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Autore: boll11    06/04/2006    22 recensioni
Nel mio immaginario, Severus ha passato la sua infanzia, prima dell’arrivo ad Hogwarts, in una scuola babbana, per volere del padre.
Un'infanzia non molto lieta.
Una famiglia che non è un idillio.
Anzi, tutt’altro.
Genere: Triste, Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non Classificato

NON CLASSIFICATO

Nel mio immaginario, Severus ha passato la sua infanzia, prima dell’arrivo ad Hogwarts, in una scuola babbana, per volere del padre.
Un'infanzia non molto lieta.
Una famiglia che non è un idillio.
Anzi, tutt’altro.
E di questo periodo parlo in questa piccola “one shot”.
Ringrazio sentitamente Nykyo che mi ha fatto da beta reader.
Il suo giudizio è un continuo stimolo.
E quindi dedico questo piccolo Severus a lei.
Che il “nostro” meraviglioso personaggio, ci faccia sempre sognare.


Buona lettura a tutti.
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Il giovane Severus era chino sul suo quadernetto, cercando di far funzionare la sua biro.
Sbuffava e scuoteva la penna senza ottenere neanche un lieve segno.
Odiava quell'oggetto!

Inutile e testardo.
La pagina bianca era solcata da tratti incisi dalla sua furia.
Ma niente inchiostro macchiava quel nitore.
Sospirò e si sfregò impaziente una guancia, velata da un livido giallastro.
Alzò gli occhi.
Neri e duri.
La maestra era seduta alla cattedra.
Gli occhiali in bilico sul naso minuscolo.
Le rughe a formare una ragnatela attorno ai suoi occhi e alla sua stupida bocca.
Ad osservare la classe intenta in quello stupido compito.

Descrivi i tuoi genitori e racconta il tuo rapporto con loro.

A parte che la sua dannata biro si rifiutava risolutamente di funzionare, lui non sapeva assolutamente cosa scrivere.
Spaziò lo sguardo sui suoi compagni.
Tutti intenti a imbrattare le loro pagine.
Odiava anche loro con tutte le loro penne funzionanti.
Risoluto sollevò la sua cartella e dopo averla aperta, cercò con la mano la sua fida piuma.
Senza staccare gli occhi dalla cattedra.
Il suo compagno di banco, un secchione di proporzioni cosmiche, lo fissò stringendo le labbra in un moto di disgusto.
Abbracciò il suo quaderno, quasi sdraiandocisi sopra.
Il lungo naso a toccare le pagine fitte di minuscoli caratteri ordinati.
Severus lo fissò con un ghigno stampato sulle labbra.
Sgranò gli occhi e assunse la sua faccia da pazzo.
L'aveva studiata per ore allo specchio e l'effetto gli era sembrato terrificante.
Ma tanto quello non lo guardava...
Lasciamo perdere.
Quello non era uno dei suoi tormentatori!
Con lui era inutile.
Quello lo scostava e basta.

Cercò ancora l'inchiostro.
Aprì delicatamente la boccetta di vetro e vi immerse la piuma.
Rimase con lo sguardo fisso al bianco della pagina torturata.
La piuma sollevata a mezz'aria.
Lo sguardo annebbiato.
L'espressione completamente vuota.

Due banchi dietro Severus, con lo sguardo fisso su quella schiena esile, stava Mark.
Un bimbo prestante, con già i tratti di un giovane uomo.
Gli occhi sottili e lo sguardo cattivo.
Meditava sul suo compito già finito per metà.
Ma ogni tanto i suoi pensieri vagavano assorti su quella schiena china.
L'idiota aveva di nuovo tirato fuori quello stupido oggetto.
Ogni cosa di lui lo infastidiva.
Le sue stranezze, e il suo ghigno un po' folle.
Ma soprattutto quegli occhi neri.
Occhi che ti giudicavano.
Occhi che ti guardavano come se fossi poco meno che una schifezza.
E lui gliel'aveva chiusi più di una volta.
Pugni ciechi e precisi.
Su quel viso pallido.
Su quel corpo gracile.
Su quelle labbra sottili.
Su quegli occhi più neri della lavagna dove la maestra scriveva le sue stupide lezioni.
E quando il sangue gli sgorgava dalle labbra spaccate, quel sangue rosso sul pallido biancore del viso, si calmava.
Un ultimo calcio annoiato e via, ai giochi di sempre.
Bravo figlio del suo bravo papà.

Accanto a lui, il suo amico di sempre, David.
Bello da sembrare quasi femmineo.
Lunghi capelli biondi.
Larghi occhi celesti.
Pelle di porcellana.
Fragile e perfido.
Se Mark era il braccio, lui era la mente.
Astuto e calcolatore.
Adorato dalla vecchia maestra, per il suo modo disarmante di atteggiarsi a cucciolo.
Occhioni languidi e timidi sorrisi, nascondevano ghigni da psicopatico.
Divertimento primario: tormentare animali di ogni genere e Severus.
Aveva finito il suo compito.
La sua grafia sghemba e spigolosa copriva a malapena due facciate di quaderno.
Aveva sempre avuto il dono della sintesi.
Brevi frasi terribilmente corrette.
Soggetto, oggetto e verbo.
Leggerle era come tuffarsi in un bagno di banalità.

