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Autore: Hika86    10/08/2011    0 recensioni
«Non dovevo guardare».
Ho l'impressione che sia cominciato tutto quando ho detto quelle parole. Non ricordo nemmeno bene quel giorno, ma era il preludio della fine quindi credo sia stato circa un mese prima del nostro addio. Giugno. Possibile?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Non dovevo guardare».
Ho l'impressione che sia cominciato tutto quando ho detto quelle parole. Non ricordo nemmeno bene quel giorno, ma era il preludio della fine quindi credo sia stato circa un mese prima del nostro addio. Giugno. Possibile?
Ricordo le scale del vecchio edificio anni quaranta, marmo grigio, e il mosaico colorato sul pavimento del pianerottolo, ero e beige. Mi sono rannicchiata sotto la finestra, lunga e stretta come in tutti i vecchi condomini, e ho pianto cercando di fare il meno rumore possibile. Non dovevo guardare, invece l'avevo fatto e quello era il risultato. Il miracolo più bello dell'esistenza, la cosa più splendida di questo mondo, lo guardereste anche solo per un secondo se sapeste di doverlo poi distruggere con le vostre mani, crudelmente e per sempre? Io non l'avevo fissato un minuto, ma credo cinque buoni minuti. Il risultato era lì sotto la finestra: scossa dai singhiozzi, la bocca serrata per fare meno rumore, il viso nascosto per non mostrare a nessuno le mie lacrime.
Era solo l'inizio dell'estate in cui ci saremmo separati.

All'inizio sembra una specie di sfida: fissare gli appuntamenti nonostante i mille cavilli burocratici, sopportare gente che ti mette le mani ovunque, domande di ogni tipo, anche se dettagli della tua vita a cui non hai mai fatto caso. Se sai rispondere, se superi tutto, passi di livello in livello per poi ricevere il tuo biglietto con su scritto la data del tuo giorno. Si potrebbe pensare che dopo tante peripezie quel pezzo di carta venga ricevuto come un premio per lo sforzo. Forse per qualcuno è così. Per me era la prova inconfutabile che quel giorno che avevano scritto, 24 Luglio, se mi fossi presentata tutto sarebbe finito.
Ci saremmo dovuti dire addio e dopo aver guardato mi chiedevo sempre con quale coraggio, con quale forza stavo andando avanti con quel piano. In quell'estate afosa, troppo giovane per portare quel peso ma abbastanza grande da capirlo completamente, avrei voluto sciogliermi per sempre piuttosto che presentarmi quel giorno.

24 Luglio.
Quel giorno, invece, lo ricordo come se fosse ieri.
Caldo, asfalto morbido, sole brillante e cielo azzurro.
«Lei è oggi? Allora si sbrighi che abbiamo già cominciato a farvi preparare. Vada nella stanza infondo e troverà tutto sul letto» mi spiegarono dopo che ebbi fatto quattro piani di scale. Ero tanto agitata da non riuscire a stare ferma, ma dato che mi sarebbe toccato starmene buona per alcune ore avevo deciso di fare un po' di moto prima: niente ascensore, una bella sudata prima di buttarmi a capofitto in quell'ultima sfida da affrontare.
Entrai nella stanza, lunga e stretta, c'erano cinque letti e il mio era l'ultimo vicino alla finestra. Ero felice di dove mi avevano messo, non sarei stata costretta a parlare con nessuno e potevo guardare fuori anche se l'ambiente era rigorosamente chiuso e rinfrescato dall'aria condizionata. Chiaramente eravamo tutte donne, i parenti e gli amici non potevano stare lì, quindi ebbi pochi problemi a spogliarmi, seppur fossero tutte delle estranee. Misi il camice lungo, ripiegai i vestiti e mi accucciai a terra tra il letto e la finestra, quella pareva essere il mio angolino privato ed era una vera fortuna. Girai la chiave dell'armadietto sotto il comodino e cominciai a sistemarci le mie cose: vestiti, sciarpa di lino, borsa. Lo richiusi e me ne rimasi lì alzando le mani per prendere il bicchiere e la pillola sopra al comodino. Ricordo che guardai l'acqua per qualche secondo infinito. Era l'inizio della fine. Come ne sarei uscita? Come avrei affrontato il resto della mia vita con la consapevolezza di ciò che avevo fatto? Mandai giù la pillola di colpo ingoiando le lacrime: non avevo risposta a quelle domande ed ero quasi certa che non le avrebbe avute nessuno, semplicemente il tempo mi avrebbe mostrato cosa fare, ma ciò che mi terrorizzava era proprio quell'assenza di certezze per il futuro, quell'angoscia che mi assaliva quando pensavo al resto della mia vita con la consapevolezza di ciò che stavo per fare.
