L’albero della vita
Il pomeriggio era limpido e fresco, sebbene fosse
una giornata estiva. Quasi si stentava a crederci, visti i giorni di calura in
cui era caduto l’Ohio alla fine di giugno. L’aria era
fresca e preannunciava un imminente temporale estivo, di quelli che durano
cinque minuti ma tirano giù tutta l’acqua del mondo,
in una sorta di spettacolare apocalisse.
Il televisore del
soggiorno ronzava pigro mentre una voce noiosa
argomentava dell’ultima terribile carenza d’acqua in qualche sperduto angolo
del mondo, mentre il cane del vicino abbaiava al tosaerba in azione e i bambini
della casa di fronte si rincorrevano in giardino.
Kurt posò la sua copia
sgualcita di Harry Potter e i Doni della Morte sopra al letto, di fianco al DVD
di Wicked,
e appoggiò la fronte al vetro fresco della finestra chiusa, osservando il
viavai annoiato delle macchine e le poche persone che passeggiavano lungo i
marciapiedi. Un’anziana signora si fermò a chiacchierare con un’amica di fronte
al portone di casa, mentre il gatto le osservava cauto dalla finestra. Staccò
gli occhi dalla strada e lanciò un’occhiata distratta all’orologio. Erano già
le sei.
Aveva passato tutta la
giornata a trastullarsi per casa, svegliandosi ad un’ora indecente e facendo
pranzo solo con un succo di frutta e un toast. Suo padre si era di nuovo
dimenticato di comprare le sue verdure preferite, gli spinaci. Si vociferava
che facessero molto bene alla pelle.
D’altro canto, era
comprensibile che suo padre dimenticasse un sacco di cose, man mano che si
avvicinava quel periodo dell’anno.
Luglio.
Nonostante Burt l’inverno
precedente avesse sposato Carole, dimenticare la prima donna che aveva amato, e
che aveva perso troppo presto era
impossibile. Non fraintendete, Burt amava sua moglie, ma la madre di Kurt era
una donna stupenda, anche se lui la ricordava appena.
Sapeva che aveva ereditato
da lei la passione per i maglioncini indossati come vestiti e la passione per
l’arte in tutte le sue splendide forme. Uno dei ricordi più belli che
conservava di lei era la canzone che le cantava tutte le sere per farlo
addormentare, “Little Star”.
Era difficile dimenticare
una donna così dolce e piena di vita.
L’estate se l’era portata
via una decina di anni prima, lei che era così bella e solare, e Kurt era
rimasto da solo con un padre che amava e che gli voleva bene, ma non lo capiva
fino in fondo. Non come avrebbe fatto una madre.
Suo padre, come ogni anno
il giorno dell’anniversario della morte di sua madre, si era rintanato nel
giardino sul retro a coltivare le sue adorate peonie. Ne vedeva il profilo
dalla finestra che dava sul retro. Chino sul cespuglio, lo curava amorevolmente
come fosse stato un bambino malato. Di solito Kurt lo aiutava – era un bel modo
di ricordare la mamma, con dei fiori – ma quest’anno
c’era Carole con Burt. Se ne stava inginocchiata di fianco a lui e gli passava il rastrello di tanto in tanto, sorridendo
dolce.
Kurt ne era felice. Era
bello che ci fosse qualcuno di così importante, a fianco di suo padre.
Comunque, c’era un posto
che voleva visitare quel giorno, e avrebbe approfittato di quei momenti solo
per sé per andarci.
Alle sei e venti era
pronto e stava scendendo le scale di casa. Incontrò Finn e Rachel in cucina,
impegnati nella visione estiva annuale di Grease,
e si defilò in punta di piedi. Rachel l’avrebbe senz’altro sfidato in un
duetto, se si fosse fatto vedere.
Entrò in macchina e accese
il motore. La radio partì da sola, trasmettendo l’ultimo inno sacro di Lady Gaga, tormentone dell’estate.
Fischiettando il motivetto
fece retromarcia e uscì in strada, mentre il sole iniziava a scendere
lentamente sulle strade di Lima e i lunghi raggi dorati e rossi riflettevano
sull’asfalto tiepido il cremisi del tramonto.
