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Autore: Endless_Zero    16/08/2011    3 recensioni
L'estate. Non ho mai ricevuto altro che pareri contrastanti su questa stagione.
Un periodo di riposo. Un periodo di rinascita. Un'avventura. Tre mesi in cui può succedere di tutto. Tre mesi in cui vivere, tre mesi nei quali si prova la vera essenza della vita e la si lascia alle spalle all'imbrunirsi del cielo con l'arrivo di settembre.
Quest'ultimo parere è forse quello che più mi ha fatto riflettere. Sia per come l'ho ricevuto, sia più semplicemente per quello che esprime.
È possibile, in un anno, vivere soltanto tre mesi? Vivere veramente?
Ed è possibile, in una vita, vivere soltanto un'estate?
Ogni tanto, ripenso a chi mi fece iniziare queste riflessioni, e a quando.
Quando ero ancora solo un ragazzino, un quindicenne. Quando odiavo quella stagione che mi portava lontano da tutto ciò che conoscevo e che amavo. Quando quel caldo ancora non mi ricordava niente, e quando il canto notturno delle cicale ancora non mi ricordava nessuno.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'estate. Non ho mai ricevuto altro che pareri contrastanti su questa stagione.
Un periodo di riposo. Un periodo di rinascita. Un'avventura. Tre mesi in cui
può succedere di tutto. Tre mesi in cui vivere, tre mesi nei quali si prova la
vera essenza della vita e la si lascia alle spalle all'imbrunirsi del cielo con
l'arrivo di settembre.
Quest'ultimo parere è forse quello che più mi ha fatto riflettere. Sia per come
l'ho ricevuto, sia più semplicemente per quello che esprime.
È possibile, in un anno, vivere soltanto tre mesi? Vivere veramente?
Ed è possibile, in una vita, vivere soltanto un'estate?
Ogni tanto, ripenso a chi mi fece iniziare queste riflessioni, e a quando.
Quando ero ancora solo un ragazzino, un quindicenne. Quando odiavo quella
stagione che mi portava lontano da tutto ciò che conoscevo e che amavo. Quando
quel caldo ancora non mi ricordava niente, e quando il canto notturno delle
cicale ancora non mi ricordava nessuno.

Quattro luglio. Quindici anni prima.