«Dio ti perdonerà» mi sentii dire mentre rigiravo la chiave nella serratura dell'armadietto. Alzai lo sguardo e vidi la donna del letto a fianco che mi guardava, doveva aver notato che me ne stavo lì sotto da troppo tempo. «Mettiti sotto le coperte, senza vestiti fa un freddo!» mi consigliò. Effettivamente stavo già tremando, inoltre noi eravamo la penultima o terzultima stanza del corridoio e io ero dell'ultimo letto infondo: chissà quando mi avrebbero chiamato.
I neon sul soffitto erano accesi inutilmente, la luce del sole estivo fuori illuminava tutta la stanza. Li osservavo e osservavo la struttura di acciaio in cui erano incassati. la loro pallida luce si rifletteva su quella superficie liscia.
Alcune chiacchieravano, altri, come la mia vicina, si erano portate da leggere. Solo io guardavo con apparente interesse le luci sul soffitto. Io non mi ero portata niente, non ci avevo pensato, ma forse non avrei voluto leggere proprio nulla. Non ero spaventata da ciò che mi stava per succedere, ma avevo paura di quanto sarebbe durato e... del dopo. Il tepore sotto le coperte bianche era rincuorante, i letti dalle lenzuola pulite e leggermente ruvide dopo la lavatrice trasmettono sempre tranquillità.
Dopo un po' di tempo a guardare il soffitto bianco e il cielo azzurro contro gli edifici della città arrivarono anche alla nostra stanza. Chiamavano una persona alla volta e ti facevano salire sul lettino con le rotelle, così quando chiamarono la mia vicina io rimasi sola nel silenzio dello stanzone e mi sentii come quando mi dovevano chiamare per sostenere un esame universitario e io sapevo che la prossima a dover andare ero io: tesa come una corda di violino, sola sul pozzo dell'ignoto. Ricominciai ad avere freddo e ricordo che guardai il cielo estivo nella speranza che il suo celeste e i suoi uccelli in volo mi ricordassero che eravamo in una stagione calda, che non dovevo tremare, che tutto era meravigliosamente luminoso là fuori. Poi chiamarono me.
«Hop, salta su!» esclamò l'infermiere quando raggiunsi il lettino attraversando a piedi nudi la stanza, con una mano sull'osso sacro per tenere chiuso il camice sul retro: avevo stretto bene i nodi, ma quelle specie di pigiami sembrano fatti apposta per aprirsi e far vedere tutto in ogni caso. Sorrisi e fui lieta di staccare i pedi dal pavimento di piastrelle gelido. in quell'ospedale era tutto così terribilmente freddo che sembrava succhiarmi via il ricordo dell'estate e del calore, pensiero a cui invece mi aggrappavo disperatamente. Mare, montagna, caldo, vento afoso, urla, risate; non dovevo dimenticarmi che l'estate era quello, che io stavo solo facendo una cosa diversa ma che presto sarei tornata anche io alla sabbia bollente e alle conchiglie multicolori sul bagnasciuga. «Sei nervosa?» mi domandò quello. Alzai lo sguardo per vedere il suo viso dietro di me, mentre spingeva il lettino lungo il corridoio. «Un po'» minimizzai
«Avrai un po' di tempo per tranquillizzarti mentre aspetti il tuo turno, poi quando tutto sarà finito verrò a riprenderti io. Puoi fidarti di me»
«Ma io starò dormendo» feci notare
«E' vero» rise quello «Ma a maggior ragione, se ti fidi di me mi occuperò io di te mentre stai riposando» spiegò infilandosi nell'ascensore. Riposi che mi fidavo anche se dentro di me sapevo che sotto anestetico sarebbe potuto venire chiunque a prendermi e a riportarmi nel mio letto vicino alla finestra ed io non me ne sarei resa conto.
