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Autore: SeleneLightwood    12/08/2011    3 recensioni
Sono passati sei mesi dalla morte di Pavarotti, e Kurt torna a visitare la sua tomba, proprio nel giorno in cui ricorre l'anniversario della morte di sua madre. Saranno l'estate, il bosco e il tanto amato faggio a consolarlo, con un piccolo aiuto di Blaine.
[dal testo]
«Non è meraviglioso?» mormorò Kurt. Una mano bollente gli sfiorò il gomito.
«Si, lo è».
Era sempre bollente, Blaine, sia che fosse inverno inoltrato sia che facessero quaranta gradi all’ombra. Era caldo, pieno di vita, sensuale e terribilmente dolce. Come avrebbe potuto Kurt non innamorarsi di lui?
«Ti manca?» domandò il ragazzo. Non v’era una nota interrogativa nella sua voce, tuttavia.
«Molto» rispose. «Ma sono sicuro che se fosse stata qui mi avrebbe rimproverato per tutta questa malinconia, e mi avrebbe suggerito di cantarci sopra. Gli saresti piaciuto sicuramente, Blaine».
Blaine sorrise, grato. Gli passò una mano sulle spalle e gli baciò delicatamente una guancia. Non era un gesto a cui si lasciava andare spesso, nemmeno quando erano da soli. Negli ultimi tempi erano passione, si accendevano spesso di sentimenti che non credevano di avere. Quel giorno no, quel giorno era calmo e silenzioso, docile.
[Questa storia partecipa al concorso one-shot dell'estate]
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Image and video hosting by TinyPic L’albero della vita

Lalbero della vita

 

 

Il pomeriggio era limpido e fresco, sebbene fosse una giornata estiva. Quasi si stentava a crederci, visti i giorni di calura in cui era caduto l’Ohio alla fine di giugno. L’aria era fresca e preannunciava un imminente temporale estivo, di quelli che durano cinque minuti ma tirano giù tutta l’acqua del mondo, in una sorta di spettacolare apocalisse.

Il televisore del soggiorno ronzava pigro mentre una voce noiosa argomentava dell’ultima terribile carenza d’acqua in qualche sperduto angolo del mondo, mentre il cane del vicino abbaiava al tosaerba in azione e i bambini della casa di fronte si rincorrevano in giardino.

Kurt posò la sua copia sgualcita di Harry Potter e i Doni della Morte sopra al letto, di fianco al DVD di Wicked, e appoggiò la fronte al vetro fresco della finestra chiusa, osservando il viavai annoiato delle macchine e le poche persone che passeggiavano lungo i marciapiedi. Un’anziana signora si fermò a chiacchierare con un’amica di fronte al portone di casa, mentre il gatto le osservava cauto dalla finestra. Staccò gli occhi dalla strada e lanciò un’occhiata distratta all’orologio. Erano già le sei.

Aveva passato tutta la giornata a trastullarsi per casa, svegliandosi ad un’ora indecente e facendo pranzo solo con un succo di frutta e un toast. Suo padre si era di nuovo dimenticato di comprare le sue verdure preferite, gli spinaci. Si vociferava che facessero molto bene alla pelle.

D’altro canto, era comprensibile che suo padre dimenticasse un sacco di cose, man mano che si avvicinava quel periodo dell’anno. Luglio.

Nonostante Burt l’inverno precedente avesse sposato Carole, dimenticare la prima donna che aveva amato, e che aveva perso troppo presto era impossibile. Non fraintendete, Burt amava sua moglie, ma la madre di Kurt era una donna stupenda, anche se lui la ricordava appena.

Sapeva che aveva ereditato da lei la passione per i maglioncini indossati come vestiti e la passione per l’arte in tutte le sue splendide forme. Uno dei ricordi più belli che conservava di lei era la canzone che le cantava tutte le sere per farlo addormentare, “Little Star”.

Era difficile dimenticare una donna così dolce e piena di vita.

L’estate se l’era portata via una decina di anni prima, lei che era così bella e solare, e Kurt era rimasto da solo con un padre che amava e che gli voleva bene, ma non lo capiva fino in fondo. Non come avrebbe fatto una madre.

Suo padre, come ogni anno il giorno dell’anniversario della morte di sua madre, si era rintanato nel giardino sul retro a coltivare le sue adorate peonie. Ne vedeva il profilo dalla finestra che dava sul retro. Chino sul cespuglio, lo curava amorevolmente come fosse stato un bambino malato. Di solito Kurt lo aiutava – era un bel modo di ricordare la mamma, con dei fiori – ma quest’anno c’era Carole con Burt. Se ne stava inginocchiata di fianco a lui e gli passava il rastrello di tanto in tanto, sorridendo dolce.

Kurt ne era felice. Era bello che ci fosse qualcuno di così importante, a fianco di suo padre.

