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Autore: L_Fy    11/08/2011    25 recensioni
...Se lo disse anche a fior di labbra, sottovoce: "Veronica Alberice Scarlini della Torre, sei uno schianto."
Aveva diciotto splendidi anni, era raffinata, ricca, alla moda, trendy da morire, più fashion di Paris Hilton, più glamour di Anna Wintour, più sensuale di Monica Bellucci. Nessuno del centinaio abbondante di ragazzi della sua scuola poteva non sbavare mentre lei passava senza degnarli di un solo sguardo, nessuna delle 2000 oche della sua scuola poteva non morire d’invidia, nessuno del corpo insegnanti poteva non rimpiangere di non avere avuto un solo grammo del suo allure nella loro triste, patetica esistenza.
Quindi, non poteva essere altrimenti: lui finalmente l’avrebbe guardata.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Fido!”
Niente, era sparito di nuovo: in un lampo, zac!, veloce come un fulmine e silenzioso come un ninja, quel quadrupede finto innocente si era di nuovo defilato chissà dove: possedeva di sicuro dei geni felini, penso Serena cogitabonda. Un gane o un catto. Uhm, troppo corto. Un gacane, allora. O un cagatto. Bello, che neologismo poetico!
Tebaldo, Tebaldo, Tebaldo…
“Fido!” strillò di nuovo Serena per scacciare quello snervante rumore di fondo che le infastidiva le meningi e le valvole cardiache da qualche giorno a quella parte “Dove diavolo ti sei cacciato?”
Mollò la spazzola schiumosa di sapone nella tinozza e si guardò intorno con le mani sui fianchi: i cani dentro le gabbie la guardavano con le teste inclinate, le lingue penzoloni e l’espressione da schiaffi degli alunni di una classe quando la maestra annuncia che sta per interrogare: chi, io? , sembravano dire quegli innocenti occhioni spalancati. Io sono un cane buono e ubbidiente. Mica visto nessun cagatto sparire, da anni e anni a questa parte.
Tebaldo, Tebaldo, Tebaldo…
“Vi odio da morire” berciò Serena in un ringhio accorato “Siete tutti dei pezzi di merda puzzolenti e rumorosi.”
Dopo averlo detto, si sentì male: era meschino e infantile sfogare il proprio malumore su dei poveri cani innocenti, soli e abbandonati. Loro continuarono a  guardarla con le lingue penzoloni e le code frementi, come in attesa di un nuovo curioso attacco isterico dell’Umana di turno.
“Scusate” gorgogliò quindi querula “Non è vero che siete dei pezzi di merda: siete tanto dolci e io voglio bene a tutti voi.”
Un cane sbadigliò platealmente e Serena tornò furibonda con l’intero creato.
“Ah, si sbadiglia qui, eh?” berciò all’indirizzo del povero canide che scodinzolò vagamente perplesso “Solo perché al mondo non dovete fare altro che mangiare e cagare e copulare, non avete il diritto di prendere per il culo chi sta solo cercando di accudirvi!!”
“Accidenti” si intromise una voce secca alle sue spalle, facendola sobbalzare “Stai preparando una recita scolastica sugli effetti devastanti delle droghe o sei davvero così sciroccata di tuo?”
Serena si girò quasi piroettando e si trovò faccia a faccia con Amaltea Giovinazzi, drammaticamente avvolta in un grembiulone così ampio e lungo che la faceva sembrare un tendone da circo.
“Amaltea!” esclamò Serena arrossendo furiosamente “Stavo, ehm, cercando di fare il bagno a Fido… ma è scappato…”
“E tu hai iniziato a recitare il Macbeth solo perché Fido ti è scappato?”
Tebaldo, Tebaldo, Tebaldo…
“No… cioè, si… ma non era il Macbeth… voglio dire…”
Amaltea la interruppe con un gesto secco della mano.
“Guarda che a me non devi nessuna spiegazione, gioia. Fido e gli altri possono sopportare brillantemente i tuoi sbalzi ormonali, non è quello il problema: il problema sei tu. Se continui a tormentarti in questo modo alquanto sconcertante e a non mangiare, rischi di diventare pallida e secca come una canna di bambù. E con le canne di bambù di buono ci vengono fuori solo i mobili da giardino.”
“Ma io non mi sto tormentando affatto. E mangio molto…”
“Avevo un bengalino che mangiava il doppio di te ed è lo stesso morto di fame.” la lapidò Amaltea implacabile.