Parcheggiò al limitare del
bosco e scese dalla macchina facendo tintinnare la giacca di lustrini. Si
sistemò meglio il gilet e si incamminò tra gli alberi radi che fiancheggiavano
la periferia della città, fino ad addentrarsi nella
boscaglia. L’ultima volta che c’era stato era autunno inoltrato, e faceva già
abbastanza freddo. Ricordava le foglie dorate e rossastre – lo stesso colore
del tramonto alle sue spalle – che cadevano delicatamente a terra, e gli alberi
spogli che si stagliavano scheletrici contro il cielo grigio e gelido.
D’estate il bosco aveva
tutto un altro aspetto. Era vivo, verdeggiante. Sembrava che ogni singolo
albero respirasse con polmoni propri, e che ogni singolo filo d’erba o
cespuglio di rovi si rallegrasse di quella giornata più fresca del solito.
Le foglie sugli alberi
erano verdi, piene di vita. Ondeggiavano armoniose seguendo docilmente il
venticello, e il fruscio era un tocco rilassante, magico. Il bosco parlava una
lingua unica, d’estate, che se si ascoltava attentamente si finiva per
comprendere.
Era una musica che solo
gli animi più fini potevano ascoltare davvero, differente dal tamburellare
della pioggia che picchiettava su quegli stessi terreni, spogli, d’autunno.
L’estate aveva un’armonia
tutta sua, che né il caldo né l’uomo erano mai riusciti a sradicare. Era
qualcosa di radicato troppo a fondo per poter essere portato via.
Arrivato davanti a quell’albero, Kurt si fermò. Contemplò
le foglie verde smeraldo del faggio per qualche minuto, cercando di cogliere il
loro sussurrare sommesso, dolce come musica.
Ricordava di aver scelto
quel faggio per la sua maestosità, per il silenzioso dominio che esercitava dal
centro del bosco. Appena lo aveva visto aveva deciso che era lui ciò che cercava, ma non poteva certo
immaginare che d’estate si sarebbe ritrovato uno spettacolo così mozzafiato.
I rami erano lunghi e
sottili, e il tronco era saldo nel terreno. Un paio di radici facevano capolino
dalla terra, ma la cosa più bella era la serenità che trasmetteva semplicemente
standosene lì ad osservare il mondo che lo circondava.
Kurt si piegò sulle
ginocchia e strappò un po’ d’erba dalla tomba di Pavarotti, gettandola di lato.
Erano passati sei mesi
dalla sua candida morte, da quel pomeriggio di novembre in cui lui e Blaine lo
avevano seppellito sotto quel faggio, sotterrando insieme alla sua minuscola
bara e al suo esile corpicino tutti i loro dispiaceri per aver perso le
Regionali. Aveva ricordi vividi di quel periodo con Blaine. Le loro labbra
unite in un’ora rubata ad una canzone, il suo sorriso durante l’esibizione, la
sua grinta durante Raise your glass, la sua mano calda proprio lì, davanti a
quell’albero spoglio e silenzioso.
«Ciao, Pavarotti» sussurrò
alla terra tiepida.
Un fruscio alle sue spalle
lo fece alzare in piedi, ma non si voltò.
«Sapevo che ti avrei
trovato qui».
Kurt sorrise tra sé e alzò
delicatamente le spalle. Le cicale continuavano delicatamente a frinire, e una
tortora da qualche parte lanciò il suo basso grido.
«Non è meraviglioso?»
mormorò Kurt. Una mano bollente gli sfiorò il gomito.
«Si,
lo è».
Era sempre bollente,
Blaine, sia che fosse inverno inoltrato sia che
facessero quaranta gradi all’ombra. Era caldo, pieno di vita, sensuale e
terribilmente dolce. Come avrebbe potuto Kurt non innamorarsi di lui?
«Ti manca?» domandò il ragazzo. Non v’era una nota interrogativa nella sua
voce, tuttavia. Suonava più come un’affermazione, una constatazione.
Kurt sospirò e si sporse
verso l’albero, cercando di far entrare nei polmoni quanta più aria fresca
possibile. Si girò verso Blaine, che gli sorrideva dolcemente. Sapeva che non
intendeva il povero Pavarotti, pace all’anima sua.
«Molto» rispose. «Ma sono
sicuro che se fosse stata qui mi avrebbe rimproverato per tutta questa
malinconia, e mi avrebbe suggerito di cantarci sopra. Gli saresti piaciuto
sicuramente, Blaine».
