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Autore: jharad17    17/08/2011    6 recensioni
Harry ha sette anni, ed è letteramente trattato come un cane dai Dursley. Sarà salvato dal mondo magico? Starà mai abbastanza bene da avere la nomea di Ragazzo Che è Sopravvissuto?
Warnings all'interno, Sevitus. Traduzione di Jillien.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Famiglia Dursley, Harry Potter, Severus Piton
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Durante l'infanzia di Harry
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NdT: Signori e signore, state per addentrarvi nella traduzione della meravigliosa storia di jharad17 ( l’originale potete trovarla  qui ). Questa storia mi è piaciuta così tanto che ho fatto forza su me stessa, ho alzato il mio pigro sedere dalla sedia, e ho iniziato la mia prima traduzione.

Generalmente ho tentato di tradurre in modo più vicino possibile all’originale, tranne quando è stato impossibile a causa di.. ehmn… incongruenze linguistiche? Cercate di capire.

Come ho detto è la mia prima traduzione, ho fatto il meglio che ho potuto, se trovate qualcosa che non vi torna o che suona strano scrivetemelo e sarete accontentati; se, tra quelli che leggeranno la storia (in molti si spera) c’è qualcuno che volesse prendersi l’onere di Betare parli e sarà ascoltato ;D.

 Warnings: Si parla di abusi e violenze, almeno nei primi capitoli. Harry è affamato, picchiato e lasciato a se stesso, nonchè trattato peggio di uno schiavo. Se vi dovesse dar fastidio, nonostante la parte descrittiva sia solo nei primi capitoli, non leggete.


La storia è completa, ha un sequel e consta di 27 capitoli. Ora filate a leggere.

 

 

 

Whelp capitolo I

 

Di jharad 17

Traduzione a cura di Jillien

 

 Era tarda notte, e il bambino di sette anni si rannicchiò in un angolo del cortile, vestito solo di uno slip e di una vecchia, malandata maglietta di suo cugino Dudley. E di un collare. Faceva caldo questo pomeriggio, quando zio Vernon aveva messo la lunghezza della catena attorno al suo collo e l'aveva agganciata a una linea di piombo attaccata al capanno. Ma ora faceva freddo, e lui non voleva altro che essere affamato, come prima, e giacere nel suo ripostiglio sotto le scale. Invece era infreddolito, bagnato e molto stanco. E forse anche un po' spaventato. Si portò le ginocchia al petto e le strinse forte, ci posò la testa sopra e provò a non pensare a ciò che l'aveva portato a questo.

 Cercando di non pensare a qualcosa che comunque non avrebbe funzionato. L’avrebbe dovuto capire molto tempo fa.

 Flashback

 
“Ragazzo! Vieni qui, ora!”

L'avevano sempre chiamato “ragazzo”. Cioè, quando lo chiamavano in qualche modo. Generalmente poteva dire quando stavano parlando a lui dal tono di voce che usavano. Ognuno di loro usava lo stesso tono quando gli stava ordinando di fare qualcosa, o non fare qualcosa, e raramente gli parlavano in un'altra maniera. A volte ricordava a malapena quale fosse il suo vero nome. Ma poi, quando faceva dei sogni vividi – a volte spaventosi – che lo svegliavano in un sudore freddo, le persone che vi erano dentro usavano il suo nome. Una donna con capelli rosso-oro e lucenti occhi verdi che versavano lacrime lo raggiungeva e sussurrava il suo nome con voce leggera, come se il suo cuore si stesse rompendo.
Un uomo, con occhiali dalla montatura sottile e capelli disordinati come quelli del ragazzo, urlava il suo nome proprio al di là di una foschia verde brillante. E il peggiore, un uomo con gli occhi a fessura la cui voce lo minacciava in toni freddi e poi rideva, forte e a lungo, quando la donna urlava.

Ognuno di loro usava il suo nome.

Ma non gli era permesso parlare dei suoi sogni, o ricordare a sua Zia e suo Zio qual era il suo nome. In realtà non gli era permesso parlare in generale, eccetto per dire “sì, signore”, “sì, signora” e “mi dispiace”. Non gli era permesso guardare negli occhi Zia Petunia o guadare in faccia Zio Vernon, perchè quello era “impertinente”, e non gli era permesso sedersi nella stessa stanza delle “buone persone”. Lui doveva fare come gli era detto o altrimenti doveva rimanere in silenzio e far finta di non esistere.

 A volte lo desiderava davvero.

 In risposta alla chiamata di Zio Vernon, il ragazzo uscì di corsa dal ripostiglio e filò in cucina. Tenne lo sguardo sulle sue scarpe, quelle per cui Dudley era appena cresciuto troppo. Erano rosse, con una toppa circolare bianca su ogni caviglia ed erano parecchio consumate sugli alluci, dato che Dudley strusciava i piedi sul marciapiede per frenare, mentre usava la sua nuova bicicletta. La terza quest’anno.