Odiavo quel posto. Quel paesino sperduto al mare. Ci ero appena arrivato. Era
la prima volta che vedevo quelle case e i loro semplici abitanti che seguivano
lo scorrere delle loro vite come solo chi vive separato dal tempo può fare.
Osservai riluttante la stazione che mi aveva lasciato lì.
Ormai il sole stava iniziando a tramontare, tingendo di toni arancioni il posto
che a quanto pare, sarebbe stato la mia prigione per due lunghissimi mesi.
"Oramai sei grande", avevano detto i miei. A quanto pare una buona motivazione
per spedirmi nel paese dove mio padre era cresciuto. Nella sua vecchia casa. I
miei erano troppo impegnati in città, non mi avrebbero raggiunto.
Forse volevano solo rendermi più indipendente. Forse volevano separare dal suo
mondo quel ragazzo così dedito alla scuola e così restio ad uscire.
Il vento mi scompiglia i capelli neri. O meglio, il vento e la salsedine.
Sì, odiavo veramente quel posto.
Iniziai a trascinarmi dietro la valigia, la cartina in mano, seguo la via
principale del paese, quella che costeggia il mare e i suoi scogli.
Perché la gente associa l'estate al mare?
Non dovrebbe essere solo riposo?
La balaustra di metallo era arruginita in più punti, e dietro, il mare, si
muoveva lento e calmo, come se volesse nascondere la sua vera natura
burrascosa.
Camminai per un po'. Da un lato case e negozietti caratteristici si ripetevano
in un loop di tradizioni e colori tipici di quei posti, e dall'altro il mare.
Solo il mare.
E basta. Fino all'orizzonte. Probabilmente oltre.
Mi tirai su gli occhiali, seccato. La casa dove avrei dormito era abbastanza
vicina, ma il mare lo era troppo. Così enorme, così diverso da qualsiasi
grattacielo, da qualsiasi creazione dell'uomo.
"Perché diavolo deve essere così grande, il mare?" Esclamai. Non stavo parlando
a nessuno in particolare. Forse era una lamentela al dio in cui non credevo. Fu
proprio perché era un messaggio rivolto al nulla, che mi stupii incredibilmente
quando ricevetti una risposta:
"Perché altrimenti, non ci starebbero tutti i pesci!" Disse una voce squillante
e allegra. Una ragazza, probabilmente del posto, seduta sugli scogli.
I capelli castani sciolti, un cappello di paglia bianco incredibilmente
grande a ripararla dal sole, un costume rosso e bianco e una canna da pesca.
Una paesana.
Una di quelle persone semplici che avevo sempre disprezzato.
E poi, a seguire la frase, una risata. Squillante. Mi colse di sorpresa, non
ero abituato a sentirla. Era la mia risata. Avevo riso per una stupidata
simile? Anche la ragazza pareva abbastanza sorpresa. Mi guardò con i suoi occhi
nocciola per qualche secondo, e poi rise anche lei.
Ci volle qualche minuto perché le risate si fermassero.
Come era possibile? Io, ridere per una cosa così stupida... Ora che ci penso
non era neanche così divertente. Forse inaspettata.
"Elizabeth" disse "mi chiamo Elizabeth. Tu chi sei?
Vedo che sei hai bagagli, sei nuovi! Non arriva molta gente qui, neanche nel periodo di ferie."
Era esuberante. Troppo.
Non ero solito a parlare con gli sconosciuti. Non lo facevo mai.
Specie con le ragazze. Specie con le ragazze della mia età.
"Sono... Cioè, mi chiamo William. Sono venuto a stare qui fino a fine
Agosto..." Ero completamente in imbarazzo. E la cosa più strana, era che ero in
imbarazzo perché parlavo con una sconosciuta, poco importa che fosse una mia
coetanea carina e in costume. Ok, no, importava. Diciamo che aumentava il mio
disagio.
"Vedrai, Willy, ti divertirai tantissimo qui!" disse. Era convinta. Forse un
po' troppo, considerando il paesino che stava esaltando.
Era la prima volta che qualcuno che non fosse un mio parente abbreviava il mio
nome così.
La cosa mi diede meno fastidio di quanto potessi mai aspettarmi.
Neanche qualche minuto e aveva tirato su tutta la sua roba e mi stava
accompagnando a casa.
Si chiamava Elizabeth, come aveva già detto. suo padre aveva un negozio lì,
un'attività ereditaria, quindi la sua famiglia era del posto da diverse
generazioni. Come avevo immaginato, era semplice. Rideva per un nulla. Almeno
aveva una bella risata.
Rise quando le dissi che odiavo il mare, e rise anche quando le dissi che non
volevo venire qui.
Era in un certo senso rassicurante.
Propose di farmi fare il giro del paese, il giorno dopo.
Non so come mai accettai.
Non so come mai lasciai che entrasse nella mia vita.
Forse perché era tutto quello che non ero io:
Estroversa, in pace con se stessa, capace di parlare agli estranei, amante dei
posti come quello in cui ero finito, felice di seguire un percorso che era
stato deciso dalla sua famiglia, di ereditare quel negozio...
Forse si scontrava con il me apatico, in odio con il mondo, e determinato nelle
sue ambizioni.
Rise quando le dissi che volevo diventare un avvocato. Il migliore. In un paese
che ne aveva troppi.
Ma non era una risata di scherno. Disse che i sogni aiutano ad andare avanti,
ma che non si avverano mai.
O qualcosa di simile, non stavo ascoltando. Ero troppo incantato ad ammirare il
modo in cui incoraggiava con un sorriso un'ambizione stupida di una persona
appena incontrata.
La salutai sull'uscio della vecchia casa di mio padre, dandole appuntamento per la mattina seguente.

Cinque Luglio, quindici anni prima.