L'attesa fuori dalla sala operatoria è quella che ricordo meglio. Avevo fame perchè non avevo potuto fare colazione, avevo freddo perchè sul lettino c'era un lenzuolo, ma nell'ambiente chiaro e asettico del blocco operatorio c'era ancora più aria condizionata e quindi ancora più freddo. Tremavo fortissimo, quasi speravo che il mio turno arrivasse il prima possibile per tornare al caldo del letto qualche piano più sotto.
«Com'è andata ieri?»
«C'era il matrimonio di mio cugino, ho mangiato un sacco» sentii due medici cominciare a parlare dietro di me. «Alla fine ti sei divertito? Eri così svogliato lunedì»
«Ma sì, alla fine sì. Mi ha consolato il cibo» rise il fortunato «Hanno scelto un menù elaborato sai? Per antipasto c'erano questi crostini con mousse di olive nere e pomodorini freschi...». Ricordo che per un attimo ho pensato che se esistesse l'inferno sicuramente sarebbe poco differente da una situazione come quella. Nel gelo più totale la descrizione minuziosa del menù del matrimonio del cugino mi faceva soffrire ancora di più dato che ero digiuna e a quel punto il mio stomaco cominciava a risentirne, lamentandosi.
Volevo un orologio. Che ore erano? Quanto mancava al mio turno? Perchè non ci davano più coperte?
«E' la prima volta» mi chiese una giovane donna nella barella di fianco alla mia. Eravamo praticamente parcheggiate nell'anticamera della sala operatoria, come vacche ammassate nella stalla che attendono di entrare nella sala del mattatoio. «Sì» risposi battendo i denti. E ultima, mi promisi. «Tu perchè lo fai?» domandò tirandosi il lenzuolo fino al mento. Doveva avere circa trent'anni. «Io lo faccio perchè ho partorito la mia prima bimba pochi mesi fa e mi sono ritrovata di nuovo incinta, ma non ho la possibilità di crescerne due». Ricordo che pensai "Oh, almeno lei ne ha già una, io invece il mio lo ammazzo senza pietà e senza niente che mi consoli per quello che sto facendo", ma anche allora sapevo che era un pensiero sciocco. Anche per lei, che invece aveva sperimentato quel miracolo e non l'aveva solo visto sul monitor della ginecologa come me, non doveva essere stato facile prendere quella decisione. La lasciai parlare, così da non dover rispondere alla sua domanda, ma non ricordo di cosa mi parlò. So che ebbe quantomeno l'accortezza di non parlare di sua figlia.
Ero stremata. Faceva tanto freddo che non era nemmeno possibile fare un sonnellino per rilassarsi e far passare il tempo. Non c'era nemmeno una finestra dove guardare per ricordarmi del calore esterno. Forse erano le undici, forse mezzogiorno. Si stavano avvicinando le ore più calde della giornata e io battevo di denti, pietrificata sulla mia barella per paura che qualsiasi movimento di portasse a perdere contatto con la parte di lenzuolo riscaldata dal mio corpo e arrivare a toccarne una ghiacciata.
Quando arrivò il mio turno volevo piangere, non per tutti i profondi ed angoscianti motivi che mi abbattevano in quella giornata, ma per pura isteria o sollievo, consapevole che tutto sarebbe presto finito. In sala operatoria faceva leggermente più caldo e stancamente mi spostai dalla barella al lettino operatorio. A causa dell'anestesia ricordo poco o niente di quei minuti prima di addormentarmi, ma credo che effettivamente sia successo ben poco. Mi gettarono addosso del liquido ghiacciato mentre mi facevano indossare la mascherina. «Bene, adesso conta fino a dieci»
«Uno, due, tre» non mi sembra di ricordare altri numeri.