 “Sì, signore?”

“Non hai finito il tuo elenco” ringhiò Zio Vernon.

 Il ragazzo guardò velocemente in su, poi di nuovo in basso. Aveva finito tutti i suoi lavori quasi un’ora prima. Invece che dirlo, però, si morse il labbro. A Zio Vernon non piaceva “essere contraddetto da piccoli marmocchi”. O discuterci, o ribatterci. “Signore?”

 “Dovevi spazzare il cortile”, chiarì Zio Vernon, “ma ci sono tracce fangose dappertutto”.

 Il ragazzo allungò il collo per vedere il retro del cortile oltre l’uomo rotondo e la sua faccia minacciosamente agitata. Aveva spazzato le pietre del lastricato, prima, ma poteva vedere qualche impronta rivelatrice, della forma dei nuovi stivali da trekking di Dudley. Non che Diddy Duddums avesse mai fatto trekking in vita sua, ma voleva degli stivali da trekking, e quindi aveva avuto degli stivali da trekking. Il ragazzo sospirò.

“Vai a farlo ora, ragazzo” disse Zio Vernon, “e niente cibo questa sera”.

 Il suo stomaco brontolò in protesta per la punizione, ma il ragazzo annuì solamente, con la testa tenuta bassa. Forse poteva sgattaiolare fuori dallo stanzino dopo che fossero andati tutti a dormire. Se fosse stato veramente, veramente silenzioso. Erano già passati due giorni da quando aveva avuto qualcosa da mangiare.

 “ORA!”

“Sì, signore”. Muovendosi velocemente, il ragazzo passò furtivamente l’uomo enorme, evitando a mala pena un ceffone diretto alla sua nuca, e si diresse fuori dalla porta della cucina, nel cortile. Prese la scopa dal capanno, che aveva tirato a lucido quella mattina, e iniziò a spazzare di nuovo. Il sole era ancora luminoso in questa sera estiva, ma non era lontanamente caldo come lo era stato questo pomeriggio, quando aveva potato le siepi e falciato il prato.

La sua faccia, le braccia e la nuca erano seriamente bruciate, e lui era molto, molto assetato.

 Il fango venne via facilmente, e il ragazzo lanciò uno sguardo al rubinetto all’aperto mentre spazzava, pensando che, se avesse potuto aprirlo leggermente, avrebbe potuto riempire la sua pancia dolorante e raffreddare la sua pelle. Ma intercettò un movimento alla porta di servizio; Zia Petunia stava guardando, e lei non approvava lo sprecare acqua sul “ragazzo”. Abbassò di nuovo la testa e finì velocemente, poi ripose la scopa nel capanno e tornò alla porta della cucina. Zia Petunia se n’era andata e Zio Vernon gli bloccò la strada. “Siediti lì, ragazzo” disse attraverso il vetro, e indicò il gradino in basso. “Rimarrai fuori finché non abbiamo finito”.

 “Sì, signore” disse il ragazzo, e si sedette dove gli era stato detto, di fronte al cortile. Questo era un ordine al quale era abituato.

 Gli odori della cucina aleggiavano attraverso il vetro della porta: roast beef, patate arrosto, salsa, involtini caldi e piselli freschi. Col procedere della cena il ragazzo non si mosse, né emise un suono. Dalla sala da pranzo Dudley parlò forte, le parole che continuava ad esclamare spesso incomprensibili attorno a una bocca piena di cibo. Continuò con le sue gesta di quel giorno, con la sua nuova bicicletta e i suoi amici, al parco. Zia Petunia lo incoraggiava a mangiare, “solo un’altra porzione, Duddy caro, sprecherai da un’altra parte. Questo è il ragazzo di mamma.” E Zio Vernon lodava le buffonate di Dudley con cose come “Buon per te, figliolo. Mostra a quei ragazzi un paio di cosette…”

 Il suono delle posate e del masticare e del parlare continuò abbastanza perché il sole calasse. Zia Petunia finì il pranzo con un budino di cioccolato con panna montata, e lo zio e il cugino del ragazzo ne ebbero diverse porzioni ciascuno. Non che nessuno di loro avesse bisogno di extra, pensò amaramente il ragazzo sui gradini, quando il suo stomaco ebbe un crampo talmente forte da lasciarlo ansimante. Premette le sue mani sulla pancia e si curvò in avanti, oltre le sue ginocchia.