Il giorno dopo averla incontrata, arrivò sotto casa mia. Puntuale come avevamo
concordato. Non ero riuscito a dormire un granché, la casa era comunque da
riordinare.
Ma non ero stanco, il posto era particolarmente rilassante, questo lo si poteva
concedere.
Andando in giro incontrammo pochissimi ragazzi della nostra età. A quanto pare
ognuno pensava ai fatti propri, non c'era questo legame di amicizia tra i
giovani del posto.
Mi spiegò che la maggior parte aspetta solo di lasciare il paese per la città.
Lei non li capiva, in città non si trovavano cose come un tramonto
all'orizzonte, un buon posto per pescare o, inoltrandosi nella campagna,
concerti notturni di cicale e stelle a coprire ogni singolo spazio nero del
cielo.
Aveva una luce negli occhi, mentre mi parlava di quel posto.
"È il posto dove sono nata" mi disse "Ed è anche quello dove morirò. Certo, mi
piacerebbe viaggiare, ma la sensazione più bella del viaggio, sarà sempre la
nostaglia di casa, no?"
Non seppi cosa rispondere. Casa mia per me era solo un semplice luogo, privo di
particolare importanza.
Ero sempre stato così convinto delle mie idee, ma come mai al suo fianco mi
sentivo io quello sbagliato, quasi corrotto?
Mi insegnò i nomi delle vie, dove comprare le cose migliori, da dove osservare
i tramonti più belli.
Mi raccontò degli abitanti di quel piccolo posto sperduto. Mio padre era sempre
via per lavoro quando abitava qui, quindi non è che fosse così inserito.
Mi fece sentire a disagio il non avere niente di così caratteristico da
raccontare su di me o sul mio mondo.
Di lei notai subito che aveva un lieve profumo di salsedine addosso.
Probabilmente derivava dal vivere lì.
Ricordo che al tempo pensai che fosse una cosa abbastanza carina.
Ci lasciammo quando ormai era buio, fummo stanchi di esplorare e parlare di
noi, di tutto e di niente, con un sorriso e la promessa di incontrarci il
giorno dopo.

Venti luglio, quindici anni prima.

Le giornate trascorrevano semplici e veloci, in una maniera che non mi sembrava
neanche lontanamente possibile. Tutto grazie a lei. La conoscevo da poco più di
due settimane, e già si era imposta come un pilastro della mia vita.
Era così diversa da tutto ciò che avevo potuto mai immaginare, così semplice.
Fu ridendo che un giorno mi portò una bicicletta rosa. La più brutta che avessi
mai visto.
Disse che era di sua sorella, che ora non viveva più con loro. Disse anche che
ne avrei avuto bisogno, e che quindi da quel giorno era mia.
"Voglio portarti in un posto che non esiste, recluso tra cemento e smog, mister
civilizzazione", disse ridendo.
Non avevo mai veramente usato una bicicletta.
Non su stradine di terra in mezzo alla campagna, almeno.
Ovviamente accettai comunque.
Non mancai di lamentarmi per la bici. Lamentarmi parecchio, dato che lei poteva
usarne una totalmente più decente, nera.
La seguii per i sentieri, mentre ci allontavamo sempre di più dal mare.
Entrambi uno zaino in spalla.
Nonostante tutto, odiavo ancora tutto di quel posto. Lo odiavo, finché non lo
vedevo attraverso i suoi occhi. Forse era per questo che avevo bisogno di lei.
Quando era lei a parlarmene, o semplicemente ero con lei, anche l'enormità del
male sembrava un pregio e non un difetto.
Pedalammo per parecchio tempo, fino a quando la luce dorata del tramonto non
tinse di poesia il nostro viaggio verso chissaddove.
Ci fermammo in un prato, non troppo grande. Quindi, mentre la notte iniziava a
coprire tutto, posò un telo, e si sdraiò, facendomi cenno di seguirla,
seguendomi con lo sguardo con quei suoi occhi nocciola mentre riluttante e
stanco prendevo posto accanto a lei.
"Cosa stiamo aspettando?" chiesi, a metà tra il curioso e l'impaziente.
"Vedrai!" Disse. Sempre ridendo, e quindi portandosi un dito alla bocca come a
dirmi di fare silenzio, come se avessi rovinato quello che stavo aspettando sennò.
La prima cicala inizio a cantare nel momento esatto in cui scorsi la prima
stella.
E allora capì.
A mano a mano, minuto dopo minuto, il cielo si tingeva di luce e il silenzio di
stridii.
Un rumore assordante, rumore di estate, e tante stelle come non pensavo fosse
possibile. Solo al pensare di concepirle tutte mi girava la testa.
Rimasi stupito a immergermi in quello spettacolo. Lei, sdraiata di fianco a me,
mi guardava divertita.
"Ho sempre adorato venire qui. Sin da quando ero bambina. Scommetto che questo
non lo avete, signor scale mobili e treni ad alta velocità". Rise ancora. Il
canto delle cicale copriva in parte la sua voce.
Forse, in una maniera molto più armoniosa di quanto avessi mai potuto
immaginare.
I miei occhi incontrarono i suoi. Quindi, senza neanche capire cosa stessi
facendo, mi avvicinai e la baciai.
Un sacco di pensieri corsero nella mia testa in quell'unico istante. In primis,
il pensiero che quello non ero io. E forse avevo ragione. Mi allontanai subito
dopo. Lei mi guardò, stupita.
Il mio primo pensiero fu di scusarmi, ma lei mi zittì subito, con un altro
bacio. Questa volta fu diverso. Non saprei spiegare come, e neanche vorrei.
Quel momento è ancora solo nostro.
Si allontanò, e ci guardammo ancora per un po'.
Sopra di noi le stelle, intorno a noi i canti delle cicale.
La guardai.
"Quindi per te è lo stesso?" chiesi, non senza una punta di imbarazzo nella
voce.
Lei sorrise, e poi rispose, con una voce talmente flebile da venire
completamente sovrastata dal rumore del nostro piccolo paradiso.
Non sentii mai quello che disse, mi bastò il suo sorriso.
Quella fu la prima notte in cui mi sentii veramente vivo, e veramente felice.

