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Autore: waferkya    19/08/2011    4 recensioni
Il gufo di Remus è una bestiola grassoccia e pigra, con le ali marroni e il petto e il muso screziati di grigio. Ha gli occhi vispi, tuttavia, dorati e tondi come galeoni, cerchiati di nero, come due piccoli soli nascosti appena da qualche sbuffo di fumo, incoronati dal buio, ma siccome dorme, per la maggior parte del tempo, Remus spesso e volentieri ne dimentica il colore, la forma, l’esistenza, persino.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Remus Lupin | Coppie: Remus/Sirius
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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— Scritta per il prompt Gufo de La Scalata (wolfstar_ita) (8/15).
— Dunque, prima ancora che del Wolfstar, questa fic parla di Remus, perché avevo voglia di scriverlo. E... non so. Buon Natale in anticipo? *ride*
— Il primo novembre 1981 la luna era falce crescente. Che c'entra? Sega, ma l'ho cercato perché temevo che fosse luna piena e voglio condividere l'informazione. *ride*
— Il titolo è rubato ai Foo Fighters (Walk).
— Data: 07/viii/2011
~ Learning to walk again.
(I believe I've waited long enough)


Il gufo di Remus è una bestiola grassoccia e pigra, con le ali marroni e il petto e il muso screziati di grigio. Ha gli occhi vispi, tuttavia, dorati e tondi come galeoni, cerchiati di nero, come due piccoli soli nascosti appena da qualche sbuffo di fumo, incoronati dal buio, ma siccome dorme, per la maggior parte del tempo, Remus spesso e volentieri ne dimentica il colore, la forma, l’esistenza, persino. Il suo gufo è poco più che un soprammobile paffuto e soffice, piacevole da guardare, che ogni tanto arruffa le penne e di notte se ne vola via, tornando poco prima dell’alba, sporcandogli il davanzale della cucina di sangue di ratto e coniglio, e picchietta con il becco sul vetro finché Remus non si decide ad alzarsi e a lasciarlo entrare, perché lui non ci bada mai, se l’animale non è in casa, e ogni sera, prima di andare a dormire, chiude, metodico, una ad una, tutte le finestre.
Non ha neppure un nome preciso, il gufo di Remus, perché Remus gli parla solo al mattino, quando si trascina giù dal letto sempre troppo presto, solo per guardarlo far frullare le piume attraverso la cucina e appollaiarsi sulla sua credenza preferita con un gorgoglio soddisfatto. È gufo, allora, semplicemente, qualche volta dannata bestiaccia e più spesso che mai, ultimamente, pennuto. Remus è stanco di lui, in tutta franchezza, e non ne ha affatto bisogno, ma per quanto sia inutile e di scarsa rilevanza nella sua vita, il gufo continua a tornare diligentemente ogni volta, e lui non ha il coraggio di sfrattarlo, non davvero, perché l’animale è chiaramente innamorato dei mobili di casa sua e Remus non riesce a trovare, dentro di sé, la forza per distruggere un amore tanto sincero.
Silente sembra trovare la bestiola oltremodo affascinante, e se Remus non fosse così occupato dal cercare una seconda tazza per offrirgli del tè – è sicuro che ce ne sia una, da qualche parte, che apparteneva al vecchio inquilino e che lui non ha buttato perché, insomma, è Remus, non butta mai niente, meno che mai una tazza ancora perfettamente utilizzabile, – probabilmente gli riuscirebbe di trovare la cosa alquanto disturbante. Il vecchio preside, sottile e indistruttibile in una lunga tunica rosso sgargiante, la barba lunga infilata nella cintura e i capelli candidi acconciati in una composta coda di cavallo bassa sulla nuca, sta lì in piedi nel suo soggiorno e sorride con l’aria affettuosa di un nonno, accarezzando con il dorso di un indice la testa rotonda del suo gufo senza nome.
«Che animaletto adorabile,» Remus lo sente dire, e il sorriso è cristallino come acqua di fonte nella voce del preside. Un clacson, giù in strada, si lagna per Merlino solo sa quale motivo e Remus sobbalza, colto di sorpresa, e sbatte la testa contro lo spigolo dello stipetto in cui stava frugando. Brontola sottovoce, ed emerge pian piano, con la vittoria in pugno, sotto forma di una tazza celeste, paffuta e un po’ impolverata.