Comunque, c’era un posto che voleva visitare quel giorno, e avrebbe approfittato di quei momenti solo per sé per andarci.

Alle sei e venti era pronto e stava scendendo le scale di casa. Incontrò Finn e Rachel in cucina, impegnati nella visione estiva annuale di Grease, e si defilò in punta di piedi. Rachel l’avrebbe senz’altro sfidato in un duetto, se si fosse fatto vedere.

Entrò in macchina e accese il motore. La radio partì da sola, trasmettendo l’ultimo inno sacro di Lady Gaga, tormentone dell’estate.

Fischiettando il motivetto fece retromarcia e uscì in strada, mentre il sole iniziava a scendere lentamente sulle strade di Lima e i lunghi raggi dorati e rossi riflettevano sull’asfalto tiepido il cremisi del tramonto.

 

Parcheggiò al limitare del bosco e scese dalla macchina facendo tintinnare la giacca di lustrini. Si sistemò meglio il gilet e si incamminò tra gli alberi radi che fiancheggiavano la periferia della città, fino ad addentrarsi nella boscaglia. L’ultima volta che c’era stato era autunno inoltrato, e faceva già abbastanza freddo. Ricordava le foglie dorate e rossastre – lo stesso colore del tramonto alle sue spalle – che cadevano delicatamente a terra, e gli alberi spogli che si stagliavano scheletrici contro il cielo grigio e gelido.

D’estate il bosco aveva tutto un altro aspetto. Era vivo, verdeggiante. Sembrava che ogni singolo albero respirasse con polmoni propri, e che ogni singolo filo d’erba o cespuglio di rovi si rallegrasse di quella giornata più fresca del solito.

Le foglie sugli alberi erano verdi, piene di vita. Ondeggiavano armoniose seguendo docilmente il venticello, e il fruscio era un tocco rilassante, magico. Il bosco parlava una lingua unica, d’estate, che se si ascoltava attentamente si finiva per comprendere.

Era una musica che solo gli animi più fini potevano ascoltare davvero, differente dal tamburellare della pioggia che picchiettava su quegli stessi terreni, spogli, d’autunno.

L’estate aveva un’armonia tutta sua, che né il caldo né l’uomo erano mai riusciti a sradicare. Era qualcosa di radicato troppo a fondo per poter essere portato via.

Arrivato davanti a quell’albero, Kurt si fermò. Contemplò le foglie verde smeraldo del faggio per qualche minuto, cercando di cogliere il loro sussurrare sommesso, dolce come musica.

Ricordava di aver scelto quel faggio per la sua maestosità, per il silenzioso dominio che esercitava dal centro del bosco. Appena lo aveva visto aveva deciso che era lui ciò che cercava, ma non poteva certo immaginare che d’estate si sarebbe ritrovato uno spettacolo così mozzafiato.

I rami erano lunghi e sottili, e il tronco era saldo nel terreno. Un paio di radici facevano capolino dalla terra, ma la cosa più bella era la serenità che trasmetteva semplicemente standosene lì ad osservare il mondo che lo circondava.

Kurt si piegò sulle ginocchia e strappò un po’ d’erba dalla tomba di Pavarotti, gettandola di lato.

Erano passati sei mesi dalla sua candida morte, da quel pomeriggio di novembre in cui lui e Blaine lo avevano seppellito sotto quel faggio, sotterrando insieme alla sua minuscola bara e al suo esile corpicino tutti i loro dispiaceri per aver perso le Regionali. Aveva ricordi vividi di quel periodo con Blaine. Le loro labbra unite in un’ora rubata ad una canzone, il suo sorriso durante l’esibizione, la sua grinta durante Raise your glass, la sua mano calda proprio lì, davanti a quell’albero spoglio e silenzioso.

«Ciao, Pavarotti» sussurrò alla terra tiepida.

Un fruscio alle sue spalle lo fece alzare in piedi, ma non si voltò.

«Sapevo che ti avrei trovato qui».

Kurt sorrise tra sé e alzò delicatamente le spalle. Le cicale continuavano delicatamente a frinire, e una tortora da qualche parte lanciò il suo basso grido.

«Non è meraviglioso?» mormorò Kurt. Una mano bollente gli sfiorò il gomito.

«Si, lo è».

Era sempre bollente, Blaine, sia che fosse inverno inoltrato sia che facessero quaranta gradi all’ombra. Era caldo, pieno di vita, sensuale e terribilmente dolce. Come avrebbe potuto Kurt non innamorarsi di lui?
«Ti manca?» domandò il ragazzo. Non v’era una nota interrogativa nella sua voce, tuttavia. Suonava più come un’affermazione, una constatazione.

