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Autore: Federico    08/08/2011    0 recensioni
Salve, gente! Scommetto che è passato tanto di quel tempo che non vi ricordate più di me.
Sono proprio io, Federico, e dopo vari anni di inattività sono tornato con questa nuova fic, diretto sequel di "Nel regno di leggende".
Molti millenni fa, in un'oscura palude greca, si svolge un combattimento titanico fra un mostro e un eroe, ma qualcosa non va come dovrebbe...
Nel 2010 si rinuniscono per un programma televisivo tutti i protagonisti della raccolta "Nel regno delle leggende".
Fanno appena in tempo a conoscersi che subito il Governo americano li convoca: c'è bisogno della loro esperienza con i mostri per investigare su misteriosi avvenimenti in Grecia dietro cui potrebbe celarsi una creatura antichissima e pericolosa.
Fra amicizie e rivalità, inseguimenti, cruente battaglie e losche mire, i nostri eroi dovranno scoprire il segreto del mostro, e prepararsi a una battaglia per la salvezza della razza umana...
Avvertenza: nei primi tre capitoli della fic non ci sono personaggi di "Naruto", ma è necessario leggerli per comprendere la trama.
Nel primo sono presenti celebri personaggi della mitologia greca, non di mia invenzione.
Leggete e recensite, mi raccomando, e spero che vi piaccia.
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Questa storia fa parte della serie 'Sulle tracce dei mostri'
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Lerna

 

La fatica dell’eroe

 

Lerna, Peloponneso, XIII secolo A.C

L’eroe rabbrividì; non per paura, come un qualsiasi mortale avrebbe fatto, ma per il freddo pungente che avvolgeva quel tetro scenario e per la scarica di adrenalina che attraversava con una fulminea sensazione formicolante ogni vena e tendine del suo corpo divino.

Con un agile balzo discese dal leggero cocchio da guerra, mentre i robusti cavalli dal bruno pelame scalpitavano e mandavano nuvole di vapore a perdersi nell’oscurità.

“Aspettami qui, Iolao” tuonò con voce profonda e risoluta al suo giovane scudiero e nipote che, reggendo le briglie in una mano e una fiaccola nell’altra, soffocava a stento l’inquietudine.

Il suo signore era un uomo di dimensioni colossali e dall’aspetto terrificante: alto svariati cubiti, le spalle larghe come quelle di un toro, aveva una sana e riccioluta chioma nera che si congiungeva con una barba rada e ispida sulle guance, lasciando spazio per occhi gelidi e profondi; dalla corta tunica drappeggiata su una spalla, coperta, nonostante l’atmosfera rigida, da una pregevole corazza brunastra che metteva in risalto il petto possente, sbucavano braccia e gambe nude che erano in realtà un rigoglio di peli, nervi e vasi tesi fino allo spasimo e muscoli grossi quanto la testa di un fanciullo; le mani grosse, sudate e indurite dai calli erano cinte da bracciali d’argento decorati con figure di animali, mentre i piedi erano avvolti alla meno peggio in sandali e rozze ghette.

Pure il suo armamento, se mai le sue membra nerborute non fossero bastate a intimorire il nemico, era di tutto rispetto; dal cinturone gli pendevano una spada di bronzo dalla splendida elsa dorata e una rozza ed enorme clava di legno d’ulivo, mentre alle spalle erano assicurati un lungo arco e una faretra da cui facevano capolino sottili fusti lignei intarsiati di piume bianche.

Ma c’era una caratteristica che più di tutti rendeva pienamente identificabile, fra i mille guerrieri che bazzicavano il mondo conosciuto, quella figura che avanzava solitaria e imponente in quel paesaggio lunare; la leonté, la pelle dorata e impossibile da scalfire del Leone Nemeo, svuotata di carne e ossa e legata sul suo torace per le zampe, la coda che ondeggiava a ogni passo e la folta criniera fulva che fungeva da elmo, avrebbero subito comunicato a chiunque si imbattesse in lui che si trattava di Eracle di Tirinto, figlio di Zeus e Alcmena, il più forte fra gli uomini.

Non era là di sua spontanea volontà, l’Alcide; se aveva dovuto sobbarcarsi la promessa di compiere quella e molte altre fatiche in apparenza irrealizzabili a un comune mortale, era per espiare la colpa dolorosa della sua passata follia; e anche perché era nell’interesse degli dèi celesti che i mostri figli del caos primitivo, come quello che si annidava in quelle acque, pericolosi perturbatori della pace necessaria agli uomini, venissero eliminati una volta per tutti da personaggi aitanti e intrepidi.

Una nebbia acre e fetida avvolgeva la palude di Lerna, la più grande e profonda di tutta la Grecia, tomba di innumerevoli viandanti; non c’era da stupirsi che per molti in fondo a quel fosco acquitrino ci fosse un’entrata in comunicazione addirittura con l’Ade, custodita dal mortifero nemico che l’eroe si apprestava a fronteggiare.

Il lago, gelato e scuro come pece, profondo svariati metri in alcuni punti e intervallato da secche e piccoli isolotti sabbiosi, era circondato da una pianura spettrale in cui perfino l’erba pareva smorta, su cui gravava continuamente una cappa di tenebre.

Le rive e i bassifondi erano punteggiati da fitti e bui canneti dietro cui poteva nascondersi ogni cosa, così come dietro i tronchi e dietro i rami nodosi e nerastri del boschetto che sorgeva lungo le sponde.

