlomeno. La Vostra voce melodiosa mi incantava e non vedevo l’ora di essere più vicino a Voi per udirla meglio». Lethia fece finta di crederci, ma era conscia del fatto che l’uomo non poteva che aver sentito le ultime note della sua cantilena, mentre il suo affanno durava da prima. Era assolutamente intenzionata a non lasciarsi sfuggire questa preda: finalmente avrebbe avuto qualcosa d’interessante fra le mani! L’espressione del suo viso si fece quasi timida e imbarazzata dal complimento, mentre in realtà tentava di indovinare cosa c’era all’interno di quella bisaccia. Gli occhi neri dell’uomo tradivano un segreto, ne era certa.
«Volete che canti ancora per Voi?»
L’uomo sembrava ancora soprappensiero, tanto che anche ora la sua risposta arrivò con un certo ritardo. «La strada è ancora lunga, una melodia può renderla meno faticosa» Le sue parole non erano sciolte, si vedeva che non era abituato ad avere contatti sociali e questo incuriosiva ancora di più Lethia, semmai ci fosse stato bisogno di un motivo per intrigarla.
Il cugino, da parte sua, era totalmente indifferente, veniva da chiedersi se si fosse accorto di aver acquisito un nuovo compagno di viaggio.
Le ombre dei tre viandanti si allungavano sulla Long Road, segno che il sole stava cominciando a scendere dal suo culmine; Lethia tentava di infondere fiducia in quell’uomo, per essere sicura che rimanesse con loro per un bel pezzo di viaggio. Era divertente punzecchiare suo cugino, ma il suo desiderio di nuove esperienze la spingeva sicuramente più in là. Con lui era tutta una routine, nulla che cambiasse, sempre i soliti argomenti, esclusivamente sulla nobile razza, le solite visioni del mondo: a cosa serviva essere tanto longevi se poi si guardavano sempre le stesse cose?
L’uomo era alto, con vestiti logori e poveri a confronto delle vesti elfiche, raffinate e lucenti. Un lembo della sua casacca era stato a contatto col fuoco, una bruciatura grande quanto una mela ne era l’evidenza. Il suo viso era burbero, senza cattiveria, ma anche senza buonumore. Stava combinando qualcosa… ma probabilmente non si sentiva a suo agio. Ciò non faceva che aumentare la curiosità della mezzelfa.
«Dalla collina si vede il mare?» domandò di punto in bianco, desiderosa di conversare con qualcuno che non avesse le orecchie a punta.
«Hm? La collina?» si mise istintivamente sulla difensiva l’uomo, seguendo inconsapevolmente il cliché immaginato dalla rossa. Avendo sospettato che lui nascondesse un segreto, si aspettava un atteggiamento restio a parlare e pronto a negare ogni evidenza che lo riguardasse, per paura di venire scoperto.
Sorrise: «Stavate scendendo da una collina quando ci siamo incrociati».
«Oh, sì, è vero… non lo ricordavo più» disse prima che il silenzio li circondasse ancora, con la mera eccezione del rumore degli stivali e del cinguettio isolato di qualche volatile che era tornato prima dalla migrazione e non aveva paura di mostrarsi.
«Allora, si vede il mare dalla collina?» tornò all’attacco Lethia, che non si scoraggiava tanto facilmente. Continuò a parlare, tentando di metterlo più a suo agio; chissà mai che dandogli il buon esempio non si sciogliesse anche la sua lingua?! «Noi veniamo da Waterdeep, è stata la prima volta che ho visto così tanta acqua tutta assieme. Non credevo possibile che ce ne fosse così tanta mescolata, tanta da poterci navigare sopra». Seguì un momento di silenzio, in cui la mezzelfa sperò di avere la sua risposta, anche se la questione non era essenziale per lei. «Ne avevo sentito parlare, è chiaro, ma fino all’anno scorso avevo visto solo splendidi ruscelli»
L’uomo ascoltò, ma rimase estasiato dall’accento elfico che Lethia inseriva inconsapevolmente nel linguaggio comune e si dimenticò nuovamente di rispondere. La sua mente era occupata quasi per intero dalla sua missione e non c’era spazio per altro, nemmeno per una cosa così semplice come una conversazione sul paesaggio o sul tempo.
«Voi dove siete cresciuto?» domandò per il momento per niente soddisfatta dalla piega che aveva assunto il cammino. Lei che cantava, lei che parlava… tanto valeva essere davvero sola. Tsk! Prima che la sua allegria si tramutasse in cattivo umore, la voce dell’uomo risuonò nell’aria.
