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Autore: Exelle    21/08/2011    5 recensioni
Seguito di tutte quelle Charles&Erik che ho scritto precedentemente.
... Solo che questa ha più capitoli.
"Charles si chiedeva se la colpa non fosse sua. Forse era perchè Westchester non gli era mai sembrata tanto accogliente, al pensiero che Erik fosse lì, che dormisse a poche porte di distanza dalla sua."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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  Welcome to Westchester
Charles&Erik (X-Men First Class) Pt. 4
 
 
Non c’è inganno peggiore che l’essere innamorati.
Il mondo assume i contorni dell’assurdo e  le tonalità della gioia.
Solo il fiele della realtà, incrina l’illusione.
E.F.


CAPITOLO I
 
 
Westchester, New York, 1962
 
Nel diffuso bagliore giallastro del primo mattino, striature di nuvole cominciarono a coronare le irregolari creste degli alberi. Le loro sagome nere pian piano vennero strappate all‘oscurità, riprendendo i loro veri colori, mentre le ombre dei loro rami cominciavano ad allungarsi sul neonato verde dei prati ben tagliati. 
L’aria era fresca e non sarebbe stato difficile immaginare, più tardi, l’arrivo di una lieve brezza che avrebbe ben presto asciugato la rugiada sulle larghe foglie delle siepi d’alloro o nelle aiuole ornamentali lungo i vialetti.
Il cielo andava schiarendosi assumendo toni sempre più azzurrini, disperdendo il violetto delle ultime ore della notte. Solo l’ombra fantasma e lattiginosa della luna sopravviveva ancora, in attesa di essere scacciata dal sole, quando questo sarebbe sorto.
Charles Xavier, percepì con insofferenza la luce che entrava dalla finestra semi aperta, il monotono ronzio di un insetto intento a sbattere contro il vetro socchiuso.
Senza svegliarsi del tutto, Charles si girò su un fianco, tirando il più possibile le coperte sopra di sé, sentendo qualcosa di piccolo rotolare fra queste e cadere sul pavimento con una serie di  tintinnii aritmici. Charles non se ne interessò minimamente, preferendo raggomitolarsi su sé stesso, serrando le palpebre e schermandosi gli occhi con le braccia.  
Non aveva voglia di alzarsi; era stato stupido non chiudere le tende. Avrebbe potuto farlo prima di andare a letto e ora, avrebbe potuto dormire ancora. 
Dovevano ancora mancare un paio d’ore alle nove, forse. Charles fletté le dita, ispirando come se avesse il raffreddore; il sonno lo stava abbandonando, mentre cominciava a pensare in modo più ordinato. O si erano accordati per le otto? Charles non lo ricordava davvero, eppure era stato lui a stabilire l’ora, il giorno prima e quello prima ancora. Forse gli altri si erano già alzati e lui stava facendo la figura dello stupido, vittima della stanchezza, quando avrebbe dovuto essere il primo a dare l‘esempio.
Doveva proprio alzarsi, quindi?  O era maledettamente presto e lui si stava solo sbagliando?
Si rigirò ancora, mettendosi a pancia in giù e affondando la testa nel cuscino, sprimacciandolo prima con qualche pugno poco convinto, prima di arrendersi al fatto che ora era completamente sveglio. 
Aprì lentamente gli occhi, così che le ciglia sfregarono contro la stoffa morbida. La luce chiara gli dava un po’ meno fastidio, filtrata dalle lenzuola tirate sopra la testa. Ne afferrò un lembo, abbassandole lentamente, sbattendo le palpebre e mettendosi a sedere, una mano sulla fronte per proteggere gli occhi da quell’illuminazione così insopportabile eppure tenue.
Quando si mosse, altri scacchi rimasti in piedi sulle caselle nero e avorio tremolarono sulla scacchiera sempre più inclinata, fino a cadere anch’essi. Il rumore che fecero nell’incontrare il parquet ricordò a Charles il rovesciarsi di una scatola di chiodi. Solo un re, una torre ed un paio di temerari pedoni sopravvissero, rimanendo in piedi, seppur vaganti in caselle non loro. Charles ne fu stranamente disturbato, come se avessero commesso qualche imperdonabile sfrontatezza nei suoi confronti. Era irritante sapere che altri pezzi, altri di loro, giacevano a terra, sparsi per la stanza, mentre quelli avevano avuto mantenuto la loro posizione, disinteressandosi nel seguire la sorte degli altri. 
Charles sapeva quanto fosse stupido quel ragionamento, ma quell’irrilevante evento gli appariva una crudele ingiustizia, nella luce mattutina.