«Gratta e netta,» bisbiglia, pianissimo, e la sua preziosa reliquia torna a brillare probabilmente più del giorno in cui è stata comprata. La sistema sul tavolo, accanto alla propria, e si volta verso la teiera appoggiata sul fornello spento. Un colpo di bacchetta e l’acqua si mette a borbottare, e Remus quasi sorride tra sé. «Quanto zucchero nel tè, preside?»
Silente compare sulla soglia della cucina con quel sorriso enigmatico sulle labbra di cui Remus ha smesso di preoccuparsi parecchi anni fa, ma la cosa davvero sconcertante è che il gufo si è piazzato sulla sua spalla, nella pallida, patetica imitazione del pappagallo di un pirata babbano. Remus si metterebbe a ridere, se solo non fossero passati così tanti anni dall’ultima volta che è stato genuinamente felice.
«Due zollette, ti ringrazio,» dice il preside, e Remus annuisce, muove appena le dita e la teiera fluttua attraverso la stanza striminzita, riempie le due tazze e poi torna a posarsi sul fornello. Un cenno del polso di Remus e dalla credenza si libra un vaso di vetro, il tappo si svita, ne Levitano fuori cinque zollette di zucchero, due per Silente e tre per Remus. «Sei migliorato ancora, con la magia domestica.»
Remus si stringe nelle spalle e scosta dal tavolo una sedia per il preside.
«Non ho molto altro da fare,» dice, con leggerezza, e aspetta che Silente si sia accomodato prima di sedersi a propria volta. «Latte? Temo di non avere limone da offrire.»
«Del latte andrà benissimo,» sorride Silente, cortesemente, e non ha neppure finito di parlare che il frigorifero si apre e ne vola fuori una bottiglia quasi vuota, che sgocciola nella tazza del preside finché il tè non diventa color miele. «Molte grazie,» annuisce Silente, in direzione della bottiglia, che fa una specie d’inchino a mezz’aria, si richiude e torna al proprio posto. «Credo che anche il nostro piccolo amico gradirebbe qualcosa da mangiare,» continua, e accenna, con un sorriso divertito, al gufo sulla sua spalla, che gli sta becchettando i capelli.
Remus sospira, beve un sorso di tè.
«Se avesse davvero fame, non esiterebbe a staccarmi il naso,» commenta, più duramente di quanto avrebbe voluto. Silente lo guarda con uno scintillio quasi inquietante negli occhi chiari, e Remus si sente arrossire. «Non che sia pericoloso, naturalmente.»
«Naturalmente no,» concorda il preside, arricciando all’insù le labbra in una smorfia furba, e si porta la tazza alle labbra, sorseggiando educatamente. Chiude gli occhi, per un attimo, come se il tè fosse chissà quanto buono, e non lo è, davvero, è solo il mediocre tè del mediocre Remus Lupin. «Un’ottima miscela,» dice, prendendone un altro, lungo sorso. «Indiano, forse?»
«Non saprei, preside,» mormora Remus, a disagio nella propria pelle, nel proprio polveroso bilocale stipato di libri, sotto lo sguardo penetrante del suo dannato gufo che non ha neppure un nome ed è grasso da morire. «È babbano, sono certo solo di questo.»
«Ah, avrei dovuto capirlo,» dice Silente, sorridendo tra sé. «Davvero un’ottima, ottima miscela. Abbiamo così tanto da imparare, dai nostri amici Babbani.»
Remus non sa come replicare, perciò annuisce e si barrica dietro la sua tazza di tè. Silente si è presentato sul suo zerbino senza preavviso, bussando alla porta come se non fosse il mago più potente degli ultimi due o tremila anni, e gli ha semplicemente sorriso, gentile e paterno, invitandosi da solo ad entrare in casa quando Remus è rimasto lì sull’uscio, paralizzato dalla sorpresa. Non gli ha rivelato il perché della propria visita, ma non è che sia mai stato meno che misterioso in maniera snervante, e si è messo a fare la corte al suo gufo mentre Remus si affaccendava col tè, ma adesso glielo legge sul viso che non vede l’ora di spiattellare l’assurda richiesta che è venuto a fargli, perché Remus è sicuro che il preside sia qui per chiedergli di fare qualcosa, ha quell’esatta espressione che aveva sempre, durante la Guerra, quando aveva bisogno di lui, di loro, per sbrigare qualche commissione.