Serena aprì la bocca per replicare, ma il suo mento, vivendo di vita propria, si mise a tremare incontrollato.
“Sono una scema completa” le sfuggì di bocca in un gorgoglio indistinto “Sono proprio una patetica e sconclusionata canna di bambù.”
“Fase calante” constatò Amaltea con un accenno di sorriso “Bel quadretto autocommiserativo, però puoi fare di molto meglio.”
“E che cosa dovrei fare secondo te?” scattò Serena aggressiva per poi lasciarsi andare a un’espressione contrita “Scusa, Amaltea, sono davvero… ah, non so nemmeno io cosa sono e cosa mi sta succedendo!”
“L’adolescenza ti sta succedendo, cocca” le spiegò Amaltea amabilmente “T’è venuta fuori tutta in un colpo e se i miei nebulosi e remoti ricordi mi aiutano, capisco che non deve essere facile gestire tutto quel discorso endocrino. Soprattutto dopo aver visto il catalizzatore.”
“Dopo aver visto il cata che?” domandò Serena, sinceramente confusa.
“Il catalizzatore” rispose con santa pazienza Amaltea “Il tizio dal nomazzo shakespeariano e gli occhi da stronzo. Quello che quando ti guarda ti accende e ti spegne come il led della televisione. Sono stata chiara o continuo con le metafore?”
Una ridda di confusi pensieri attraversò la mente di Serena.
“Io… lui non mi accende affatto come un led!” strillò spaventata: poi, ravveduta: “Di chi diavolo stai parlando?”
Amaltea sospirò, poi si girò di spalle, fece un bel fischio modulato e potente e Fido, il perfido cagatto, comparve magicamente accanto a lei con l’aria di non essere mai andato da nessun’altra parte. Sotto lo sguardo esterrefatto e furente di Serena, Amaltea schioccò la lingua due volte, segnò col mento la tinozza piena d’acqua saponata e Fido ci saltò dentro a piè pari, quasi scodinzolando.
“Quello è un cane di merda.” ringhiò Serena puntando un dito accusatore verso Fido mentre Amaltea le prendeva lo spazzolone di mano e iniziava a strigliare a dovere il buon Fido che, con l’aria da martire, teneva il muso bello alto e lontano dalla schiuma.
“Non fare quella faccia” sogghignò Amaltea dopo alcuni secondi “Si tratta di esperienza e ogni tanto anche di fortuna. Col tempo si impara che per trattare con certi soggetti ci vuole pelo sullo stomaco, faccia da culo e un bel po’ di determinazione.”
“Stai parlando di me e Fido?”
“Sto parlando di te e del tuo nobilazzo. E di te e Fido, stessa cosa: entrambi non li sai prendere. Sei troppo tonta, che Dio ti preservi i tuoi limiti… non sai quanto ti semplificheranno la vita. Appena ti passerà la cotta per il nobilazzo te ne renderai conto: deve puntare alto solo chi è un razzo. O chi sa usare le ali, tutti gli altri si sfracellano.”
“E io le ali non le ho, vero?”
“Sbagliato” rispose Amaltea con sguardo limpido “Ho detto che non le sai usare, non che non ce le hai. E ora sbrigati.”
Serena sbatté le ciglia confusa.
“A fare che? Strigliare Fido?”
“Quello lo sto già facendo io, non ti pare? No, preparati psicologicamente e ormonalmente… e fossi in te mi darei anche una pettinata, che così sembri un nido di chiurlo devastato dalla tempesta.”
“E perché dovrei pettinarmi? Ai cani il mio nido di chiurlo non ha mai dato fastidio.” rispose Serena piccata.
Amaltea distolse lo sguardo, ma Serena avrebbe giurato di vederle passare un lampo decisamente divertito negli occhi.
“Ma forse al tuo nobilazzo sì. L’ho visto che stava arrivando col suo macchinone da maharaja, ormai ti avrà individuato.”
*          *          *
Serena sbiancò nell’esatto momento in cui Tebaldo Santandrea della Torre sbucava dalla brutta costruzione quadrata dell’ingresso e si guardava intorno con aria rilassata. Indossava una tenuta sportiva che a occhio costava quanto lo stipendio mensile di un impiegato, teneva con noncuranza le mani in tasca ed era figo in una maniera pazzesca, almeno a giudicare dalla quantità industriale di feromoni che Serena riversò nell’aria alla sua vista.
