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Autore: Dark Side of the Moon    20/08/2011    5 recensioni
Simona è una ragazza come tante altre, una normale ragazza di sedici anni di una normale famiglia. Vive una vita tranquilla, regolare.
È sovrappeso, ma non esageratamente.
Eppure, nello specchio vede sé stessa come enorme, aberrante, bruttissima. Simona si vergogna troppo del suo corpo per pensare a sé come attraente, o addirittura carina.
Ma tutto questo potrebbe cambiare, se solo trovasse fiducia in sé stessa.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La cicciona

 

Capitolo I

 

Si chiamava Simona. Simona Serena.

Simona, come la compianta buonanima della nonna materna, spirata il giorno della sua nascita, 26 ottobre, ma del lontano 1985, dieci anni prima; e Serena, in onore di una lontana e sconosciuta procugina di parte paterna finita sotto un'auto in corsa pochi giorni prima della sua nascita.

 

Divertita, Simona pensava che condividere la data del compleanno con due funerali e ritrovarsi i nomi di due morti non fosse esattamente garanzia di un futuro roseo e splendente: per sua fortuna, non era superstiziosa. Non aveva mai davvero creduto a gatti neri, specchi rotti, ferri di cavallo, oroscopi, veggenti e tutto ciò che lei definiva con sufficienza “cazzate da nonnine”.

 

Quando la sorella Viola, al parrucchiere, sfogliava meticolosamente le riviste di gossip alla ricerca della rubrica astrologica, Simona la rimproverava, dandole dell'ignorante e della credulona.

«Credici, credici!» la derideva. «Ma non ti rendi conto che sono idiozie?» insisteva.

Annoiata, Viola faceva finta di non sentirla.

 

Viola era una ragazza di diciotto anni, alta e magra, bruna, scura di carnagione, nel complesso bella.

Simona, invece, di anni ne aveva quindici, quasi sedici, ed era radicalmente diversa dalla sorella. Tanto per cominciare, non era alta un metro e settantatré, ma solo uno cinquantasette, e non dava segni di dover crescere ancora.

 

Ogni sera, Simona puntava doviziosamente la sveglia alle sei e cinquanta, si metteva il pigiama e si coricava. Prima di addormentarsi, le piaceva passare cinque o dieci minuti a fantasticare, a lasciar volare la mente, inventando mondi alternativi, distorcendo la realtà, eliminando i difetti del suo universo. A volte, si sforzava così tanto con l'immaginazione, che si ritrovava le stesse situazioni anche nei sogni.

 

Sognava di essere una modella alta e bellissima, magra e flessuosa, magari bionda, ma soprattutto magra, con le curve nei posti giusti, con gambe lunghe e filiformi, ma il requisito essenziale era che fosse magra, snella, senza un filo di grasso.

Era un dolore, la mattina dopo, tristemente sveglia, leggere sul display della bilancia pesapersone, che teneva sotto la finestra, cifre spaventose come 68 o 69.

 

Non sapeva perché si costringeva ancora a questa tortura psicologica quotidiana. Tanto, da due anni a quella parte il suo peso non era cambiato di molto: aveva preso forse due chili, non di più. Eppure, ormai per lei era diventato automatico, meccanico. Sentiva suonare la sveglia, con quel suo trillo lacerante che la strappava al suo mondo perfetto, e, ancora mezza addormentata, la spegneva agitando il braccio destro a casaccio, abbattendolo sul comodino.

Poi apriva gli occhi, e riprendeva conoscenza. Quando tornava in possesso del suo corpo, calciava via le coperte e correva ad alzare la tapparella, lasciando che un getto della tenue luce rosata del primo mattino inondasse la sua modesta cameretta. Gli occhi chiusi, abbacinati, Simona montava sulla piccola bilancia personale che si era comprata con i soldi regalatigli dalla nonna due Natali prima. Era un'abitudine. Salire su quel parallelepipedo di plastica, cercando di pesare quanto meno possibile, di non calcare i piedi, di svuotare i polmoni dall'aria, di sottrarre anche solo un milligrammo a quell'insensibile macchina elettronica.

 

Leggeva il triste responso, ma non si scoraggiava più di tanto. Ci aveva fatto l'abitudine, il callo.

Sono grassa, si diceva. Eh sì che sei grassa, rispondeva un'altra vocina, cattiva e crudele, nel suo cervello; guarda là, guarda la tabella, la provocava, perfida. Senza volerlo, ogni santa mattina, Simona prendeva una scheda sull'Indice di Massa Corporea che aveva stampato da Internet. Nonostante non ci fossero cambiamenti, rifaceva la procedura con precisione: prendeva un apposito righello che aveva sulla scrivania e collegava l'“1.57” della colonna dell'altezza con il “69” della colonna della massa. Sovrappeso. Il verdetto era sempre quello. IMC di 28. Sovrappeso. Inappellabile come una condanna a morte.