Blaine sorrise, grato. Gli
passò una mano sulle spalle e gli baciò delicatamente una guancia. Non era un
gesto a cui si lasciava andare spesso, nemmeno quando
erano da soli. Negli ultimi tempi erano passione, si accendevano spesso di
sentimenti che non credevano di avere, condividevano emozioni che non pensavano
di poter provare. Quel giorno no, quel giorno era calmo e silenzioso, docile.
Erano l’edera che cresceva
tranquilla a lato del faggio. Si godeva il tramonto, assorbendo i raggi del
sole, e si trastullava nella malinconia della prima sera.
«Sarebbe stata orgogliosa
di te e di ciò che sei diventato, Kurt. Ne sono certo. Io lo sono» disse. Kurt gli sorrise e socchiuse gli occhi, rubandogli un leggero
bacio a fior di labbra.
Rimasero abbracciati a
contemplare l’albero a lungo, quel faggio estivo che li guardava amorevolmente
dall’alto come avrebbe fatto una madre. Sua
madre.
Le cicale continuarono a
cantare, le foglie ondeggiavano fruscianti al vento e un uccellino si posò su
uno dei rami più bassi, osservando curioso quella coppia
di ragazzi che se ne stava in silenzio ad assorbire la natura in tutte le sue
più meravigliose forme.
Kurt gli rivolse un
sorriso dolce.
«Sai» disse a Blaine,
piegando la testa. «Non credo che comprerò di nuovo un canarino come avevo
pensato. Di Pavarotti ce n’è uno solo».
Blaine sorrise.
«Puoi sempre comprare un
pesce rosso. Non è il tuo animale del chakra interiore o qualcosa del genere?»
rispose ridacchiando.
Kurt scosse la testa.
«Sei così sexy quando ti comporti da macho che non sa nulla di yoga!»
ridacchiò.
Blaine si esibì in una
finta espressione offesa, stringendolo di più a lui subito dopo.
«Stavo rileggendo Harry
Potter e i Doni della Morte, prima. Forse non era la giornata migliore per
ripassare l’atroce, candida morte di Edvige.» raccontò scuotendo la testa.
Blaine gli lanciò uno
sguardo curioso.
«Vuoi cantare Blackbird anche a lei?»
Kurt gli diede un
virilissimo pugno sulla spalla e Blaine rise forte, spaventando un paio di
cavallette che saltarono via infastidite. Iniziò a canticchiare sottovoce la
prima strofa, e Kurt rise e lo prese sottobraccio.
«Andiamo, tuo padre ci
aspetta per cena».
Diedero un
ultima occhiata al faggio e si voltarono, seguiti dai raggi del sole che
cercavano i loro visi per proiettare ombre felici sugli occhi e sulle labbra.
Il faggio estivo rimase lì
a guardarli andare via, docile e silenzioso, certo che d’autunno quegli stessi
ragazzi sarebbero tornati a fargli visita, capaci di
cogliere anche la musica tamburellante e scricchiolante di quella stagione.
L’armonia d’estate del bosco li seguì fino al limitare della foresta, dove si
fermò per osservarli allontanarsi insieme. Il faggio sorrise e scosse le chiome
piene di foglie, abbandonandosi al dolce ricordo di vita umana, calda e
accogliente, che vibrava sopra le sue dormienti radici.
Note dell’Autrice
Salve,
ragazzi! Questa è la seconda storia che pubblico su Glee,
e spero che non faccia tanto pena…forse è un po’
troppo descrittiva, lo ammetto, ma ho pensato di dare più spazio alla
percezione che ha Kurt di Blaine, della sua famiglia
e dell’estate che a dialoghi superflui.
Non so bene
cosa dire, in realtà.
Ho scritto
questa storia perché mi ha convinto Ilaryf90, visto che a partecipare al
concorso della shot dell’estate all’epoca erano solo
in quattro, e mancava una persona per renderlo valido.
Ora siamo in
sei – sempre pochissimi, uhuh – e devo dire che non
mi aspetto nemmeno mezza recensione, è un argomento troppo complicato o noioso,
secondo me.
Vi siete
rotti tanto gli zebedei a leggere? Fatemi sapere,
accetto tutte le critiche!
Soprattutto, se notate errori grammaticali o di sintassi, fatemelo presente, e
provvederò a correggere la storia.
Grazie
mille, e tanti piccoli pupazzetti di Kurt a tutte.
Recensite,
abbiamo i biscottini!
SeleneLightwood