Premessa: Primissima sperimentazione di una long-fiction, di cui la coppia
principale sarà naturalmente il SasuSaku, ma non mancheranno accenni ad
altri parinig quali NaruHina e SuiKa. Inoltre è anche la mia prima AU. Dunque, i
personaggi sono stati letteralmente catapultati nel nostro mondo; per l’appunto,
si tratta di una storia pensata dando un piccolo sguardo alla realtà dei giorni
nostri, in cui i casi di sequestro, oramai, hanno davvero
stomacato.
Buona
lettura ^^
** Dicono si chiami **
**
Sindrome
di
**
** Stoccolma
**
Prologo
Fissare in
continuazione tutti i dettagli della stanza fuorché la pagina del libro che
aveva sotto gli occhi non sarebbe servito poi a molto.
Il cervello ormai
stava per surriscaldarsi, aveva bisogno di quella pausa – la stessa che il padre
le aveva consigliato decine di volte – che, tuttavia, la sua ostinazione per il
perfezionismo si rifiutava di accogliere.
E il suono di un
paio di nocche che udì bussare contro la porta avrebbe solo rappresentato
l’ennesima distrazione - e, probabilmente, quella che viene definita la ciliegina sulla torta - per farle
totalmente abbandonare tutto quanto.
“Sakura…” la voce
profonda della madre suonava come quella di chi vuole apparire seccato per aver
ripetuto diverse volte lo stesso avvertimento.
“… sono entrata qui
dentro almeno un’ora fa e sei ancora sulla stessa pagina. Avanti, riponi quel
libro e mettiti a letto.”
Ecco, appunto.
Sakura aveva perso il conto di quante volte, spartite tra sua madre e il marito,
le fosse stata ripetuta la stessa cosa, solo con parole diverse. Due pigroni
come i suoi genitori non potevano capire, per questo li cacciava e, a dispetto
del suo cervello che non riusciva più ad elaborare nuove informazioni, si rimetteva
per orgoglio su quei dannati pezzi di carta assemblati in un ennesimo,
noiosissimo libro.
E la urtava
ulteriormente quell'assurda posa che la madre aveva assunto con fare esigente,
con le mani sui fianchi, come ad indicarle che non si sarebbe mossa da lì fino a
quando non avrebbe visto quel santissimo libro chiuso una volta per
tutte.
Sakura si domandava
semplicemente quali potessero essere gli affari suoi.
La prospettiva che
mancasse meno di una settimana al sostegno di quella prova di ammissione non era
granché positiva, anzi, le faceva salire un senso di angoscia e di ansia
inevitabili.
Scosse il capo,
arrendendosi alla caparbietà di sua madre. Si decise finalmente a chiudere quel
libro, davanti agli occhi soddisfatti della donna, che sorrise
compiaciuta.
“Contenta?”
naturalmente, quella era una domanda retorica, fuoriuscita dalle sue labbra per
essere sarcastica.
“Era ora. Dai,
mettiti sotto le coperte, è tardi. Guarda che tra poco vengo a controllare che
sia tutto spento.”
Da non crederci. Le
venne quasi da ridere per il modo di fare assurdo di sua madre, ma non volle
farlo fino a quando non avrebbe sentito la porta richiudersi alle spalle della
donna.
Ad illuminare la
stanza c’era soltanto quella tenue luce del lampadario sul suo comodino, con
accanto la sveglia che il giorno dopo sarebbe suonata nelle sue orecchie per
ricominciare un’altra monotona giornata di studio. E dire che sua madre avrebbe
dovuto comprendere meglio di chiunque altro il suo stato di perenne premura.
Perché lei era Tsunade, il sindaco di un’intera città e la donna più ricca del
mondo; insomma, la sua era una posizione elevata e che richiedeva anche un certo
impegno.
Suo padre, invece,
era uno scrittore di grande talento, o almeno così le veniva detto da chi era
molto più grande di lei; perché lei non aveva mai neanche osato leggere i suoi
libri, anche perché suo padre stesso gliel’aveva fino ad allora vietato. Diceva
che doveva pazientare la maturità, ma neanche allora, che possedeva oramai 18
anni e stava per andare incontro all’esperienza universitaria, glielo
permetteva. Insomma, Sakura ci aveva praticamente perso ogni
interesse.
Si ritrovò a
scuotere il capo, da sola - come se stesse interagendo con se stessa -, in
quello che pareva un atteggiamento di autocorrezione: come non detto, sua madre
non poteva capire; apparteneva ad una generazione che si era creata da sé. Suo
nonno era stato un grande uomo politico. In una parola, Tsunade era una di
quelle persone facilmente definibili raccomandate.
La ragazza si
ritrovò a sorridere, perché in fondo era conscia di tutti gli sforzi che la
madre, per quanto svogliata potesse apparire, stava compiendo nel suo lavoro,
perché lei amava la sua città e i cittadini amavano lei.