Rimase inchiodata al suo posto mentre lui la individuava, si stampava un sorrisetto sardonico sulle labbra e si avviava verso di lei, incurante della cacofonia canina intorno a lui e dell’odore non propriamente delicato che gli aleggiava intorno. Quando arrivò a tiro, accentuò il sorriso e l’aria maliziosa dello sguardo, facendo incrementare in maniera esponenziale l’emissione di feromoni di Serena.
“Santo cielo, agnellino, che sguardo!” canticchiò deliziato “Giuro che non sono qui per mangiarti…” la squadrò con le fessure verdognole sempre più sornione “.. non ancora, almeno.”
“Che Marcantonio.” lo rimproverò Amaltea sogghignando segretamente e le fessure verdognole di Tebaldo si puntarono su di lei con intatta ironia.
“Signora Giovanotti” sospirò affabilmente “Che piacere rivederla.”
“Si si, immagino” tagliò corto Amaltea rinunciando all’inutile correzione del cognome “Come sta Sancho?”
“Fastidiosamente mefitico, grazie. E lei?”
“Sempre allerta, come i mastini.”
“Adoro le sue metafore canine.”
“Perché sei qui?”
L’ultima battuta venne dal pigolio sfiatato di Serena che si era ripresa a sufficienza per articolare qualche vaga locuzione: si aspettava una delle solite risposte ad effetto di Tebaldo, ma questi la stupì inalberando uno sguardo quasi serio.
“Ti devo parlare” disse posato “In privato.”
Amaltea fece un fischio modulato e accennò col mento una posizione qualunque del canile.
“Spostatevi pure dove meglio credete” suggerì divertita “Col casino che fanno questi maledetti quadrupedi non vi sentirei nemmeno se urlaste a tre metri di distanza. Ma rimanete a vista, non vorrei che il Marcantonio tirasse fuori le zanne e si mangiasse per davvero la mia unica volontaria del giorno.”
Mentre Serena arrossiva e si allontanava con aria colpevole, Amaltea si disinteressò al duetto riprendendo a strigliare il santo e paziente Fido. Tebaldo la raggiunse e Serena, respirando intensamente, si costrinse a mantenere la calma e il sangue freddo: forse Tebaldo voleva parlarle per motivi diversi da quelli che (Sognava? Desiderava?) pensava lei; forse voleva ingaggiarla per un servizio di dog sitting, o semplicemente insultarla per il modo mediocre in cui viveva... O forse voleva mangiarla davvero: da uno con quegli occhi da gatto c’era da aspettarsi davvero di tutto.
“Paolo Bianchi ha intenzione di portarti a villa Scarlini” esordì Tebaldo senza preamboli, lasciandola spiazzata “Ha saputo che ho adottato Sancho e mi è sembrato decisamente basito: ho avuto il nebuloso sospetto che tu non gli abbia parlato di me e del mio colpo di fulmine per la Furia Miasmatica, così ti ho voluto avvertire.”
“Perché?” chiese Serena sparando a caso la prima locuzione che le sovvenne alla mente.
“Per evitarti una brutta figura col tuo ragazzo.” rispose Tebaldo paziente: sembrava già annoiato dalla conversazione.
“Paolo non è più il mio ragazzo.”
Un lampo di interesse accese lo sguardo del giovane.
“Così il cherubino è tornato single? Interessante.”
“Hai delle mire su di lui?”
“Io no, preferisco i bruni e palestrati. Ma cercavo un compagno alternativo per Sancho… sai, se dovesse stufarsi di Byron alla svelta…”
Si stava uscendo dal seminato: Serena riportò il discorso su quello che più le premeva, ovvero sapere il vero motivo per cui Tebaldo era lì.
“Perché non hai detto a Paolo che ci conosciamo?”
“Primo, perché io e te non ci conosciamo, almeno secondo il mio concetto di conoscersi. Secondo, visto quanto sono sporadiche e superficiali le conversazioni tra me e il Bianchi, la domanda dovresti porla a te stessa.”
“Io non ho niente da nascondere.”
“Balla: e non arrossire così, dai… che coda di paglia, ragazza mia!”
“Perché sei qui?” ripeté Serena sfinita abbassando gli occhi.