 Forze Zio Vernon avrebbe cambiato idea. Forse ci sarebbe stato qualcosa lasciato per lui. Un piccolo avanzo. Qualsiasi cosa. Le sedie strusciarono indietro e improvvisamente la televisione prese vita dal soggiorno. Zia Petunia apparve alla porta. “Pulisci qui”, disse freddamente, “e tieni le tue zampacce lontano dagli avanzi”.

 “Sì signora” disse il ragazzo, e si alzò lentamente in piedi. Lei lo sarebbe stato a guardare, lui lo sapeva, magari addirittura contando quante patate erano rimaste e quanti involtini. Lo faceva spesso. Il ragazzo si diede da fare pulendo e sua zia si sistemò in una poltrona fiorata vicino alla porta del salotto. Gli lanciava uno sguardo tanto spesso tanto quanto lo faceva con la televisione, mentre il ragazzo puliva il tavolo e i ripiani per cucinare, scrostava i piatti e le pentole, asciugava tutto e lo metteva via, poi puliva tutte le superfici.

 “Vai a letto” gli disse Zia Petunia quando ebbe risciacquato lo strofinaccio per l'ultima volta.

 “Sì, signora” disse. Tornò al suo stanzino, le spalle basse, desiderando di aver infilato un panno bagnato in tasca. Avrebbe potuto succhiarne fuori l'acqua una volta che fosse stato da solo nello stanzino e spegnere la parte peggiore della sua sete. Ma aveva sperato di avere il permesso di lavarsi prima del letto, magari usare addirittura il gabinetto. Sembrava che Zia Petunia non fosse in uno stato d'animo generoso, questa sera.

 Diede uno strattone alla catenina per accendere la lampadina nuda dentro lo stanzino, prima di chiudere la porta dietro di lui. Dopo essersi spogliato dei suoi larghi vestiti da lavoro, scivolò velocemente dentro ad una vecchia e sformata maglietta di Dudley, che il ragazzo usava come camicia da notte. Poi usò il secchiello vuoto nell'angolo dello stanzino per alleggerirsi, spense la luce e si sistemò nel suo letto, una vecchia branda da campeggio che Dudley aveva colpito talmente forte, una volta, che la struttura si era rotta.

 La luce filtrava attraverso le fessure attorno alla porta, così come i rumori dal televisore nel salotto, lo stesso di ogni notte. Il ragazzo giaceva sul fianco, raccolto sotto la sua sottile, rattoppata coperta, e fissava la porta dello stanzino. Dato che i suoi occhi si stavano adattando all'oscurità, poteva vedere bene abbastanza da distinguere i contorni della scritta su un disegno che aveva fatto un giorno di scuola dell'ultimo anno, fatto con pennarelli verdi, rossi e viola.

“La Stanza di Harry”

Se tutto il resto non avesse funzionato, avrebbe usato questo cartello per ricordarsi del suo nome.

Più tardi, dopo che le luci erano state spente e i suoi  parenti avevano rumorosamente segnato il loro passaggio sulle scale, Harry aspettò finché non poté sentire il russare intenso provenire dalla lontana stanza da letto prima di aprire lievemente la porta dello stanzino. Fermandosi dopo ogni passo, allungandosi per sentire ogni cambiamento nei suoni da sopra le scale, strisciò nella cucina e oltre fino al secchio dell'immondizia. Era l'unico posto in cui Zia Petunia non aveva mai pensato di contare le cose.

Un'altra pausa e sollevò piano il coperchio. La luce della luna attraverso la finestra della cucina era abbastanza per vederci, e rovistò impazientemente nel secchio. Dite incallite e coperte di vesciche per il lavoro si spostarono dagli avanzi di salsa e budino dei piatti a opuscoli pubblicitari e alcuni fazzoletti usati, a bucce di patate e  l’ossuta fine dell’arrosto che sua Zia aveva buttato prima che tutti si sedessero a tavola per cena. Harry tirò fuori dal cestino il residuo di carne e grasso e lo spostò velocemente all'altra sua mano, mentre tornò a prendere le bucce. Incapace di sopportare la fame un momento di più, ficcò il pugno di bucce nella sua bocca e masticò e inghiottì velocemente.

Cercando di più, rosicchiò la fine dell'arrosto, assaporandone il sapore e il sughetto, e anche la protezione cartilaginea.

Questa volta affondò di più nel cestino, fin quasi alla spalla. Anche se stava ancora masticando il primo boccone, morse ancora la carne ruvida, incapace di rallentare. Aveva appena afferrato qualcosa che sembrava la fine di una pagnotta quando la luce superiore della cucina si accese.

 

TbC

***

 

Il primo capitolo è andato, non fate i pigri e mostriamo che i fanreader italiani sanno recensire ;D

Ci vediamo al prossimo capitolo!

 

  
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