Mio padre è un ingegnere.
Mia madre è casalinga.
Io sono figlio unico.
I miei genitori mi vogliono bene...

Si chinò verso il compagno per sussurrargli qualche malignità all'orecchio, coprendosi la bocca con la mano.
Lampi divertiti nei suoi occhioni celesti, fissi sulla schiena del bambino seduto due banchi avanti.

Dall'altro lato dell'aula, nelle ultime file, i gemelli, Simon e Arthur.
Bruni e piccoletti.
Ognuno un fascio di nervi.
Sempre in movimento.
Sempre un continuo scattare.
Irosi e caciaroni.
L'unico bisbiglìo concitato, proveniva infatti da loro.
Giocavano a battaglia navale.
I libri e i quaderni a nascondere le pagine fitte di ics.
Colloquio serrato.
B3 - acqua - C5 - acqua - I9 - maledizione, colpito!
Avevano buttato giù quattro righe per uno, nei primi cinque minuti.
Poi si erano impegnati in quel loro eterno giocare.
Non erano granché bravi a scuola.
Ma ai loro genitori non interessava.
Figurarsi a loro.

Un foglietto prese a passare tra i banchi, inviato dalla mente di quella piccola banda di
monelli.

Dopo scuola ci divertiamo un po'.
Vi va di leggere e commentare il tema dell'idiota?


Cenni affermativi dai vari banchi.
Poi le teste si chinarono nuovamente sui quaderni e sui fogli con navi colpite e affondate, maledizione!

Il piccolo Severus guardò il suo quaderno, dopo quella che gli sembrò un'eternità.
Grosse gocce di inchiostro, colato dalla sua piuma, macchiavano le pagine.
Solo quelle gocce.
Neanche una parola.
Merlino, che scrivo?
Posò la piuma nella boccetta e strappò con ira quei fogli inutilizzabili.
Il rumore delle pagine lacerate malamente, fece alzare più di una testa, compresa quella della maestra che lo fulminò col suo sguardo severo.
Non parlò.
Si portò l'ossuto indice alle labbra, ammonendolo al silenzio.
Severus chinò il capo.
Sentì dietro di sè un risolino soffocato.
Avvampò.
Riprese la piuma e si sforzò di scrivere qualcosa.
Qualunque cosa, Severus, dai.
Tanto nessuno conosce i tuoi genitori.
Inventa, dai, inventa.
Si prese la testa tra le mani.
Altre gocce.
Come al rallentatore le vide scivolare dalla punta della piuma giù su quel bianco abbagliante.
Sospiro.
E lentamente, con fatica, qualcosa scrisse.

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Il suono della campanella fece il miracolo di risvegliare dalla sonnolenza tutti quei bimbi.
E dopo il forzato silenzio, il rumore cacofonico di quelle vocette infantili esplose, alternato a risatine e al rumore delle sedie scostate con impeto.
La voce della maestra, così profonda in quel corpo esile, sovrastò tutto quel caos:
"Finirete il tema a casa e me lo consegnerete domani."
Tutti annuirono.
Rispettosi sfilarono davanti a lei verso la libertà dell'uscita.
Verso i loro giochi imminenti.
Qualcuno si attardò a rifare la cartella.
Severus era tra quelli.
Ripose con cura le sue poche cose.
Si sistemò la camicia che gli era scivolata fuori dai jeans.
Si riassettò con cura il maglioncino rosso, che amava tanto.
Nuovo, e con ancora il profumo così buono, che sempre hanno le cose nuove.
Si attardò un po', ad annusarne una manica.
Un sorriso soddisfatto sul visetto pallido.
Tirò fuori le punte del colletto.
Si portò dietro le orecchie, le lunghe bande dei suoi capelli neri poi, caricata la cartella, uscì salutando la maestra con un educato "Arrivederci."
Quella neanche lo guardò.
Non rispose.
A lui non rispondeva mai.

Fuori, la lunga fila degli attaccapanni.
Vuota, ormai, se non per il suo cappottino.
Quell'orrendo cappottino nero.
Lo prese con malgarbo e se lo infilò.
Poi pensieroso uscì.
Quel maledetto tema.
Stupido come la maestra.
Impallidì a quel pensiero irriguardoso.
Ma si rifiutò di rimangiarselo.
Lei non lo salutava mai.