A quel punto sarebbe stato bene che Serena richiudesse la bocca e aspettasse una delle solite repliche ad effetto di Tebaldo: invece un disgraziato pensiero dribblò il buonsenso e se ne uscì di getto: “Già ti penso anche troppo…”
Subito dopo chiuse gli occhi strizzandoli forte, come si aspettasse una reazione violenta a quelle poche, innocenti parole: invece la voce di Tebaldo le arrivò sembrando quasi dolce.
“Mamma mia, sei più trasparente di un cristallo: non c’è nessun gusto a fare il Marcantonio con te, per dirla come la prode Giovanezzi.”
“E tu allora non lo fare.” sussurrò Serena azzardando un’occhiata.
“E’ un’idea interessante, lo ammetto. Ma sai… no, preferisco essere me stesso.”
“E sei sicuro che il vero te stesso sia davvero così?”
“Così come?”
Serena meditò seriamente sulla risposta.
“Così stronzo.” rispose alla fine candidamente.
Tebaldo la abbagliò per un attimo con il suo sorriso.
“Direi che ne sono moderatamente sicuro, sì.”
“Ma hai mai provato a comportarti diversamente?”
“Vuoi dire a fare il bravo ragazzo nerd come il tuo Bianchi? Mai. Aspetta, forse un po’ alle elementari. Una noia mortale.”
Però aveva di nuovo quello sguardo remoto e un po’ ruvido, tra lo scocciato e il fragile. Che fosse una posa o meno, Serena lo trovava semplicemente irresistibile.
“Perché sei qui?” domandò per la terza volta e Tebaldo si decise a sbuffare.
“Di nuovo? Agnellino, cambia disco!”
“Vorrei una risposta sincera.” gli tenne testa Serena e, stranamente, Tebaldo decise di accontentarla.
“Perché Bianchi sta tramando qualcosa, io mi annoio e tu sei carina.”
Un colpo, come se Tebaldo avesse preso una mazza e avesse usato il cuore di Serena come palla da baseball.
“Davvero… davvero lo pensi?” sfiatò Serena arrossendo.
“Che Bianchi stia tramando qualcosa? Direi di sì, il mio istinto non fallisce mai.”
“No io dicevo per ehm, per il , cof!, per…”
“Per il carina?” le venne incontro Tebaldo incurvando le labbra in un sorriso arrogante “Si, lo penso. Ma è un carina in maniera anomala, disarmante: non ho ancora capito se la tua infantile banalità è candore o superficialità. Il dubbio principale è di non trovarla interessante in ogni caso.”
Brutalmente sincero e deprimente: ma gliel’aveva chiesto lei, no?
“Quindi non è che conti molto il fatto che mi trovi carina.”
“Francamente no. Trovo carine un sacco di cose inutili, come il cioccolatino che i baristi aggiungono alla tazzina del caffè, girare d’estate con le infradito e le sciarpe di seta a disegni cachemire. Trovo carino persino il tuo caro Sancho. Quindi, verrai?”
L’ultima richiesta colse Serena di sorpresa ma la salvò anche dall’ultima, cocente umiliazione.
“Verrò dove?”
“A villa Scarlini, dove Paolo ti chiederà di accompagnarlo.” rispose Tebaldo impaziente: sembrava di nuovo tediato e Serena si sentì ferita senza motivo.
“Non lo so” rispose quindi brusca “Forse. Ma non far preparare la cravatta, non mi formalizzerò se arriverai con le tue amate infradito e la sciarpa a disegni cachemire. Che, fra parentesi, fa molto gay d’alto bordo.”
Il sorriso scintillante di Tebaldo comparve ad abbagliarle gli occhi e il cuore.
“Eh, agnellino, ne hai di strada da fare prima di pensare di offendermi con queste timide battute! Se vuoi posso darti lezioni di cattiveria.”
“Saresti un ottimo insegnante, ma come hai detto tu prima, no grazie, preferisco essere me stessa.”
E chiamando a raccolta tutto il suo coraggio e gli ultimi residui di amor proprio, Serena gli girò le spalle e marciò via a testa alta: l’effetto fu guastato dalla grassa risata di Tebaldo che la seguì per tutto il tragitto senza mai calare d’intensità.
*          *          *
Con la mente un po’ più fredda, ore e ore dopo che il perfido influsso di Tebaldo le aveva scombinato tutti i percettori di pericolo, Serena si rese conto che se Paolo le avesse davvero chiesto di andare con lui a Villa Scarlini, si preannunciava un incidente diplomatico.