Dio ti perdonerà. Ma io non credo in Dio, io credo in me stessa. E non sono affatto sicura di riuscirmi a perdonare.

Il cameriere mi mostrava un carrellino pieno di brioche, ma io non sapevo scegliermi tra quella alla crema e quella al cioccolato. Mi piacciono entrambe e dover scegliere per scartarne una piuttosto che un'altra era una vera tortura. Poi quando stavo per decidermi mi svegliai. E' uno dei miei più grossi rimpianti, quella decisione sembrava così importante che non averla potuta prendere, seppur in un sogno, ancora oggi mi brucia.
Quando mi svegliai nel letto infondo alla stanza, vicino alla finestra, ero rannicchiata sotto le lenzuola calde e pulite. Tirai fuori la testa dalle coperte e mi voltai verso la finestra non senza prima lanciare un'occhiata furtiva agli altri letti. Le altre donne erano sveglie e parlavano con i parenti entrati in stanza.
Io ero sola. Guardai nuovamente il cielo estivo, con il sole che si era spostato e ora filtrava dai vetri della finestra formando una pozza luminosa sulle piastrelle del pavimento. Quel liquido di raggi luminosi si stava arrampicando lentamente su per le gambe del mio letto e presto avrebbe cominciato a spandersi sul bianco delle lenzuola.
Sembrava non essere successo niente di rilevante, a parte essere tornata in camera, ma sapevo che non era così. E' tanto facile ammazzare il proprio figlio? pensai con tanta amarezza che mi sembrava di poter sentire sulla lingua il sapore acido di quell'idea. Avrei sanguinato per un po' e cos'altro? Non sarebbe rimasta traccia di quell'evento, nessuna cicatrice, eppure lo sentivo. Sentivo che mi sarei tormentata a lungo per quella storia, sentivo che l'estate, il 24 Luglio, non sarebbero più stati come prima. Ma era giusto così. Avevo ucciso qualcuno e sentivo il peso di questa colpa spargersi nelle fibre della mia anima come la sabbia riesce ad infilarsi e a rimanere per anni negli angoli delle borse che portiamo in spiaggia. Avrei potuto dimenticare quello che avevo fatto in inverno, ma così come la gente fosse tornata a pensare al mare, io mi sarei nuovamente ricordata di ciò che avevo fatto. Come un onda che dopo essersi ritratta per un lungo tratto del bagnasciuga torna ancora più violenta a battere contro i sassi e le conchiglie.
Uscii dall'ospedale che era ora di pranzo passata. Un pasto semplice, niente di pesante si era raccomandata la dottoressa prima che lasciassi la stanza. Il mio corpo anelava alla pasta col pomodoro fresco che mi aspettava a casa, il mio animo non avrebbe voluto toccare nemmeno un piatto di prosciutto e melone. Le mie membra stressate volevano le vacanze, volevano rilassarsi da qualche parte, i miei pensieri avrebbero preferito torturarmi con il ricordo di ciò che era successo quel giorno.
Distruggere il miracolo dell'esistenza di propria volontà non è cosa da poco e la religione, tutte le stronzate su Dio e la vita, sui peccati e l'inferno, non avevano alcun peso nel mio cuore. Nell'estate dei miei vent'anni ero io la prima a non perdonarmi dell'omicidio che avevo commesso. E nelle estati successive? Al tempo ancora non avevo una risposta, potevo solo aspettare ancora la stagione calda, un anno dopo l'altro, e vedere se avessi pianto con la stessa forza e la stessa disperazione, che fossi stata al mare, in montagna o all'estero.


Avevo scritto questa breve storia per una breve contest in un forum. Non volevo pubblicarla finchè non fossero usciti i risultati, ma stamattina li hanno pubblicati e quindi ora lo faccio tranquillamente.
Non ho scritto molte cose originali, nonostante io lavori molto sui personaggi originali delle fanfiction, quindi ero un po' tesa... cioè... sono un po' tesa. Anche con i risultati del concorso non ho comunque molti riscontri per sapere com'è andato questo tentativo... eeeeh... già!

  
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