Il cortile era deserto.
Lo attraversò velocemente.
Il cancello aperto lo chiamava.
Sei quasi fuori, finalmente.
Prese a correre con giovanile irruenza, ebbro del vento che gli raffreddava le gote calde.
In un attimo si trovò a terra.
Vide la cartella schizzare lontano per l'impeto della caduta.
Sentì le ginocchia sgraffiarsi nell'attrito.
Le mani poggiarono a terra con un lieve ritardo.
Riuscì, quindi, a sbattere il mento e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Le risate aperte di quei quattro imbecilli lo irritarono.
Cercò di alzarsi in piedi.
Il calciò sul fianco gli tolse l'aria.
"Mark" pensò, prima di raccogliersi le gambe al grembo, frenetico.
Se stava raccolto così, non potevano dargli i calci sulla pancia.
Li aveva provati già, tante grazie.
Facevano un male d'inferno.

"Adesso, ci leggiamo il tema dell'idiota. E ci facciamo quattro risate."
David, questo.
Brutti, brutti stronzi!
Lacrime di rabbia e di frustrazione cominciarono a rigargli il viso.
Ma non disse nulla.
Aveva imparato che non era salutare.
David, rovistò nella sua cartella buttandone il contenuto in terra.
La boccetta di inchiostro si infranse a macchiare il brecciolino.
La sua piuma venne piegata e gettata lontano.
Stufo di perdere tempo, prese la cartella e la capovolse rovesciando completamente tutto quello che vi era dentro.
Un'infinità di piccole sciocchezze.
Ricordi di bimbo, mischiati ai libri e ai quaderni.
Calpestati e irrisi.
Rotti.
Alcune biglie colorate rotolarono lontano.
Qualche fiore secco uscì dalla confortevole tana delle pagine, e si infranse a terra come polvere.
E altro ancora.
Un minuscolo pupazzetto.
L'unico cagnolino che avesse mai potuto possedere.
Compagno delle sue solitudini.
Custode dei suoi segreti.
Gioco amato.
Nella polvere del vialetto.
Altre lacrime.
E la visione dei gemelli che calpestavano il suo unico amico con gioia frenetica, gli infranse il cuore come nessun calcio avrebbe mai potuto fare.

David finalmente trovò quello che cercava.
Aprì il quadernetto colorato e cominciò a leggere quello che faticosamente Severus aveva scritto.
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Mia madre si chiama Eileen e mio padre Tobias.

Che stupidi nomi! Quello del padre sembra il nome di un cane.

Mia madre è bellissima.

Si certo! Se assomiglia a te è un mostro.

Si veste con dei vestiti molto colorati, pieni di fiori.

Bleah!

Fa la casalinga, e quando lavora canta sempre delle bellissime canzoni allegre.

Avrà una voce ridicola!

Mio padre è molto alto e molto forte.

Bum! Il mio sicuramente lo stende...

Quando torna a casa dal lavoro, mi solleva tra le braccia e mi fa fare le capriole in aria.

Che gioco stupido!

Poi mi sorride e mi chiede cosa ho fatto a scuola.

La cacca...

Poi bacia la mamma e gli dice tante cose belle.

Si, certo.

E ridiamo tutti e tre.

Sicuro, sono tre idioti!

Mi vogliono molto bene.

Questa è impossibile. Come si fa a voler bene a un topo di fogna...
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David girò la pagina.
"Beh, non hai scritto altro idiota? Il divertimento è già finito?"
Severus lo guardò furioso.
E prima di pensare alle conseguenze, la sua bocca si aprì con un sibilo sprezzante:
"Sei uno schifoso pezzo di merda. Se ti vuoi divertire di più dovresti leggere ai tuoi amici le cretinate che scrivi tu."
Vide Mark scattare come una molla alle sue parole.
Si chinò e lo sollevo per il colletto del maglione.
Il suono orribile della lana che si lacerava.
Il suo maglione nuovo!
Il pugno lo colpì in pieno stomaco facendolo piegare in due.
Le risate sgangherate dei gemelli, gli risuonarono odiose nelle orecchie.
Provo a raddrizzarsi.
I pugni di Mark invece lo fecero cadere di nuovo a terra.
Il sapore del suo sangue era buono e familiare.
Si leccò le labbra, mentre i calci gli arrivavano ovunque.
Ma sulla pancia, no.
Oh, no!
Ormai era troppo bravo a coprirsela.
Ancora qualche calcio ben assestato.
Qualche aspra risata.
E via tutti, in un mulinare di giovani gambe.
Via alle loro belle e buone famiglie.

Severus si alzò lentamente.
Guardò con gli occhi pieni di lacrime lo sfacelo della sua roba.
Sparsa ovunque lì attorno.
Si inginocchiò e raccolse lentamente quelle povere cose, rimettendole nella cartella impolverata.
Grossi goccioloni gli rotolarono sulle guance, lasciando scie pulite sul viso sporco.
Tutto.
Avevano rotto tutto.
Persino i libri e i quaderni.
In un angolo della sua visuale, un angolo che volutamente non metteva a fuoco, il suo cagnolino decapitato.
Aveva paura anche a toccarlo.
Lo avrebbe lasciato lì.
E quando finalmente quel caos fu riordinato vide, con sconcertante chiarezza, che l'unica cosa rimasta intatta, l'unica, era quella stupida, inutile penna biro.

  
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