Perché a Paolo aveva raccontato la balla che Sancho aveva trovato un padrone stronzo vecchio e brutto quando invece era finito a casa di Tebaldo, che era si stronzo, ma decisamente non vecchio e meno che meno brutto. Tendenzialmente Serena era una che non mentiva mai, non tanto perché fosse virtuosa, quanto perché proprio non le veniva bene. L’accenno di una bugia suonava stonato persino a lei stessa e invariabilmente si dimenticava delle balle raccontate e le smentiva alla prima occasione. Un buon bugiardo doveva avere faccia tosta e memoria. Qualcosa che, per esempio, gli Scarlini avevano nel dna.
Insieme al gene degli occhi verdi e della stronzaggine cronica.”, meditò Serena con livore.
Lei di cognome faceva Colombi e di quei geni non aveva nemmeno l’ombra, così che l’unica balla che le fosse scappata detta con Paolo stava per diventare un problema di dimensioni apocalittiche.
Quindi, a conti fatti: che fare?
Serena, seduta in una gabbia in compagnia di un maremmano zoppo e apparentemente catatonico, enumerò tutte le varie possibilità:
1) Dire a Paolo la verità: soluzione meglio auspicabile, ma Serena per Paolo provava una profonda stima e il pensiero di fare la figura della deficiente davanti a lui le risultava insopportabile. Senza contare il ritorno di fiamma dell’ovvio “Perché?” che la sua ammissione avrebbe scatenato.
2) Trovare un modo machiavellico per rendere credibile la sua balla: idea intrigante, ma per fare questo avrebbe dovuto avere quei famosi geni di cui sopra che lei continuava a non avere, per cui il suo reparto mentale di machiavellerie era deserto come il Sahara d’agosto.
3) Al momento non le veniva nessun punto tre e la cosa la irritava parecchio perché chiunque, anche un primate del Borneo, almeno tre soluzioni decenti le avrebbe tirate fuori!
Paolo Bianchi tagliò la testa al toro e alle sue cupe elucubrazioni comparendo davanti a lei tutto d’un tratto, teletrasportato come l’equipaggio di Star Trek.
“Paolo!” scattò Serena balzando in piedi: il cuore le andava a mille per l’agitazione, ma il sorriso solare di Paolo riuscì a calmarla magicamente.
“Che succede?” le chiese premuroso: ovviamente, tutto l’arrovellamento interiore doveva comparirle dalla faccia e la sua sollecitudine non fece che acuire il già mostruoso senso di colpa di Serena. D’altronde, lui era palesemente lì per affrontare la situazione, per avere un chiarimento: e lei non poteva più tirarsi indietro.
“C’ècheilpadronediSanchoèTebaldoScarlinidellaTorre” vomitò d’un fiato appena aprì bocca, ad insaputa del cervello che rimase esterrefatto dall’exploit indipendente della periferica. “Iopensavochefossepersuononno…” era la nonna in realtà e questa piccola bugia le scatenò una leggera orticaria, che risultò comprensibile nel contesto “… ma hosaputooggicheSanchononèconlanon… cioè, con il nonno, ma con Veronica che però è la cugina…”
Si impappinò sulle parentele, ma il sorriso di Paolo non si smorzò, anzi, semmai diventò ancora più largo e solare.
“Accidenti” commentò piacevolmente “Che dichiarazione sofferta. E io che ero venuto a chiederti in prestito il libro delle traduzioni di latino.”
Serena ci mise un po’ a elaborare l’informazione e quando ci riuscì, arrossendo, si decise ad arrabbiarsi per chissà quale misterioso motivo.
“E hai lasciato lo stesso che mi scusassi con te senza motivo?”
“Ah… erano scuse? Mi era sembrato un vago delirio alcolico.”
“Non sei divertente!”
“E tu sei isterica. E anche un po’ ridicola.”
Lo disse con una voce quasi impietosita, ma sincera: Serena perse di colpo tutta la sua rabbia e lo fissò coi i grandi occhi liquidi spalancati. Se fosse stata nei panni di Paolo avrebbe pensato la stessa cosa, ma sentirlo dire a voce alta era tutta un’altra cosa…
“Perché dici questo?” mormorò ferita.