Tre Agosto, quindici anni prima.

Da quella notte sotto le stelle, le cose andarono sempre a migliorare. Mi
sentivo vivo, felice, era come se avessi iniziato da poco a esistere. Passavamo
ogni singolo momento insieme.
Andando sempre in giro, io con l'ormai fidata bicicletta rosa di sua sorella.
Non vorrei essere precipitoso, e forse non lo sarei, ma ci amavamo. Tanto.
Eravamo parte della stessa cosa.
Quel giorno mia madre mi chiamò.
Mio padre aveva ricevuto una stupida promozione a vice-direttore, di una
stupida ditta di vendita di computer.
Una volta tornato a casa, ci saremmo trasferiti. Lontano. Troppo lontano.
Un classico. Forse un po' troppo cliché.
Ricordo esattamente la tristezza nel momento in cui lo venne a sapere. Eravamo
già preparati al vederci solo d'estate, ma questo era troppo.
Troppo distanti.
Probabilmente, dopo il ventiquattro agosto, non ci saremmo visti mai più.
Forse lei era una ragazza troppo allegra per piangere. Forse non voleva farlo
davanti a me. Mi rispose con un sorriso triste, un bacio, e un invito a uscire
per non pensarci.

Sette Agosto, quindici anni prima.

Odiavo ancora quel posto. Ma sapere che non lo avrei più rivisto mi
distruggeva. Distruggeva tutto. Nonostante cercassimo di non pensarci, era
evidente che la data della mia partenza era la preoccupazione più grande.
Nonostante questo andavamo avanti. Come disse lei una volta, i sogni non si
avverano mai, ma aiutano. Per questo tiravamo avanti. Per questo.
Mi insegnò a pescare. Ricordo ancora con esattezza il numero di volte che la
buttai in acqua, quel giorno.
Ricordo ancora il numero esatto di volte che ridemmo, quell'estate.
Quindici Agosto, quindici anni prima.
Quella sera c'era una festa, in paese.
Un falò, fuochi d'artificio, nulla di esaltante.
Saremmo usciti comunque.
Lei aveva indossato la solita magliettina leggera e i pantaloni corti.
Riusciva a essere bellissima anche così.
Mi chiedo ancora cosa sarebbe stata quell'estate se non l'avessi incontrata.
Eravamo seduti in piazza. La panchina che oramai avevamo fatto nostra, come se
il caldo di quel periodo non potesse impedirci di fare nostro il mondo.
Giocherellavamo entrambi con una stupidissima girandola.
Ridevamo. Lei, rideva.
Non ricordo come facevo a sopportare tutte quelle risate. Forse è perché erano
sue.
Lei era come al solito appoggiata a me.
Io continuavo a chiedermi cose stupide come cosa ci trovasse in me. E cosa ci
trovassi in lei.
È incredibile come i sogni sembrino stupidi, quando li racconti agli altri.
Comunque, con lo stesso sguardo carico di ambizioni come quando lo raccontavo
ai miei amici, tempo prima, le dissi di nuovo che sarei diventato un ricco
avvocato. Il migliore. E allora sarei tornato qui. La avrei rivista. Non
avrebbe dovuto aspettarmi, io ci sarei comunque stato.
Rise. Oramai ci ero abituato. Poi, ci baciammo quando il cielo si tinse di luce
e rumore, quando i fuochi esploserò nell'aria ricordando al mondo per
l'ennesima volta che era estate.
Non avevamo bisogno di altro.