«Sì, si vede il mare dalla collina. Da lassù sembra un’enorme distesa verde, ma non ho avuto molto tempo per rimirarlo» rispose alla domanda precedente. Questa frase doveva essergli costata minuti di intensa riflessione, realizzò Lethia con tono di scherno nella propria mente. «Come mai?» incalzò lei, ripresasi prontamente d’animo. «Ehm… non sono molto poetico» tentò di far cadere il discorso lui.
Helian intervenne allora per la prima volta, ma anche se ai sensi umani il tono elfico era sempre armonioso, le sue parole non erano poi tanto amichevoli: «La poesia è un sentimento troppo alto per potervi accedere con mente e cuore umani».
Confidando nella lentezza di comprensione dell’uomo, Lethia sviò il discorso. Per Corellon Larethian! Ma suo cugino voleva sempre a tutti i costi distruggere ogni contatto col mondo esterno?
«Allora sei ancora vivo» esclamò «Pensavo fossi stato mangiato dalle tarme e che loro stessero proseguendo il viaggio per te. Tarme che gradiscono il legno vecchio, come sei tu dentro nonostante le apparenze». Al contrario di quel viandante incontrato poche ore prima, la lingua della mezzelfa era molto sciolta. Fin troppo per i gusti del cugino.
Xilth, così si chiamava l’uomo, non aveva inteso una parola, o meglio, non aveva inteso lo scorrere delle battute, preso com’era dal costante pensiero di ritornare da Obito al più presto e senza far danni. Ciò richiedeva la sua più completa concentrazione, per poter controllare se stesso e il mondo circostante al meglio. Le sue conoscenze erano ancora molto misere, perciò doveva compensare con l’attenzione. Inoltre, nella sua vita erano sempre mancati i battibecchi, isolato com’era stato dal mondo civile. Era arduo per lui interpretare il rapporto che legava quei due elfi e non gli interessava molto: gli bastava che fossero innocui e gli elfi di solito lo erano.
Lethia intanto si domandava se fra qualche minuto sarebbe arrivata la risposta successiva. Certo che era caduta male anche col secondo compagno di viaggio: era lento come il peggiore dei deficienti! Però qualche segreto lo aveva… ne era certa ed era più che desiderosa di scoprirlo. Come sempre del resto: non c’era mistero che non la attirasse! Si voltò per guardare il punto da cui erano partiti quella mattina, ma non riuscì a scorgerlo tanti erano i chilometri che li separavano da allora.
Aveva fantasticato su ogni persona che avevano incrociato, ma nessuna aveva fatto un pezzo di strada con loro tranne quello strano uomo, con capelli, occhi ed espressione scura, ma non malvagia. Certo, non poteva esserne sicura, ma si fidava del proprio istinto non avendo altri dati a propria disposizione.
La sera si stava avvicinando e non si erano ancora divisi. Lethia osservò di nuovo lo zaino dell’uomo. Era davvero grande, ma non pieno. La bisaccia aveva una forma strana, con il carico tutto ben appoggiato al fondo, senza una forma specifica che facesse intuire di cosa potesse trattarsi. Il peso non era tanto da far tendere le sottili corde che la legavano alla cintura. Avrebbe giurato che il contenuto di quella bisaccia era peculiare. Notò che i passi dell’uomo si facevano più lenti: per quanto fosse alto e forte, doveva aver bisogno di riposo. E a lui serviva molto più tempo per riprendersi da una giornata di cammino, condizione ottimale per poterlo osservare un po’ più da vicino.
«Helian… dove mediteremo stanotte?»
L’elfo si guardò un po’ in giro, non soddisfatto dalla qualità degli alberi presenti in zona, che non si avvicinavano nemmeno un po’ alla straordinaria bellezza delle foreste di Silverymoon. «Non importa dove… tanto per me lo squallore permane ovunque in queste zone» Per lui era proprio inconcepibile che altri elfi avessero voluto spostarsi dal suo adorato paese natio, che considerava sempre il luogo più magnifico esistente al mondo.
Xilth, che effettivamente era stanco, cominciò a pensare che accamparsi con gli elfi sarebbe stato più sicuro per lui, che sarebbe stato al riparo da eventuali malintenzionati. Nelle ultime due notti il suo sonno era stato leggero e disturbato da ogni insignificante rumore, forse avrebbe dovuto fidarsi e concedersi un sonno ristoratore, rilassare la mente quel tanto da poter riprendere meglio il cammino il giorno successivo. «E Voi dove dormirete?» domandò senza tanti giri di parole Lethia, a ragione non confidando in un’improvvisa voglia di chiacchiere del nuovo compagno di viaggio.