Non si vedeva nessuna traccia di vita umana o animale, non una rana, non un pesce, non un serpente: soltanto il richiamo basso e cadenzato di una civetta, oscuro canto di sventura, dominava quel silenzio irreale.

Eracle fu in breve all’asciutto su un banco di sabbia davanti alla tana della bestia, da cui provenivano grevi brontolii; era un albero gigantesco e ormai morto da tempo, la parte superiore del tronco riversa nell’acqua oscura e misteriosa, i rami che si protendevano come braccia di un titano crocefisso, con una profonda spaccatura alla base, attorniata, spettacolo orribile a vedersi, da mucchi di carni e gabbie toraciche spolpati e sbiancati, appartenenti a ogni genere di creatura.

Fermo sui suoi piedi, in posizione atta a tirare, il semidio incoccò un dardo infuocato dalla fiaccola che Iolao gli aveva fornito e sbraitò, prima di scoccare: “Esci fuori, mostro!”.

La freccia percorse in un batter d’occhio il tragitto, piantandosi dentro la spaccatura del tronco e illuminandola quel tanto che bastava per permettere di scorgere una sorta di massa squamosa reclinata; poi un altro muro di fiamme, ben più consistente, scaturì da quel buco come una tempesta.

Eracle poteva udire distintamente un pesante rumore di passi che sciacquettavano nell’acqua bassa, poi il tonfo di un corpo enorme che si tuffava, infine un lezzo sempre più pestilenziale col trascorrere degli attimi, tanto che dovette coprirsi la bocca con la pelle di leone.

Riposto l’arco, sguainata la spada, rimase ad aspettare finché l’Idra di Lerna, degna progenie della stirpe di Tifone e di Echidna, emerse con fragore, agitando le muscolose zampe verdastre e artigliate da drago, le nove teste serpentine che saettavano inquiete ora qua ora là, avvoltolandosi su se stesse, emettendo dalle molte bocche globi di fuoco, sbattendo i denti avvelenati con fare da squalo, sibilando forsennatamente con la lingue scarlatte e biforcute.

Senza scomporsi, e stando bene attento a non farsi contaminare dal velenosissimo fiato che sortiva da quelle gole rettiliane, l’eroe menò un terribile fendente e tranciò di netto con buona parte del collo una testa che si era avvicinata troppo; ma mentre una vorticosa tempesta di bronzo abbatteva altre appendici, nel momento stesso in cui esse sprofondavano nella nera melma, egli fece un passo indietro, pieno di terrore e meraviglia nel vedere quell’insolito potere soprannaturale.

Non appena una testa dell’Idra veniva mozzata con copioso sanguinamento, il mozzicone cruento si allargava biforcandosi e rimarginandosi, cosicché dove c’era stato un solo capo famelico e sibilante ora ce n’erano due dotati delle stesse caratteristiche.

Il semidio irato fece un altro tentativo, sperando che colpi più vigorosi potessero estinguere per sempre quel seme maligno, ma senza risultato, riuscendo solo a far spuntare al mostro un’altra decina di teste.

Incalzato sempre più da fiamme, morsi andati a vuoto per un pelo e nuvole di alito pestilenziale, Eracle, spossato, indietreggiava senza però volgere le spalle, quando d’un tratto un’idea gli illuminò gli occhi: “Iolao! Presto, vieni subito, e porta del fuoco”, dato che la sua torcia era caduta in acqua.

Sperò solo che il suo auriga fosse a portata di voce, altrimenti sarebbe stato condannato a morire così, sbranato in mezzo al fango, sebbene dopo un combattimento epico.

Accaldato dalle fiamme dell’Idra e intorpidito dall’aria satura di veleno, stava quasi per scoraggiarsi e invocare l’estremo soccorso divino quando una luce e uno sciacquio lo indussero a voltarsi: suo nipote stava correndo in suo aiuto!

Obbedendo ai comandi dell’Alcide, il trafelato e terrorizzato scudiero agitò la fiaccola incendiando cespugli e alberi sfiancati; alla spessa coltre di nebbia se ne aggiungeva una di fumo.

Impugnando la torcia, il semidio la usò alternativamente a fendenti e affondi della sua lama, per cicatrizzare le ferite del mostro col calore; il nero sangue coagulava sfrigolando, sigillava le estremità squarciate dei colli e anneriva carne e ossa.

Il grido acutissimo di dolore della belva fendette la notte in tutta la palude.

Soltanto una testa rimaneva: quella centrale, più grossa delle altre e molto più dura a morire.

“E’ invulnerabile alle armi!” gridò furibondo Eracle quando la sua bellissima spada andò in mille pezzi impattando contro le scaglie viscide del rettile.

“Se non ti posso uccidere, ti renderò innocuo per sempre!” urlò contro quegli occhi giallastri, sollevando con entrambe le mani un macigno enorme, che due buoi avrebbero spostato a fatica.

Il mostro allungò il collo come una fionda, ma subito sul suo muso affilato piovve il ciclopico masso, che lo proiettò sotto la superficie; per un istante frustò intorno a sé con le grandi zampe, poi le accasciò, domato ma non del tutto sconfitto.

Uscendo immediatamente dall’acqua inquinata da una vasta pozza di sangue e bile, il figlio di Zeus

intinse la punta di ognuna delle sue numerose frecce nella carogna fetida, affinché dessero una morte atroce a chiunque ne fosse trafitto, ignaro che questo sarebbe stato anche il suo stesso destino.

  
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