Paolo aggrottò le sopracciglia, una cosa che faceva sempre quando pensava intensamente: Serena rimase dolorosamente intenerita dal ricordo.
“Perché è come dicevi tu, le bugie non le sai dire, ti viene l’orticaria e balbetti e sudi… ma fin’ora non me ne ero mai accorto, perché non mi avevi mai raccontato bugie.”
Serena aveva una tale voglia di chiedere scusa che dovette mordersi le labbra per lasciarlo continuare imperterrito.
“Quello che però non capisco è perché hai iniziato a cacciare balle adesso… adesso che non c’è nessun motivo di farlo. L’unico motivo per cui avresti dovuto nascondermi che Sancho è finito nelle grinfie di Re Tebaldo è perché pensi che a me importi qualcosa della cotta che hai per lui. Ma puoi stare tranquilla, a me non importa.”
I suoi occhi tersi dicevano qualcosa di diverso: fosse anche solo per orgoglio ferito, o semplice delusione… in fondo in fondo un po’ gli importava, e fu quello più di qualsiasi altra cosa a far sanguinare il cuore di Serena.
“Mi dispiace” disse con voce tremante “Non è che ho una cotta… cioè, è che mi sembrava…”
Paolo sorrise dolcemente e Serena si ammutolì.
“Basta così” le suggerì lui pacatamente “Non hai motivo di preoccuparti.”
Le girò le spalle e fece per allontanarsi.
 “Aspetta!” strillò Serena all’ultimo secondo: Paolo si girò con sguardo interrogativo e lei fece un passo incerto verso di lui.
“Non lo vuoi il libro delle traduzioni di latino?” mormorò timidamente.
Paolo non stette molto a pensarci su.
“No” rispose con un sorriso “Non ho più bisogno di niente.”
E se ne andò, stavolta per davvero, con quella sua camminata distratta che provocò in Serena una nuova ondata di quella strana, profonda malinconia. Perché, santo cielo, se erano solo ricordi riuscivano a fare così tanto male?
*          *          *
Il giardino di villa Scarlini della Torre era occupato da un insolito ospite. Veronica marciò verso di lui battagliera e corazzata come un Panzer della seconda guerra mondiale.
“Ancora tu” ringhiò tra i denti “Mi spieghi perché non appesti la tua ricca dimora con la tua puzza sotto il naso, invece di parcheggiarti giorno e  notte nel mio idromassaggio?”
Tebaldo, con molta grazia, sollevò gli occhiali da sole e le lanciò uno sguardo allegro rimanendo tranquillamente disteso nella vasca come se Veronica nemmeno avesse parlato.
“Grimi carissima” sospirò poi con un sorriso abbagliante “Io so che non vedi l’ora di allietare con qualche voce estranea la tua infelice esistenza in questa casa così grande e vuota; ecco perché ti concedo così spesso l’onore della mia presenza.”
“Che fortuna ad averti come santo benefattore.” ringhiò Veronica di pessimo umore: non aveva nessuna voglia di avere Tebaldo tra i piedi. Normalmente la sua presenza la costringeva a stare sul chi vive e benché da una parte cercasse i suoi consigli relativi alla faccenda di Gladi, cominciava a dubitare che servissero a qualcosa, visti gli ultimi deprimenti sviluppi. In quel momento poi Tebaldo era pure immerso nell’idromassaggio, beato come se fosse perfettamente normale alle due di pomeriggio nel mese di settembre: meno vestiti aveva addosso più risultava molesto.
“Ora, la tua onorevole presenza non potrebbe essere richiesta altrove? In qualche decaduto reame siberiano? In Patagonia? Sull’ultimo anello di Saturno?”
Tebaldo chiocciò una risatina e le fece cenno di avvicinarsi.
“Sai che adoro la tua ironia, Grimi carissima, ma comincio a denotare una certa nota isterica nelle tue battutine: hai bisogno di rilassarti. Come faccio io, vedi?”
Veronica vedeva fin troppo bene: il torso nudo di Tebaldo usciva dall’acqua mirabilmente abbronzato e definito e benché cercasse di ignorarlo, era piuttosto difficile non accorgersi di quanto fosse attraente quel maledetto snob altezzoso coi capelli umidi tirati indietro, le ciglia lunghe come quelle di una fanciulla leggermente abbassate, il viso rivolto verso il sole, le braccia toniche distese sul bordo dell’idromassaggio. Molto, molto difficile.