Ventiquattro Agosto, quindici anni prima.

Mi svegliai. Non avrei voluto.
Ero triste.
Anche lei lo era.
Avevamo pianto, credo.
Il peso di quei due mesi era oramai insopportabile, era come se il mondo avesse
voluto ricordarmi di nuovo che il periodo più significativo della mia vita era
una fase destinata a finire.
Uscii di casa, prendendo tutta la mia roba.
Feci la strada a ritroso, verso la stazione, mentre l'alba tingeva di dorato il
mondo.
Guardai con odio il mare. Solo mare. Enorme. Onnipresente. Per lui la distanza
non esisteva.
Stupido, stupido mare.
Raggiunsi la stazione. Davanti, legata con un catenaccio, una bicicletta rosa
che non faticai a riconoscere. Nessuno rubava bici in quel posto, la catena era
una precauzione inutile. Allora perché?
Entrò. Faceva caldo. Troppo caldo.
E mi sentivo triste. Troppo triste.
Arrivai al binario, ricontrollai il biglietto.
Lei era lì.
Era vestita per l'occasione, a quanto pare.
Un top blu, il cappello con cui l'avevo conosciuta e una gonna bianca.
Era bellissima, come al solito.
Forse, come scena era troppo cliché.
Elizabeth mi si avvicinò, e mi baciò.
Amavo il sapore delle sue labbra.
Non c'era niente di impuro nel modo in cui ci avvicinavamo. Era come se fosse
la cosa più naturale del mondo.
La abbracciai.
Il treno arrivò.
Non avevamo fatto in tempo a dire niente.
Forse non avrei neanche voluto.
Mentre il treno rallentava, mi guardò.
"Ho lasciato la tua bicicletta legata. Aspetta solo che tu ritorni." disse.
"Tornerai, vero? E staremo insieme?"
Io entrai nel treno, ma restai davanti a lei.
La guardai nei suoi occhi color nocciola.
Penso che ad entrambi sarebbe bastato un nulla per scoppiare a piangere.
Quindi, ripensai a tutto.
I sogni non si avverano mai. Ma aiutano ad andare avanti. Saremmo entrambi
maturati. Saremmo cambiati. Ma anche tornando, io non avrei trovato lei, e lei

non avrebbe trovato me.
Saremmo cresciuti troppo distanti...
I sogni non si avverano mai. Ma aiutano ad andare avanti.
Quindi, la guardai negli occhi, e mentii.
"Sì." dissi.
Le porte iniziarono a chiudersi.
"Ti amo." disse lei, mentre il mezzo inizava a muoversi.
"Anche io." Risposi, senza essere sicuro che il messaggio la raggiunse.
Passai il viaggio del ritorno a piangere. Dal finestrino si vedeva il mare.
Grande. Troppo grande.
Viaggiai per tutto il giorno, sullo stesso treno. Un viaggo troppo lungo e
doloroso. Mi addormentai, osservando il sole che tramontava sulla mia estate.


Ventiquattro Agosto. Oggi.