Kurt sospirò e si sporse verso l’albero, cercando di far entrare nei polmoni quanta più aria fresca possibile. Si girò verso Blaine, che gli sorrideva dolcemente. Sapeva che non intendeva il povero Pavarotti, pace all’anima sua.

«Molto» rispose. «Ma sono sicuro che se fosse stata qui mi avrebbe rimproverato per tutta questa malinconia, e mi avrebbe suggerito di cantarci sopra. Gli saresti piaciuto sicuramente, Blaine».

Blaine sorrise, grato. Gli passò una mano sulle spalle e gli baciò delicatamente una guancia. Non era un gesto a cui si lasciava andare spesso, nemmeno quando erano da soli. Negli ultimi tempi erano passione, si accendevano spesso di sentimenti che non credevano di avere, condividevano emozioni che non pensavano di poter provare. Quel giorno no, quel giorno era calmo e silenzioso, docile.

Erano l’edera che cresceva tranquilla a lato del faggio. Si godeva il tramonto, assorbendo i raggi del sole, e si trastullava nella malinconia della prima sera.

«Sarebbe stata orgogliosa di te e di ciò che sei diventato, Kurt. Ne sono certo. Io lo sono» disse. Kurt gli sorrise e socchiuse gli occhi, rubandogli un leggero bacio a fior di labbra.

Rimasero abbracciati a contemplare l’albero a lungo, quel faggio estivo che li guardava amorevolmente dall’alto come avrebbe fatto una madre. Sua madre.

Le cicale continuarono a cantare, le foglie ondeggiavano fruscianti al vento e un uccellino si posò su uno dei rami più bassi, osservando curioso quella coppia di ragazzi che se ne stava in silenzio ad assorbire la natura in tutte le sue più meravigliose forme.

Kurt gli rivolse un sorriso dolce.

«Sai» disse a Blaine, piegando la testa. «Non credo che comprerò di nuovo un canarino come avevo pensato. Di Pavarotti ce n’è uno solo».

Blaine sorrise.

«Puoi sempre comprare un pesce rosso. Non è il tuo animale del chakra interiore o qualcosa del genere?» rispose ridacchiando.

Kurt scosse la testa.

«Sei così sexy quando ti comporti da macho che non sa nulla di yoga!» ridacchiò.

Blaine si esibì in una finta espressione offesa, stringendolo di più a lui subito dopo.

«Stavo rileggendo Harry Potter e i Doni della Morte, prima. Forse non era la giornata migliore per ripassare l’atroce, candida morte di Edvige.» raccontò scuotendo la testa.

Blaine gli lanciò uno sguardo curioso.

«Vuoi cantare Blackbird anche a lei?»

Kurt gli diede un virilissimo pugno sulla spalla e Blaine rise forte, spaventando un paio di cavallette che saltarono via infastidite. Iniziò a canticchiare sottovoce la prima strofa, e Kurt rise e lo prese sottobraccio.

«Andiamo, tuo padre ci aspetta per cena».

Diedero un ultima occhiata al faggio e si voltarono, seguiti dai raggi del sole che cercavano i loro visi per proiettare ombre felici sugli occhi e sulle labbra.

Il faggio estivo rimase lì a guardarli andare via, docile e silenzioso, certo che d’autunno quegli stessi ragazzi sarebbero tornati a fargli visita, capaci di cogliere anche la musica tamburellante e scricchiolante di quella stagione. L’armonia d’estate del bosco li seguì fino al limitare della foresta, dove si fermò per osservarli allontanarsi insieme. Il faggio sorrise e scosse le chiome piene di foglie, abbandonandosi al dolce ricordo di vita umana, calda e accogliente, che vibrava sopra le sue dormienti radici.

 

 

 

 

Note dell’Autrice

 

Salve, ragazzi! Questa è la seconda storia che pubblico su Glee, e spero che non faccia tanto pena…forse è un po’ troppo descrittiva, lo ammetto, ma ho pensato di dare più spazio alla percezione che ha Kurt di Blaine, della sua famiglia e dell’estate che a dialoghi superflui.

Non so bene cosa dire, in realtà.

Ho scritto questa storia perché mi ha convinto Ilaryf90, visto che a partecipare al concorso della shot dell’estate all’epoca erano solo in quattro, e mancava una persona per renderlo valido.

Ora siamo in sei – sempre pochissimi, uhuh – e devo dire che non mi aspetto nemmeno mezza recensione, è un argomento troppo complicato o noioso, secondo me.

 

Vi siete rotti tanto gli zebedei a leggere? Fatemi sapere, accetto tutte le critiche! Soprattutto, se notate errori grammaticali o di sintassi, fatemelo presente, e provvederò a correggere la storia.

 

Grazie mille, e tanti piccoli pupazzetti di Kurt a tutte.

 

Recensite, abbiamo i biscottini!

 

SeleneLightwood

   
 
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