“Dai, vieni dentro anche tu” le sorrise Tebaldo con un lampo verdognolo sotto le ciglia “Sembri tesa come una corda di un violino. Troppo stress non si confà al tuo incarnato.”
L’idromassaggio era rotondo e intimo, impossibile starci in due senza toccarsi: e lei non aveva nessunissima voglia di toccare quella pelle liscia e fresca. Nessuna, nessuna, nessuna.
“No, ho freddo.”
“Ma sei stai sudando!”
“Ho… appena fatto ginnastica.”
“Con quella camicia trasparente e le Louboutin tacco 12?”
“Saranno affari miei se voglio fare ginnastica con un chiodo piantato nei talloni!”
“Io credo che ti imbarazzi stare nella vasca con me.”
“Perché dovrei essere imbarazzata?”
Tebaldo si alzò in piedi e uscì dalla tiepida vasca idromassaggio, e Veronica masticò panico e livore per la sua aria tranquilla: le si avvicinò aggraziato e a suo agio come se non fosse stillante e impudico e fuori posto. E attraente. Molto attraente.
“Già, perché dovresti?” le disse Tebaldo a voce bassa, dritto di fronte a lei.
“Infatti non dovrei.”
Non doveva fare un sacco di cose che stava facendo comunque. Come produrre quantità industriali di ormoni allo stato brado, per esempio; come avere voglia di scappare e di restare nello stesso momento; come non capire perché fosse tanto difficile tenere a bada il battito cardiaco davanti a Tebaldo. Diamine, lei era Grimilde! Mica poteva agitarsi davanti a chiunque fosse anatomicamente gradevole, nemmeno se quel chiunque aveva una faccia da irresistibile stronzo montata su tutto quel ben di Dio. E due occhi verdi e irritanti, arroganti e ironici.
“Stai ancora sudando” le fece notare Tebaldo amabilmente “Non è affatto da Grimilde sudare. Un idromassaggio ti farebbe proprio bene.”
Veronica aprì la bocca per dire a Tebaldo che doveva farsi gli affari suoi e che era troppo stronzo e troppo vicino e troppo svestito, pur sapendo che lui e il suo sorrisetto insolente non stavano aspettando altro che quella provocazione per… per cosa?
In quel momento squillò il telefono delle emergenze: senza scalfirsi di un pollice, Tebaldo maneggiò il suo fido sopracciglio per esprimere contemporaneamente sprezzo, divertimento e arguzia.
“Il gelatinoso plebeo biondo cerca la dolce e incorporea Gladi” predisse romanticamente “Che favolosa storia d’amore. Mi ha così emozionato che torno a mollo ancora un po’.”
Mentre Tebaldo le girava le spalle e rientrava tranquillo nella vasca, dandole modo di ammirare un lato B più che degno del lato A, Veronica si incasinò per qualche minuto cercando di estrarre il cellulare dalla borsa e rispondere con due mani divenute improvvisamente molli, indisciplinate e umidicce.
“Pronto…?”
“Gladi? Ciao, sono Paolo Bianchi.”
La voce era stranamente più formale del solito: Veronica inciampò sulle Louboutin allontanandosi in fretta dall’idromassaggio, anche se sembrava evidente che Tebaldo, assiso con gli occhi chiusi e perfettamente rilassato, la stava decisamente ignorando.
“Ciao Paolo.” si affannò con quella voce sottile e vagamente acuta che le usciva spontanea quando indossava le vesti di Gladi.
“Disturbo?”
“No, mai.”
Subito dopo arrossì, perché anche detta da Gladi quella sembrava una cosa piuttosto allusiva.
“Ehm, cosa posso fare per te, Bianchi?”
“Avrei bisogno di chiedere un cambio di orario per la lezione di oggi.” rispose Paolo deciso.
“E non potevi chiederlo a Veronica?”
“Avrei potuto, ma so che gli appuntamenti li fissi tu.”
Verissimo, ma a Veronica l’ovvio non bastava.
“Ma se non fosse stato così, l’avresti chiesto a Veronica o avresti chiamato comunque me?”
“Come…? Scusa, non capisco la domanda.”
Verissimo anche quello, che nervi! E comunque perché Bianchi era così formale? Veronica ne era perfidamente felice, a Gladi sanguinava il cuore.
“Scusa, lasciamo perdere… Che cambio di orario proponi?”