Odio quel posto. Come lo odiavo oggi. Un paesino sperduto in mezzo al mare. Ci
ero appena arrivato, e già i ricordi mi colpirono al petto come un martello.
Non avrei voluto andarci. No, assolutamente no.
Il caldo dell'estate mi opprimeva il corpo, e quello del passato l'animo.
Cercai di mantenere un contegno, nel mio vestito elegante mentre spegnevo la
sigaretta.
Ero qui per questioni di lavoro. Non l'avrei trovata, lei non avrebbe trovato
me.
Dovevo concludere quell'ordine, quel cliente era importante. Cento computer
venduti ad un unico cliente in una volta sola erano più che un affare.
E se volevo quella promozione, avevo bisogno di questo contratto.
Lo sguardo mi cadde su quel paesino che tante volte avevo cercato di
dimenticare.
Quelle case, così familiari dopo solo due mesi a vederle ogni giorno.
E la bicicletta. Rosa, ancora poggiata al muro. Un catenaccio inutile a tenerla ferma.
Anni di usura e di polvere. Dubito che funzionasse ancora.
A vederla, il mio cuore saltò un battito.
Il primo amore non si dimentica. Mai.
Ignorai quella bici carica di ricordi e avanzai verso il centro del paese,
costeggiando il mare, che si agitava dietro la balaustra.
Vento e salsedine mi scompigliarono i capelli.
Odio per quel posto.
Mi tirai su gli occhiali, e mi incamminai verso il luogo dove avrei incontrato
il mio acquirente.
Qualche ora dopo avevo concluso l'affare. Ero felice. Forse avrei anche
ricevuto una promozione a vice-direttore.
La mia felicità era oppressa dai ricordi di quel luogo, però.
Ogni singola pietra, ogni angolo, riuscivo a trovarci dei ricordi legati.
Faceva male.
Andai verso la stazione, mentre il sole tramontava, coprendo tutto di quella
fastidiosamente familiare luce dorata.
Una giovane donna sedeva tranquilla su di una panchina, a osservare il mare.
I capelli castani raccolti elegantemente, un'aria incredibilmente semplice e pura.
Tremai, a osservarla. La mia vita di ora che faceva a pugni con il passato.
Passai dritto, mi sforzai di ignorarla.
Con la coda dell'occhio vidi lo stupore sul suo viso.
Si alzò, quando la superai.
"Scusi, signore..." Disse, esitando, con una voce cristallina che anche dopo
quindici anni riconoscevo perfettamente
"Lei... Non è che... Lei sa perché il mare deve essere così grande?".
Gettò le parole di fretta, come se l'emozione le spingesse fuori da lei, lontano.
Sentì un accenno di risata.
Mi colse di sorpresa, era la mia.
Lei rise. Riconobbi quella risata, tutto il mondo mi implose addosso.
Il cuore accellerò e rallentò insieme, indeciso se ricordare il troppo vivere o
se morire proprio per quel ricordo.
Mi girai, e trovai due maturati occhi color nocciola a osservarmi. Quelli di
una donna.
Si portò una mano al petto, e il luccichio dell'anello al suo anulare riportò
il mondo alla realtà.
Fu il peso delle rispettive fedi che ci tenne incollati a terra e non ci fece
volare l'uno tra le braccia dell'altra. Come parte di una catena, gli anelli ci
tennero giustamente legati alle nuove vite che il destino ci aveva imposto di
scrivere.
Ci guardammo negli occhi, per quella che sembrò un'eternità.
Io avevo fallito nel realizzare il mio sogno, nel tornare, nel darle quello che
voleva.
Avevo sempre creduto fosse arrabbiata con me.
Invece si avvicinò, e mi abbracciò.
Fu un abbraccio lungo, direttamente in ritardo di quindici anni.
Riuscii a mormorare un debole "scusa", a chiamarla un'altra volta per nome.
Nessuno aveva dimenticato l'altro, ma era troppo tardi per tornare indietro.
Il mondo va avanti. I sogni non si avverano. E le nostre nuove vite ci
rendevano felici. Non una felicità come quella di un'effimera estate di
quindici anni fa. Una felicità diversa. Ma non per questo meno vera.
Con un incredibile sforzo, mi separai dal suo abbraccio.
La guardai ancora un po'. Non avrei mai voluto smettere.
Quindi, mi girai e mi allontanai.
Il caldo dell'estate stava sparendo per il freddo della notte.
Entrambi stavamo piangendo.
Entrambi eravamo in parte quindici anni più indietro.
Salii sul treno, sempre distrutto. Non l'avrei mai più rivista.
Solo due cose non avrei mai dimenticato: Il mio odio per il mare, e il mio
passato amore per lei.
Il viaggio era lungo. Mi addormentai, osservando il sole tramontare per
l'ultima volta, sopra la mia estate.
  
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