Ed improvvisamente,
la propria espressione si fece determinata, pensando agli sforzi che da sola
aveva sempre fatto per arrivare fin dove era arrivata, convincendosi che quel
dannato test d’ingresso non avrebbe costituito alcun ostacolo e che tutte le
energie impiegate sarebbero state certamente compensate. La sua indole di
perfetta sognatrice le diede libero accesso alle immagini più assurde che la
fantasia di cui era dotata le permetteva di rendere nitide davanti agli occhi. E
ognuna di queste immagini era accomunata da un unico aspetto: il suo corpo che
rivestiva la fantomatica uniforme bianca da medico aperta davanti, in modo da
rendere visibile il proprio petto prosperoso; la tipica cartella, tra le mani
pallide, contenente i documenti che registrano tutte le informazioni anagrafiche
e sanitarie di una persona malata; infine, l’immancabile tesserino di
riconoscimento con inciso il proprio nome, appeso con fierezza al taschino del
camice, in bellavista a colleghi, pazienti e superiori. Niente a che vedere con
quel sottile tessuto della sua camicia da notte, di un celeste dalla tonalità
simile all’acqua limpida, che si era già rifilata qualche ora prima per puro
sfizio, dal momento che amava girare per la casa con indosso gli indumenti per
dormire; ma forse doveva iniziare a mettere addosso qualcosa in più - come un
pigiama, perlomeno -, dato che l’autunno era ormai
prossimo.
Lasciò il libro
sulla leggera trapunta che rivestiva il materasso e stava per alzarsi, quando i
suoi occhi si posarono per puro caso sul comodino disposto sul lato destro del
suo letto. Poi sembrò quasi che una forza neutra e misteriosa concatenasse del
tutto il colore smeraldino dei suoi occhi all’unico cassetto che il comodino in
legno possedeva. Ed improvvisamente, sul viso comparve la tipica espressione
intrisa di amarezza che nel giro degli ultimi giorni stava in tutti i modi
cercando di non dare a vedere, né ai suoi genitori né ai suoi amici.
Tornò con lo sguardo
sul proprio libro. In realtà, ultimamente nello studio rivedeva una sorta di
rifugio. Si rendeva conto che il tempo trascorso su quelle pagine dalle parole
monotone sembrava non passare mai.
Aveva spesso sperato
che attraverso lo studio i suoi occhi potessero stancarsi e dare segni di voler
restare serrati per qualche ora, ma non appena ci provava quell’incubo che la
stava tormentando da poco più di una settimana si faceva sentire, sbarrandole
gli occhi, come se ci fosse una forza misteriosa ad aprirle di colpo le
palpebre.
A quanto parve,
anche quella notte sarebbe trascorsa così, insonne.
Si sollevò,
alleggerendo il materasso dal suo peso, e andò ad aprire il cassetto,
osservandone con timore il contenuto. Il giorno in cui ricevette la prima di
quella lunga serie di lettere contenenti pure minacce nei suoi confronti, aveva
ironicamente pensato che si potesse trattare di qualche suo compagno di classe
evidentemente invidioso della sua condotta e rendimento scolastico, o di qualche
altro tipo di scherzo, insomma. Eppure, aveva già concluso il liceo da
parecchio. Al di là di ciò, quando il numero di quelle lettere era aumentato in
maniera sempre più vertiginosa, il senso di panico che iniziava ad avvolgerla
divenne palpabile.
Aveva giurato che se
gliene fosse arrivata anche solo un’altra sarebbe andata alla polizia. Ma fino
ad allora si era rifiutata di parlarne con chiunque, persino con Naruto che,
seppure fosse dalle scuole elementari che le andava dietro, si era sempre
mostrato un grande amico, disposto all’ascolto, comprensivo e, anche se talvolta
la contraddiceva in un modo anche burbero, non era mai critico nei confronti
delle sue scelte.
Richiuse lentamente
il cassetto, per poi tirare verso il basso la cordicella del lume sul comodino e
lasciare che la penombra la inghiottisse. E si sarebbe tranquillamente infilata
sotto le coperte - confidando nel fatto che la stanchezza dovuta all’eccessivo
studio di quella giornata l’avrebbe fatta piombare finalmente nel mondo dei
sogni -, se non avesse udito un rumore sordo provenire dalla grande finestra
alle sue spalle, quella di fronte al suo letto e che dava al balcone della sua
enorme abitazione.
Si voltò di scatto
senza curarsi di mascherare lo spavento che quel suono le aveva arrecato,
stringendo con le dita il bordo di legno del comodino. Notò il riflesso della
pallida luce lunare illuminare la finestra che, in qualche modo, era stata
aperta e le tende bianche che svolazzavano come dei fantasmi, mosse dal
vento.
Un’atmosfera
abbastanza inquietante, pensò con
sarcasmo, forse in un misero tentativo di sdrammatizzare il tutto. Pertanto,
prese un profondo respiro e si avvicinò alla finestra, varcandone la soglia. Ma,
per quanto intelligente, una mente distratta come la sua non poteva che
affermare con risolutezza che fosse tutto apposto. Motivo per cui, rientrò in
fretta in casa richiudendo la finestra alle sue spalle e legando le tende agli
angoli della parete. Percorse passi lenti e tranquilli verso il proprio
letto.
Non avrebbe potuto
notare, nel buio pesto della stanza, l’ombra di qualcosa o qualcuno comparirle
alle spalle, bloccarle il respiro con una mano e lasciare che le sua narici
fossero pervase dall’odore forte di cui il fazzoletto premuto sul suo volto era
stato imbevuto.
Cloroformio.
E quando aveva
sbarrato i suoi occhi smeraldini, illuminati dal pallido chiarore lunare, non
avrebbe neanche saputo spiegare il motivo per il quale aveva percepito quella
mano esitare un istante. Poi la presa fu rafforzata e, prima che le forze
l’abbandonassero del tutto, l’ultima cosa che riuscì a vedere fu un paio di
occhi di una tonalità che ricordava molto l’ametista.