Dovevano cadere tutti, e il re nero con loro. Per questo, Charles non fermò il suo braccio, quando colpì la scacchiera, spedendola a terra con un colpo secco. Questa scivolò sul materasso, per poi inclinarsi e cozzare con l’angolo contro il parquet, mente i pezzi sopravvissuti descrivevano piccole parabole in aria. I pedoni tintinnarono sulle assi.
Il re, si limitò ad affondare nello spesso tappeto lanoso, senza emettere suono.
Il rumore metallico e vibrante si riverberò ancora un poco nelle orecchie di Charles, che cercò di raddrizzarsi, districandosi tra le coperte attorcigliate. Diede un’occhiata alla parete, dove l’orologio appeso, teneva i suoi sottili arti metallici piegati in un angolo acuto, con vertici il sei e una tacca pochi minuti dopo il due. Quasi le sei e un quarto.
Charles si appoggiò con la schiena al muro, dandogli una leggera testata ed aggrottando la fronte. Quante sciocche idee per nulla, quanti inutili problemi. A che serviva? Poteva tranquillamente dormire di più ora. Bastava chiudere la finestra e le tende, chiudere gli occhi…. oppure poteva alzarsi. Non gli avrebbe fatto male per una volta.
Si era così abituato agli orari di Oxford, alle lezioni pomeridiane e agli spostamenti delle missioni CIA da non poter più concepire l’idea di svegliarsi presto?
Si pizzicò sotto al naso, inspirando di nuovo ed abbassando le palpebre. Si sentiva accaldato e intorpidito e quasi del tutto sveglio. L’insetto alla finestra continuava a ronzare, anche se in modo più smorzato, come se stesse pian piano abbandonando la lotta contro il vetro. 
Charles ne ebbe pietà.
Scese dal letto, rabbrividendo al contatto tra con il freddo parquet lucido e i piedi nudi. Reprimendo uno sbadiglio si avvicinò alla cassettiera di legno scuro, frugando nel disordine di giornali, lattine, tavole numerate, manuali, scatole vuote, libri e disegni e bottiglie, vestiti e bicchieri che affollava il ripiano. Si chiese se quelle cose fossero lì da molto, alcune non gli apparivano nemmeno sue. Erano davvero tanti oggetti per essere lì solo da un paio di giorni. Quel disordine non gli apparteneva, non apparteneva al Charles che aveva vissuto a  Westchester un paio di anni prima.
Doveva essere stato distratto dalla nuova situazione. Erano passati anni dall’ultima volta in cui le stanze della villa si erano popolate di figure nuove, gente, ospiti.
Charles ricordava ancora con un misto di imbarazzo e desiderio, il sentire le voci degli invitati dei cocktail party di sua madre o le cene di rappresentanza per il patrigno. In estate,
la madre di Charles faceva allestire dei tavolini da buffet intorno alla piscina, tutt‘intorno, cosicché gli ospiti potessero conversare, mentre il loro riflesso faceva lo stesso nell‘acqua. Charles ricordava come le tovaglie bianche dei tavolini rotondi ondeggiassero al vento, fermate solo da piatti d’insalate e gamberetti e Bellini e tutto ciò che il catering di Cipriani portava per l‘occasione. Charles ricordava che ondeggiavano al vento allo stesso modo delle gonne a ruota delle ragazze e delle donne che sua madre giudicava frivole e sciocche, una volta che avevano ripreso i loro soprabiti e si erano allontanate verso le macchine parcheggiate nel viale, al braccio dei loro mariti, quasi tutti colleghi del patrigno di Charles. 
Charles non aveva mai osato chiedere alla madre a  chi si riferisse, se alle donne o al loro modo di vestire. 
Gli era bastato leggerle nella testa, cercando di non farsi scoprire.
Scostò un paio di dischi di seconda mano acquistati a Camden Town, e sorrise quando trovò un pacchetto di sigarette quasi pieno. Aprendo uno dei cassetti dello scrittoio vicino alla finestra, rinvenne anche un vecchio pacchetto di fiammiferi con una cupa illustrazione liberty di una donna dagli occhi spiritati.
Diede ancora un’occhiata al letto sfatto, per poi far scattare il gancio di ferro che teneva accostate le ante, aprendole verso l’interno. Charles vide un piccolo punto ronzante sfuggire fuori seguendo il vento e sorrise, infilandosi una sigaretta tra le labbra. Si appoggiò al davanzale, respirando quell’aria fresca e acquosa, sentendosi stranamente calmo.
Non era così ingenuo dal pensare che quel momento di calma fosse dovuto al suo rientro a casa. Non si era mai sentito del tutto vero, del tutto sé stesso a Westchester e stare lontano da lì, a Oxford e successivamente per gli affari della CIA, in giro per l’America, gli aveva fatto quasi dimenticare questa consapevolezza che no, non era del tutto nuova, ma lo amareggiava comunque. Sapere di sentirsi a disagio tra le mura della sua stessa casa era qualcosa che l’aveva sempre destabilizzato, come se dovesse sentirsi inferiore, perché se per lui non c’era posto dove si sentisse tranquillo e sicuro, equivaleva a sentirsi in difetto rispetto agli altri. E Charles voleva solo essere uguale a loro.