Ripensare alla Guerra, Remus, non è stata una buona idea. Gli occhi del gufo si sgranano appena, catturano un lampo di luce dalla finestra e ne brillano, luccicando più chiari, gialli come quelli di un gatto. Remus si agita appena sulla sedia, la testa che gli si riempie di cicatrici che non vuole, lettere che non ha scritto e anni che gli sono passati sotto il naso senza che lui potesse fare altro che corrergli dietro, inseguendo il baluginare ingannevole di una promessa che non ricorda di avere fatto, che non ricorda di aver sentito.
E c’è Silente, dall’altra parte, ne è sicuro. È Silente che ha trovato la chiave per la gabbia soffocante, grigia, pesantissima che Remus si porta addosso dal giorno in cui tutti i suoi amici sono morti, tutti, tutti, nessuno escluso. Sta solo aspettando, Silente, che Remus sollevi la testa dalla sua tazza di tè e chieda la libertà, chieda di avere indietro una vita, non quella che aveva prima, quella è saltata in aria assieme al tetto della casa di Lily e James a Godric’s Hollow, assieme all’asfalto e al corpo di Peter e a quello che avevano creduto fosse Sirius in quella strada Babbana, – quella è perduta per sempre, Remus lo sa, ci si è quasi rassegnato, – ma una vita e basta, qualcosa che lo costringa ad uscire di casa, ad incontrare il mondo là fuori e riempirsene tutto, qualcosa che gli permetta di usare il suo maledetto gufo senza nome, una volta ogni tanto.
Remus non è sicuro di volerlo guardare, non adesso, non oggi, mai.
«Remus,» lo chiama Silente, con dolcezza, e lui continua a fissare il suo tè. «Remus, ragazzo mio. Sono sicuro che sei al corrente della, ah, situazione attuale?»
Remus stringe con forza la tazza e annuisce, le labbra premute in una linea sottile e pallida, come se fossero nient’altro che un’altra cicatrice sul suo viso. La situazione attuale, naturalmente; non avrebbe potuto aspettarsi maggiore accortezza, da Albus Silente. Sirius è evaso da Azkaban, ecco la situazione attuale. No, si corregge Remus, non Sirius; Sirius – Sir, Padfoot, Paddy, il suo migliore amico, il Malandrino, Sirius, – è morto, non esiste più. C’è un uomo con la sua faccia, un assassino, con il suo viso e le sue labbra, i suoi capelli, le sue mani, non i suoi occhi, no, un uomo con gli occhi di un pazzo, che si agita sulla prima pagina della Gazzetta del Profeta e urla senza voce e quell’uomo non è Sirius, anche se gli somiglia così tanto. Sirius è morto, e un Mangiamorte assassino che si finge lui è scappato dalla prigione da cui non si può scappare.
«Ho saputo,» mormora, pianissimo. Silente ha certamente visto la copia del Profeta che Remus ha buttato sulla poltrona nell’altra stanza, l’unica poltrona che abbia, non appena la splendida civetta delle consegne gliel’ha lasciata sul davanzale. Il gufo senza nome piega un po’ la testa di lato e chioccia, spalancando il becco. Spicca il volo, plana ad ali spiegate sulla mensola dove c’è la sua ciotola e si mette a becchettare allegramente un po’ di mangime. Remus lo guarda, perché qualsiasi cosa è meglio che guardare Silente, ora, perché Silente vuole affidargli una missione, un compito, un lavoro, e Remus non ne ha la forza. Appena due notti fa è tramontata la luna piena e lui è così spossato che gli sembra di stare incassato in un pozzo profondo quanto la terra stessa, e non vuole emergerne mai più, perché tutto sommato non si sta tanto male. Il Gramo si aggira nelle ombre là fuori, e Remus non vuole averci niente a che fare.
«Dunque puoi facilmente immaginare la ragione della mia visita,» dice il preside, cortese, e fa roteare pigramente quel poco di tè che rimane sul fondo della sua tazza, prima di berlo in un ultimo sorso. Remus lo guarda finché è sicuro che Silente non ricambi la sua occhiata, e poi intreccia le dita sul tavolo, conta le minuscole cicatrici che gli frastagliano le nocche.