Si piegava, si chinava, cercava di ingannarsi con un'illusione ottica che la linea tendesse verso “Normopeso” e non, inesorabilmente, verso “Obeso classe I”. Ma niente, rimaneva sempre una cicciona.

 

Sei una cicciona. Cicciona. Cicciabomba, la sfotteva la vocina cattiva.

Simona aveva imparato ad ignorare quella vocina sibilante.

 

Quella mattina del 5 novembre 2010, Simona si chiese, in particolare, perché l'anonimo disegnatore della tabella avesse colorato di verdino il sottopeso, di un rilassante e rassicurante azzurro cielo il normopeso, di arancione il sovrappeso e di tonalità di rosso, via via più scure, tetre e sanguinarie l'obeso, fino ad arrivare ad uno sconvolgente rosso carminio per “Obeso classe IV”, IMC maggiore di 40. Certo, era un bell'effetto grafico e rendeva tutto più comprensibile, ma quello sciagurato non poteva capirla, magari essere poco poco più sensibile? Usare tonalità di verde? O di blu?

No, duro, feroce: rosso come il sangue che avrebbe versato sul tavolo del cardiochirurgo, il giorno che il colesterolo le avesse fatto venire un infarto. Si immaginò il chirurgo che frugava nel suo corpo, sollevando i vari strati di lardo alla ricerca del cuore, depositando a lato mucchietti di ciccia.

Non dire cazzate, tu non hai il colesterolo, sei sana come un pesce, s'interruppe. Non ancora, non ancora, la contraddisse la solita vocina: aspetta d'invecchiare un po', e ne riparliamo. Fanculo, per allora Simona si sforzava di non pensarci. Si voltò, e diede un'occhiata alla sua cameretta. Rifletteva esattamente il suo carattere: semplice, accogliente, abitudinaria. Letto, comodini, scrivania, armadio, libreria e niente più. Sulle pareti, aveva appeso parecchi poster della sua cantante preferita, Avril Lavigne, nelle sue pose aggressive e terribilmente affascinanti. La Lavigne – che Simona chiamava confidenzialmente solo “Avril”, come se la conoscesse – teneva sott'occhio ogni angolo della cameretta, severa e bellissima. Qui e là, Simona aveva messo dei peluche; sulla scrivania e sui muri, ancora c'erano le foto di quando era bambina, piccola e dolce come tutti i bambini: la madre le aveva tassativamente proibito di farle sparire, come era suo desiderio. Tutta la cameretta era in tinta chiara: i muri imbiancati, i mobili di compensato bianco, il pavimento di marmo grigio tenue. A Simona, nonostante tutto, piaceva.

 

Si stiracchiò, e decise di andare a fare colazione.

Nella caotica cucina di casa Ferretti, c'erano tutti i membri della famiglia meno Viola.

C'era Simona, seduta al tavolo di plastica, nel suo pigiama rosa.

C'era il padre, Tommaso Ferretti, un uomo di quarantacinque anni, minuto, occhialuto, gentile e comprensivo, dai modi posati e dalla voce bassa, di professione impiegato alla Regione, già in giacca e cravatta.

C'era la madre, Anna Pellegrino, una donna di quarantatré anni, bassa, di corporatura normale (da chi avesse preso Simona, era un mistero), bruna, dai modi spicci e diretti ma dal carattere affettuoso, casalinga.

Mancava appunto Viola.

«Sta ancora dormendo, Violetta?» chiese l'uomo.

«Sicuramente» confermò la moglie. «Vado a svegliarla» decise, si alzò dal tavolo e sparì in corridoio.

 

Tommaso sorrise, fece l'occhiolino a Simona e le fece segno di ascoltare.

Rumore di porta aperta.

«Sveglia!» comandò la mamma.

«Mmmh!» si lamentò Viola, ancora addormentata. La mamma alzò di scatto la tapparella.

«No no no!» grugnì la ragazza.

«Scendi dal letto! Il sole è già alto, giù dal letto con un salto, vieni a fare colazione!» canticchiò la mamma, sarcastica.

«Cinque minuti!» supplicò Viola, raggomitolandosi fra le coperte.

«No!»

«Ma mamma, ho diciott'anni!» tentò lei.

«Non me ne frega niente! Tu ora ti alzi»

«Sono maggiorenne, non puoi costringermi a fare niente!».

 

Un minuto dopo, Viola era al tavolo, di fronte a Simona, sconfitta.

Guardava la sua tazzina di caffè nero, stravolta, i capelli arruffati.

Simona, invece, stava intingendo un biscotto nel suo bicchierone di latte caldo: quel gesto infantile, da bambina, la faceva sentire imbarazzata. Arrivata al terzo biscotto, guardò il sacchetto giallino accanto a lei, colmo fino all'orlo, invitante. Pensò che non doveva esagerare, che quei biscotti andavano dritti dritti dalla bocca nelle cosce. Quindi, un quarto e poi basta, poi bevi il latte e vai a lavarti. Lo intinse con cura, calcolando il momento in cui sarebbe stato molle al punto giusto, senza disfarsi in una pioggerellina di frammenti appiccicaticci. Viola stava sorseggiando il caffè. Abbassò la mano e chiese alla sorella: «Vai tu a lavarti?».