La testa rosso cupo del fiammifero sfregò contro il lato ruvido della scatoletta di carta. L’odore penetrante dello zolfo quasi gli ferì le narici e il primo tiro gli raschiò brutalmente le pareti della gola. Avrebbe dovuto fare colazione prima. Il fumo mischiato alla bocca impastata di sonno erano una brutta miscela e per lui, poco abituato a fumare, quasi insopportabile.
Ma non ci pensò. Pensava piuttosto alla colazione e allontanando la sigaretta dalle labbra, scosse la testa, sorridendo fra sé e sé. Era stato davvero un incapace. 
Aprì la mano, toccandosi la fronte con pollice e indice, chinandosi in avanti e guardando giù verso i giardini. L’erba verdissima era tagliata in modo fin troppo regolare, zone uniformi solcate dalle trincee dei vialetti e delle scale di pietra che s’infossavano, sparendo e aprendo altre stradine che attraversavano i roseti, per poi dileguarsi verso il limitare del bosco artificiale e scomparire del tutto tra i grandi alberi. Quel posto era troppo grande per lui solo.
Schioccò un dito sul filtro, rimanendo a guardare i minuscoli frammenti di cenere staccarsi dalla punta della sigaretta e cominciare a cadere, lenti e vorticanti, nel vuoto sotto la finestra.
Non avrebbero mai incontrato terra, perché il vento se li portò via, sparpagliandoli. Charles li seguì con gli occhi, fino a che non sparirono in direzione di uno dei prati.
Allora lo vide. Charles preferiva pensare che fossero stati i frammenti di cenere ad indicarglielo, e non l’aver avvertito il suo pensare nella sua testa.
Erik doveva essersi alzato altrettanto presto. Sembrava sicuro di dove stesse andando, come se avesse seguito quel percorso altre volte.
Lo guardò attraversare l’ampio spazio ghiaioso vicino all’ingresso di servizio, tagliare per una scaletta piastrellata che portava verso le vasche ornamentali, ancora vuote e incrostate di piante acquatiche ormai secche. Erik ne seguì per un po’ il perimetro, per poi imboccare un’altra stradina. Ad un tratto sembrò quasi fermarsi e voltarsi, come se si sentisse osservato. Charles alzò il braccio in un cenno di saluto, ma poi Erik non si girò, continuando a camminare e lui rimase lì, col braccio piegato a mezz’aria, mentre altra cenere cadeva dalla sigaretta scossa e volute di fumo creavano una patina grigiastra sul paesaggio.
Charles si strofinò la mano libera sui pantaloni del pigiama, come se la sentisse prudere. Avrebbe voluto chiamarlo, l’ipotesi di sussurrare un’ennesima il suo nome nella mente non era affatto malvagia. Ma si erano visti la sera prima e quella prima ancora. Gli unici momenti in cui erano rimasti soli, da quando avevano lasciato Stoccolma.
Non proprio nel modo in cui avrebbe voluto Charles, ma si erano parlati, guardati ed era come se quella barriera che avevano tentato di costruire fra loro al ritorno a Richmond,
non fosse mai esistita. C'erano solo stati altri problemi, quello sì.
Avevano dovuto mantenere dei limiti, o almeno, Charles l’aveva fatto, perché Erik non sembrava affatto porsi il problema. Era come se non ci fosse niente. In presenza di altri, si comportava con il solito distacco, parlando e dicendo solo il necessario, sorridendo raramente e standosene più spesso in disparte. 
Charles ogni tanto lo guardava e si chiedeva a cosa pensasse. Era una sensazione nuova, cercare di comprendere o anche solo d’immaginare che cosa pensasse davvero.
Charles risolveva sempre il problema leggendo della mente dei suoi interlocutori, anche se spesso non ce n’era alcun bisogno:  la maggior parte delle persone che lo circondavano risultavano fin troppo prevedibili e le loro emozioni si traducevano in espressioni, in lineamenti torti ad esprimere felicità, stupore, disgusto o rabbia. Sentimenti primari.
Charles non aveva mai nutrito interesse nell’analizzarli. Erano solo il movente o la risposta ad altre azioni che raramente lo riguardavano. E sembravano così tante, scialbe e opache, di fronte a quello che provava lui. Qualcosa di veramente autentico, unico, eppure faccettato e difficilmente riconducibile entro una recinzione di lettere. E sarebbe stato così brutto, bruciare quel sentire ignoto, entrando nella testa di Erik alla  ricerca di ogni singola spiegazione di ogni suo gesto, dipanandone le congetture, comprendendolo.