Silente aspetta, paziente. Remus sente su di sé il suo sguardo penetrante, quello scintillio furbo d’azzurro oltre gli occhiali a mezzaluna e sa che il preside è certo di averlo in pugno, è certo di vedere la sua insicurezza sbriciolarsi, di riuscire a strappargli un consenso. Di nuovo vorrebbe ricordarsi com’è che si fa a ridere, allora, perché non è mai stato così convinto di qualcosa come lo è ora del fatto che non vuole – assolutamente – incrociare la bacchetta con quella dello sconosciuto che va in giro nella pelle di Sirius, sotto il pelo di Padfoot.
L’unico rumore in tutta Londra ora è il suo gufo che spacca il guscio di una noce con l’entusiasmo di un ragazzino, come se dentro dovesse trovarci finalmente un nome, una lettera da consegnare a qualcuno. C’è solo il gheriglio, naturalmente, ma l’animale sembra soddisfatto anche così, contento che Remus non sia pieno che di fantasmi e paure e di vuoto, è pieno di vuoto, questa sì che è bella, come se li avesse passati lui, dodici anni ad Azkaban. Ed è un po’ così, in fin dei conti.
È il primo novembre da una manciata di ore appena e Remus sta dormendo, raggomitolato su un fianco, le lenzuola attorcigliate attorno alle gambe e un braccio sepolto sotto il cuscino. Uno spiffero d’aria fredda gli accarezza una spalla e lui si volta sdraiandosi sulla schiena, le palpebre che tremano appena. Il letto è ampio e stropicciato, vuoto dove non dovrebbe, e Remus comincia a svegliarsi, piano piano, e quando è ancora in bilico sul bordo affilato di un sogno dolcissimo sente il materasso sprofondare un po’, e un respiro avvicinarsi al suo viso, la pressione della punta di un naso contro la guancia e sorride. Mugola, stiracchiandosi un po’, e Sirius gli accarezza il collo, le clavicole, lo sterno magro, i fianchi spigolosi. Remus s’inarca contro il suo tocco, si volta, Sirius si sporge su di lui ancora un po’ e in quell’attimo è tutto perfetto, perché Remus ha gli occhi chiusi e non vede la morte sul volto di Sirius, l’angoscia, il rimorso, il senso di colpa. Il lupo ben nascosto in fondo al suo stomaco ne sente l’odore, ma resta zitto, e il bacio con cui Sirius tocca le labbra di Remus, prima di scappare via da lui e da tutto, è quello di un Dissennatore.
«Pad?» mormora Remus, quando il secondo bacio che aspettava non arriva, quando della carezza che voleva sentire sulla pelle tenera delle cosce non rimane altro che il desiderio, e apre gli occhi, si guarda attorno e Sirius non c’è, Sirius è già svanito, Sirius è morto ma Remus non lo sa, non lo sa che è il primo novembre ed è la fine del mondo. Aggrotta appena la fronte, perplesso, e si rimette a dormire, perché è buio, è presto, e alle otto e mezza ha appuntamento con Lily.
Silente si sfiora la punta del naso, e il movimento improvviso ai margini del suo campo visivo fa scattare all’insù gli occhi di Remus. È finita, dunque, perché Silente cattura il suo sguardo e Remus non ha scampo. È in trappola, e serra la mandibola, mordendosi le labbra.
«Preside,» dice, soppesando cautamente le parole. Il gufo sgranocchia la sua noce e fa più rumore di un troll di montagna. «Non ho idea di dove sia, né di dove potrebbe voler andare. Al contrario, sono ragionevolmente sicuro che lei sia ben più informato di me sull’intera questione.» Inspira, e si sente tremare. «Per cui, mi dispiace, ma non ho la minima idea del perché sia venuto fin qui.»
Silente sorride, fa per dire qualcosa ma ci ripensa, china appena la testa e la curva delle sue labbra si ammorbidisce un po’, sembra, d’improvviso, assurdamente più vecchio, e saggio, e gentile.
«Non desidero che tu vada a dargli la caccia,» dice, allungando una mano sul tavolo a posarla su quelle ancora intrecciate di Remus. «Non potrei mai chiederti di caricarti un tale peso.»