Simona mangiò il biscotto – senza nessun dispiacere, era buono – e annuì. Si alzò e andò in bagno, mentre il padre aspettava in garage, per accompagnarle a scuola.

 

Mentre si lavava i denti e si sciacquava la faccia, Simona pensò che non era brutta, di viso. Anzi, oggettivamente aveva un bel volto: ovale, liscio, pulito, regolare; aveva un bel naso, diritto e proporzionato; una bella bocca e delle belle labbra, anche se un po' sottili. Aveva lisci capelli castano scuro, lunghi fino alle spalle, sopracciglia eleganti e occhi verdi ben delineati. Non era nemmeno paffuta di guance.

Se l'avessero decapitata, la polizia avrebbe pensato che la testa giunta in centrale in un pacco postale appartenesse ad una ragazza molto più bella di lei.

 

Quando avessero trovato il resto del corpo, si sarebbero accorti – dopo qualche comprensibile dubbio – della sfiga della ragazza. China sul lavandino, Simona non riusciva a specchiarsi oltre le spalle, ma conosceva bene il suo corpo.

C'era il seno, una terza misura, sodo e tutto sommato presentabile. C'era il costato, ancora ancora regolare.

Poi cominciavano i guai.

Vista di lato, Simona era a posto: non aveva una pancia che le protrudeva di fuori.

 

Aveva, come si diceva in ambito tecnico – aveva imparato le parole giuste per definirsi piuttosto in fretta –, un fisico a pera, stretto in alto e largo, orribilmente largo in basso.

Simona aveva fianchi troppo larghi a cui corrispondeva un sedere ugualmente vasto che infine si divideva in due cosce robuste. Sono inguardabile, si lamentò. Sembro una foca, un tricheco. Un enorme, immenso, informe tricheco che si sposta saltellando su sé stesso.

Guarda qui che rivoli di ciccia, che schifo, si lagnò con sé stessa. Sembra che ho una ciambella di salvataggio, aggiunse.

 

Simona era stata già una bambina rotondetta: la pubertà aveva fatto il resto: tutto il grasso era migrato sui fianchi e sulle cosce, e non c'era modo di farlo sparire.

Aveva provato a mangiare di meno, ma non era questione di mangiare poco o mangiare molto, era così di costituzione e basta. Una volta, una sola volta, aveva pensato di non mangiare proprio, ma l'orribile pensiero di poter diventare anoressica era bastato a distoglierla dal malsano proposito. Se doveva finire come le modelle morte d'inedia di cui ogni tanto parlavano in TV, se doveva vedersi appassire, rinsecchire, preferiva rimanere così com'era: fin troppo florida, ma almeno in salute. In verità, Simona preferiva non guardare molto la TV: tutte quelle tette e tutti quei culi scolpiti, flessuosi, rotondi, la facevano sentire una merda. Va bene che io non devo fare la velina, si diceva, io voglio fare la dottoressa, ma perché diavolo loro sì e io no? Che ingiustizia. Una vera ingiustizia. Foca, foca, foca, la sfotté la vocina cattiva. Sei proprio una foca, ben ti sta. Vai, foca, vai. Vai a divorare il tuo pesce, ingorda foca.

 

Simona zittì quella vociaccia e corse a vestirsi: quando si hanno certi fianchi, e un certo sedere, si disse, non è che ci sia molta scelta: jeans oscenamente larghi, felpa blu e scarpe da ginnastica. Rimase un lunghissimo istante a rimirarsi nello specchio nell'anta dell'armadio.

Sono orribile. Foca. Tricheco.

 

«Simooo!» gridò Viola, già sul pianerottolo.

Simona sospirò, rassegnata, e corse – o meglio, arrancò sballottando il suo immenso culone – fino alla sorella. La attendeva un altro, noioso giorno di scuola.

 

 

 

 

 

 

La postilla

 

Questa rubrica mi servirà se avrò bisogno di fare precisazioni, note, citazioni, esplicazioni.

A scanso d'equivoci, sia detto che questa storia non è assolutamente autobiografica: l'autore precisa che lui è tutto il contrario della sua protagonista, magro magro e lungo lungo.

La storia è di fantasia, cioè è frutto della mia sola mente senza aiuti esterni.

 

Conto di poter pubblicare il prossimo capitolo entro stasera, o, al più, domani mattina. Male che vada, domani pomeriggio.

 

Sono gradite recensioni, positive o negative che siano. Ciao.

 

Dark Side of the Moon

(Meglio noto al popolo come Domenico)

  
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