
Sono
una bambina, per ora, coi
capelli rossi ricci ricci, una nuvola voluminosa. Sono a un banchetto
nuziale,
in una stanza stretta e lunga dell’’hotel
Royal’, che combatto per mangiare una
fetta di melone seguendo il Galateo. Tutto ciò che
è successo prima (un casino
con gli abiti da cerimonia mio e dei miei, dall’aspetto
campagnolo, che
presentavano tutti lo stesso taglietto e che abbiamo dovuto cambiare)
non ha
importanza. Mi trovo seduta all’estremo della tavolata che
dà le spalle
all’entrata, che a sua volta dà su un cortiletto
di pietra bianca, simile a
quello di una chiesa, sopraelevato come del resto il ristorante e con
due
scalinate ai lati.
A un tratto la musica si ferma e il cantante cade con un tonfo dietro
di me.
E’ Freddie Mercury. E’ morto.
Un attimo, e una cameriera vestita di nero con grambiule e cuffietta
bianca
l’ha già messo in una bara, ancora aperta, dietro
di me, di traverso.
Finché mio padre mi fissa (sono tornata diciassettenne), non
ho il coraggio di
avvicinarmi più di tanto. Penso alla vita dissoluta
dell’uomo dietro di me e
recito una preghiera per lui. Poi penso: “Addio, Freddie. Ti
ho voluto bene”.
Neanche fossi stata la sua amante o qualcosa di simile.
Finalmente mia madre trascina fuori mio padre (noto che
l’uscio della stanza è
buio e ha forma a edicola, come una cappella funeraria, e sento i
mormorii
della gente commossa sul cortile), così posso avvicinarmi
alla bara. Le labbra
di Freddie, ancora vestito per il palco nel suo celebre completo giallo
e
deposto nella stessa posizione in cui è caduto, mi tentano,
ma mi figuro la
scena di me e i miei al termine di una visita ginecologica (da notare
che,
anche se credo di poter contrarre l’AIDS di Freddie per via
salivare, rimango
consapevole nell’immaginare la scena che prenderlo non
è così semplice), con la
dottoressa che ci comunica che ho contratto il virus e i miei che mi
guardano
sconvolti, increduli e preoccupati, e io che non so dare spiegazioni
– questa
immagine è tutto ciò che riesce a trattenermi.
Volto il viso non di Freddie, ma di di Farrokh Bulsara,
e mi accontento di baciargli la guancia, già solcata da un
fitto reticolato di
profonde rughe.