Remus vorrebbe dirgli che ha fatto di peggio, in passato. Vorrebbe dirgli che ha permesso a quell’uomo – ad un assassino, – di tradirli tutti, di vendere James e Lily e di mangiarsi la vita di Remus in un solo boccone. Vorrebbe dirgli che ha messo una vipera in un nido pieno di uova con cui banchettare, il giorno in cui ha lasciato che Sirius Black il traditore si facesse smistare a Grifondoro; vorrebbe dirgli che li ha uccisi lui, tutti quei Babbani, e i suoi amici, e Padfoot, il giorno in cui ha deciso di non vedere la vera natura di quell’uomo con gli occhi grigi come una lapide nella nebbia. Si morde la lingua, tuttavia, e osserva le dita lunghe e sottili del preside stringersi attorno al dorso della sua mano, confortarlo.
«Che cosa vuole, allora?» domanda, e non riesce a credere di averlo detto, ma forse è solo che vuole stare da solo, e quanto prima rifiuta l’offerta di Silente, qualunque essa sia, tanto più in fretta il preside acconsentirà ad andarsene. Magari si porterà via quel batuffolo di piume che mangia e dorme e caccia e non serve ad altro.
Silente lo guarda a lungo senza dire nulla. Remus s’innervosisce un po’, perché continua a perdersi dietro pensieri da cui farebbe meglio a tenersi lontano e mai come in questo momento ha sentito il bisogno di seppellirsi vivo in un libro. Sono dodici anni che va avanti così, vivendo e non vivendo, strappandosi la pelle dalla schiena ad ogni luna piena e cambiando casa e lavoro dopo tre, quattro, cinque, sei settimane. Non è neppure colpa del fatto che è un lupo mannaro, il punto è che non resiste mai a lungo da nessuna parte, dietro nessuna maschera, e questo perché non ha più un’anima, non ha più niente da perdere o da dare, neppure un nome per il suo gufo, Sirius gli ha portato via tutto, morendo, – e anche James, e Lily, e Peter, ma più di tutti loro messi assieme Sirius, il suo Sirius, Padfoot, non il mostro della Gazzetta, non il mostro della strage, – e non la sopporta, la vicinanza delle altre persone, quelle che hanno molto più di quanto sia rimasto a lui, e comunque sempre meno di quanto ha avuto, in quell’altra vita.
«Vorrei che tu venissi ad Hogwarts,» dice Silente, alla fine. Remus pensa, distrattamente, che avrebbe potuto mandargli un gufo. «Vorrei che fossi tu l’insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure, quest’anno.»
Il gufo dà uno stridio maleducato, spalanca le ali e si agita, ma non si muove. Remus lo guarda, poi guarda Silente, il suo naso rotto, i suoi occhi brillanti.
«Perché io?» domanda, e Silente sorride, non risponde. Remus sospira, si stringe tra due dita la radice del naso. «Severus ha rinunciato alla cattedra?»
«Naturalmente no,» replica il preside, ed è così inappropriatamente divertito che Remus quasi si lascia contagiare. «Tuttavia, non la riterrei una scelta prudente.»
«Si fida di lui?»
«Ogni giorno di più, mio caro,» e non c’è incertezza nella sua voce, nel suo sguardo, perciò Remus suppone di dovergli credere.
«Si è già sbagliato, in passato,» bisbiglia, come se l’aria fosse diventata di vetro e potesse romperla e ferirsi con le schegge, se solo respirasse troppo forte. Silente annuisce.
«Una volta o due,» dice, la voce lieve, ma la sua espressione è greve, colpevole. «Ma non questa volta. E anche tu conosci Severus. Credi che sbagli, a fidarmi di lui?»
«No, credo di no,» risponde Remus, e sottrae le mani alla presa delle dita di Silente. Sorride, amaramente. «Il che, dati i miei precedenti, probabilmente significa che Severus Piton è l’ultima persona al mondo in cui dovrebbe riporre la sua fiducia, preside.»
Silente non ride, ma stringe gli occhi, severo. Remus si agita un po’ sulla sedia, a disagio. Si passa una mano tra i capelli, incrocia le braccia al petto.
«Remus, Harry ha bisogno di essere protetto.»