L’aver pensato prima all’argomento, gli consentì di rispondere con inusuale celerità per lui: «Se lo consentite, mi accamperei non troppo lontano da Voi, così da poter risentire il Vostro canto nel cammino di domani». La Long Road si dispiegava ancora per diversi chilometri prima di incontrare un altro villaggio o un altro bivio, sicché era abbastanza ovvio che avrebbero condiviso il percorso anche il giorno successivo. Helian aveva aperto bocca per rinfacciare all’uomo che loro avevano bisogno di meno ore per riposarsi e quindi sarebbero partiti all’alba, quando lui ancora sonnecchiava, ma Lethia sovrastò la sua voce e si disse felice di quella prospettiva. Lo era davvero: quell’uomo poteva anche essere restio a parlare di sé, di quello che lo portava in viaggio, ma lei avrebbe carpito comunque i suoi segreti. Prima che la notte diventasse proprio nera, i due si accamparono al riparo di una quercia e l’uomo si formò un giaciglio non lontano da lì. Con rammarico di Lethia l’uomo tenne lo zaino sotto la testa, come se fosse un comodo cuscino; non fece intravedere cosa portava con sé e non si cambiò d’abito, tanto che la bisaccia rimase attaccata alla sua cintura, come la curiosità rimase ben saldata a lei, che aveva sperato di intravederne il contenuto semplicemente per caso.
Chiuse gli occhi, pronta a cominciare la sua meditazione; diversamente dal cugino le ci volevano più di quattro ore per tornare in forma, quindi era meglio cominciare subito. Immagini delle distese a perdita d’occhio, al momento inaridite dall’inverno, si susseguivano nella sua mente, ricordandole i paesaggi ammirati durante i giorni precedenti a fianco della Long Road. La sua irresistibile curiosità le portò alla mente anche la bisaccia, che aveva occupato la sua immaginazione per buona parte del pomeriggio. Vide questo sacchetto informe sobbalzare su e giù, legato alla cintura dell’uomo, così come l’aveva osservato di soppiatto fin dalla prima volta che la mano di Xilth vi si era appoggiata sopra, per controllare se era ancora al suo posto.
Ad un tratto tutto si fece nero ai suoi occhi con le palpebre ancora ben serrate, più nero della notte che era scesa: la fase più profonda del suo momento di raccoglimento era arrivata. Due luci smeraldine fecero capolino nella sua meditazione, venendo piano piano incorniciate da una folta chioma di capelli lisci, di una tinta particolarmente accesa. L’espressione del viso della bimba era furbesca e allo stesso tempo molto attenta, mentre si aggirava nella foresta con fare circospetto. Ad un certo punto i suoi passi si fecero più lenti e ancora più silenziosi, tanto da poter rivaleggiare con un felino, inoltre lo scorrere allegro dell’acqua di un ruscello aveva coperto il suo arrivo; un elfo ancora bambino meditava in totale concentrazione ai piedi di un delicato frassino. Sembrava proprio beato nella sua ingenua fanciullezza, chissà a che cosa stava pensando! L’espressione della bambina si profuse in un sorriso ancora più largo, che – se si fosse allargato oltre – l’avrebbe tradita. Quatta quatta arrivò accanto alla sua preda; delle foglie crepitarono sotto il suo peso facendole prendere un colpo al cuore, ma il piccolo elfo parve non accorgersene. La rossa allungò una mano nella quale stringeva una forbice ben affilata, con cui si accingeva a commettere il misfatto del giorno; doveva essere molto lenta, per evitare il rumore delle due lame che si incontravano. Il cuore le batteva a mille al pensiero che suo cugino avrebbe potuto smettere la meditazione da un momento all’altro, scoprendola sul fatto. Un mezzo sospiro la mise in allarme, doveva agire in fretta! Si accostò alla guancia destra del piccolo elfo e tagliò dei ciuffi argentei al povero ignaro che, suo malgrado, ancora riposava.
La ragazzina arretrò quindi di qualche metro senza voltarsi e tenendo ben stretto il bottino fra le dita, scappò velocemente, dopodiché non poté far a meno di scoppiare in una risatina soddisfatta. Al tempo non era ancora così allenata e l’eco della sua ilarità forse giunse alle orecchie di colui che ne era la causa, ma ormai non importava: la missione era compiuta e lei aveva ottenuto i ciuffi che voleva.
Sospettava che suo cugino si sarebbe arrabbiato parecchio una volta ritrovatosi senza i suoi adoratissimi capelli in perfetto ordine, ma lui era sempre un po’ imbronciato, anche se il suo viso elfico non lo dava a vedere, e lei si sarebbe divertita ancora di più!
L’immagine della giocosa, nonché dispettosa, bimba diventò lentamente meno nitida, lasciando spazio ad un quadro variegato di colori mischiati assieme in un’enorme macchia. Lethia riaprì gli occhi, interrompendo la meditazione.
Un’idea le aveva attraversato la mente…
  
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