“Se Veronica è libera, direi che si potrebbe fare subito.”
Veronica stava aspettando Padavandra, la massaggiatrice ayurvedica a domicilio, ma la cancellò dai programmi seduta stante, esultando.
“Sì, si può fare, non ci sono altri appuntamenti nel pomeriggio.”
E se ci fossero stati, avrebbero fatto presto la fine della massaggiatrice ayurvedica, ma questo Bianchi mica doveva saperlo.
“Benissimo. Tu dove sei adesso?”
Veronica e Gladi concordarono entrambe che quella domanda sembrava sospetta.
“A casa.”
“Villa Scarlini?”
No, la palafitta di famiglia in Polinesia.
“Sì, villa Scarlini.”
“E Veronica è lì con te?”
“Direttamente a portata di occhio.” si spazientì Gladi lanciando un’occhiata allo specchio da dove Veronica la ricambiò perplessa.
“Posso chiedere un altro cambio?”
“Quello che vuole, Bianchi, la nostra agenda è come molle cera nelle vostre mani.”
“Vengo io a villa Scarlini per la lezione.”
Tum! Il cuore di Veronica alias Gladi scivolò giù e andò a schiantarsi giusto sotto l’ombelico.
“No.”
“Eppure, mi avevi detto tu che non c’erano problemi. Anzi, da come sono andate le prime due lezioni credimi, Veronica sarà felicissima di poter stare a casa sua in spazi aperti e lussuosi invece di chiudersi nella scatoletta di sardine piena di invadenti e villani familiari che è casa mia. Senza contare che sarei davvero felice di conoscerti di persona.”
Sembrava una minaccia di morte; un dottore che legge il referto e spara il nome di una malattia orribile e pustolosa. Veronica già sudava quando Galdi iniziò a sudare con lei.
“Non è possibile” disse in fretta cercando di pensare alacremente, anche se il neurone le si era inceppato e vagava sbattendo nella scatola cranica come una falena impazzita contro la lampadina “Stanno… eh, stanno facendo dei lavori di ristrutturazione.”
“Mica dappertutto. Sono certo che ci sarà un metro quadro tranquillo nei cento acri di villa Scarlini dove poter fare lezione.”
“Ma abiti lontanissimo e non hai la macchina… coi mezzi arrivare qui è un delirio.”
“Mi hanno accompagnato, siamo già davanti al cancello d’ingresso. Il tizio alla reception ci tiene sotto tiro.”
Bianchi era alla reception: a meno di 50 metri da lei, a meno di 50 metri dallo scoprire chi era Gladi e chi era Grimilde. Era già sfacciatamente lì, quel piccolo topo domestico trasformatosi di colpo in arrogante visitatore: lì!! Fantascienza pura! Perché Bianchi doveva dimostrarsi così sicuro e deciso proprio in quel momento e proprio in quel frangente? Poi qualcosa, un sospetto freddino, serpeggiò lungo la schiena di Veronica.
“Siamo…? Tu e chi?”
“Io e Dante” rispose Bianchi con una voce che voleva essere tranquilla e invece risultò tesa “Mio fratello volevo lasciarlo a casa, ma quando ha saputo che c’era anche Sancho è voluto venire a tutti i costi. Ma l’ho catechizzato a dovere, si comporterà come un perfetto gentleman.”
Veronica si sentì le gambe molli e il sudore le coprì il labbro superiore mentre il panico cominciava a montarle dentro come la marea. Ma come si permetteva Bianchi di prendersi quelle libertà? Chi gli aveva dato il permesso di arrivare nell’Olimpo di villa Scarlini col fratello palleggiatore a seguito? E poi che diavolo centrava lui con Sancho? Grimilde era letteralmente esterrefatta dalla cafoneria dimostrata dal dolce Paolo. A meno che…
La domanda cruciale: chi aveva parlato a Paolo Bianchi di Sancho?
lo sguardo le scattò repentino verso l’idromassaggio dove Tebaldo stava a mollo con invidiabile noncuranza.
“Hai per caso parlato con Tebaldo? Voglio dire, il cugino di Veronica, Tebaldo Santandrea della Torre.”
“Si, certo” rispose prontamente Paolo, vagamente aggressivo “E’ stato molto cortese a invitare anche la mia famiglia. Allora, ci fai entrare? Il tizio qui fuori ha caricato la carabina, non mi sembra un segno di grande accoglienza.”
  
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