L’artiglieria pesante, finalmente. Non è che Remus non se lo aspettasse, al contrario, si stupisce quasi che Silente abbia aspettato tanto a trascinare il nome di Harry nella conversazione. Se fosse mai stato un uomo migliore, un Grifondoro migliore, probabilmente non si lascerebbe istupidire così da due sillabe che non hanno, per lui, neanche un volto preciso, ormai, ma solo due occhi, grandi, verdi, curiosi, e una zazzera di capelli neri stropicciati come uno spaventapasseri. Se fosse mai stato un uomo migliore, un Grifondoro migliore, non avrebbe lasciato che James e Sirius dessero il tormento a Severus per così tanti anni, e non si sarebbe fatto ingannare da quell’assassino, e sarebbero ancora tutti vivi, tutti, se solo non fosse stato così – così Remus Lupin, alla perenne ricerca di qualcosa con cui riempirsi. Se fosse mai stato una persona diversa, avrebbe dato un nome a quel gufo.
«Ho bisogno di pensarci, preside,» si arrende, infine. È un sì, va bene, d’accordo, verrò, insegnerò, farò il mio dovere grande come un gigante, come un drago a sei teste, e Remus lo sa, mentre lo dice. Lo sa, mentre guarda Silente sorridere. «Tuttavia, vorrei che ci pensasse anche lei. Con la mia condizione--»
«Non sarà di alcun problema,» lo blandisce Silente, subito. «Ho già informato il corpo docenti, e nessuno ha sollevato obiezioni di sorta.» Remus ne dubita, ma evita di dar fiato al pensiero, anche perché è certo che Silente glielo possa leggere in faccia. «Si fidano tutti di te, Remus,» continua, più gentilmente. «E Severus ha perfezionato la sua Pozione Antilupo, per cui non ci sarà neppure bisogno che tu, ah, faccia visita alla Stamberga Strillante.»
«Non ho ancora accettato il posto, preside,» precisa Remus, e comincia a sentire qualcosa tirargli gli angoli delle labbra, un sorriso quasi sincero, forse. Silente fa un cenno vago con la mano, come a scacciare una mosca molesta.
«L’Espresso parte il primo settembre,» dice, alzandosi in piedi, e Remus si alza di riflesso. «Se vorrai unirti a noi prima di allora, cosa di cui peraltro saremmo estremamente lieti, arrangeremo una maniera di farti arrivare a scuola, basterà che mi giunga il nostro simpatico amico,» e accenna al gufo, che si sta ripulendo un’ala con grande attenzione, ed è la cosa più impegnativa che Remus gli abbia mai visto fare da quando l’ha preso con sé. «Per Hogwarts sarà un onore riaverti, Remus.»
«Non ho ancora accettato, preside,» ripete Remus, un po’ esasperato. Silente finge di non averlo sentito, sorride, fa un breve cenno col capo.
«Non c’è bisogno di accompagnarmi alla porta,» dice, e quando si volta, la veste che fruscia appena, sollevando fiocchi di polvere dal pavimento, Remus lo guarda andare via, aprire la porte, chiudersela alle spalle, non prima di avergli fatto un occhiolino furbo da sopra la spalla, e poi sente, ovattato, il risucchio della Smaterializzazione.
Remus sospira, appoggia i pugni chiusi sul tavolo e pensa, Hogwarts. Remus guarda le venature scure del legno e ricorda i pomeriggi sul lago, i sonnellini durante le ore di Divinazione, i banchetti in Sala Comune dopo ogni partita di Quidditch vinta e stravinta. Hogwarts. Tornare lì da insegnante sarà assurdo, tremendo, sbagliato, e Remus non vuole rimetterci piede.
Chiude gli occhi, il gufo chioccia di nuovo e lui lo guarda, gli si avvicina.
Hogwarts. Sarà un inferno, tornare tra quei corridoi così zuppi di ricordi ambrati e meravigliosi e persi; sarà così brutto che Remus desidererà Obliviarsi da solo, sarà così brutto che desidererà morire, sarà così brutto che probabilmente impazzirà.
Solleva una mano, accarezza le piume morbide del gufo e quello lo guarda e per la prima volta Remus si accorge che, con quei cerchi neri attorno agli occhi rotondi, sembra che il gufo abbia gli occhiali.
Tornare ad Hogwarts sarà così brutto che Remus si sente vivo e sbuffa qualcosa che, più o meno, potrebbe essere una specie di risata. James continua a guardarlo, inclinando un po’ la testa di lato, e gli becca un dito.
  
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