Ma la tentazione era sempre presente. E per quanto Erik si opponesse  lo pregasse, Charles non voleva ascoltarlo.
Non poteva, non poteva impedirglielo. Perché Erik non si fidava di lui?
Charles scosse ancora la sigaretta senza fumarla, fino a decidersi di spegnerla, schiacciandola sulla pietra lucida e marmorea del davanzale, nell’angolo in alto, lasciando una traccia nera e polverosa che dissolse, sfregandoci sopra il dorso della mano.
Si allontanò dalla finestra, gettando il mozzicone in uno dei due cestini di latta, passandosi una mano fra i capelli. Aveva bisogno di un bagno, si sentiva ancora leggermente sudato, come se avesse passato una notte agitata a contorcersi tra le coperte. Eppure non era così, perché poco dopo aver  parlato con Erik, la sera prima, ricordava di essersi coricato tranquillo, come se i pensieri riguardo le sue preoccupazioni non fossero stati intenzionati a disturbarlo. 
Andò verso il letto, fermandosi quando vide gli scacchi ancora a terra. Li aveva preparati inutilmente la sera prima, Erik non l’aveva raggiunto in camera alla fine. Si chinò a raccoglierli, modellando una conca tra le coperte scomposte in cui riporli, prima di prendere la scacchiera e ricomporre la scatola in cui richiuderli. Vide che dove era caduta, era rimasto il segno di uno degli angoli. Lo sfiorò con l’indice, premendo la carne del polpastrello, un gesto stupido, come se volesse nasconderlo. L’angolo di metallo aveva tracciato un segno netto e preciso che deturpava il parquet. Quell’imperfezione sembrava davvero evidente, rispetto alla superficie illesa del resto del pavimento. Charles sentiva di nuovo il fastidio, quello che aveva provato nel vedere quel re che si era rifiutato di cadere con gli altri pezzi, prendere possesso di lui.
Sua madre non l’avrebbe mai vista, quell’imperfezione. Ma comunque, non sarebbe mai tornata, rifletté rialzandosi un poco e raccogliendo il cadavere del re sul tappeto vermiglio. Charles non amava fantasticare, ma quel piccolo pezzo d’onice sembrava galleggiare in una pozza di sangue.
Sussultò un poco nell’evocare quell’immagine e cercò di scacciarla dalla testa, mentre guardava involontariamente su una delle mensole cariche di libri, fissandosi su un angolo preciso, cercando di scacciare vecchi fantasmi dalla mente. Strinse il piccolo re tra le dita, come se volesse conficcarselo nel palmo caldo. Poi, si affrettò a rimetterlo nella scatola, rinchiudendolo nel buio, insieme agli altri pezzi.
Gli piaceva giocare a scacchi. Gli piaceva giocare a scacchi con Erik. Non voleva rovinare tutto portandosi alla mente irreali e macabre fantasticherie.
Quel re non era un re, era solo un piccolo patetico oggetto. E non c’era sangue. Solo un vecchio tappeto che avrebbe dovuto decidersi a sostituire.
Fantasticare e giocare con la mente degli altri, ecco qual era il problema di Charles.
La luce pallida del mattino si fece più carica, i vetri catturarono i primi raggi lucenti. Charles si accorse anche di sentire freddo, nei suoi pantaloni a righine e la canotta leggera.
Era un abbigliamento da ragazzo e ora provava vergogna, perché la sera precedente quando aveva parlato con Erik, pensava solo che fosse un tocco informale che Erik avrebbe apprezzato. Ora, alla luce del giorno, gli appariva ovvio perché si fosse astenuto dal fare commenti. Era stato così… infantile. Era chiaro perché Erik non era rimasto con lui.
Eppure, quello che aveva fatto la notte prima, l’aveva fatto solo perché la sera dell’arrivo a Westchester gli aveva risposto fin troppo freddamente, quando Erik gli aveva chiesto di rimanere, dopo averlo accompagnato in una delle camere per gli ospiti. 
Charles se n’era allontanato, senza dargli una spiegazione. Charles non sapeva perché si fosse comportato così, tenendolo a distanza. 
Ancora adesso, questa scelta gli aveva lasciato un certo dispiacere, come se avesse commesso un danno irreparabile.  Il giorno dopo, mentre tutti dormivano, gli aveva detto di raggiungerlo. Non proprio in un modo ortodosso, e quello era stato l'errore di Charles. 
Ora, anche la seconda sera era scivolata via, trasformandosi nel mattino del terzo giorno. 
Charles si chiedeva se la colpa non fosse sua. Westchester non gli era mai sembrata tanto accogliente al pensiero che Erik fosse lì, che dormisse a poche porte di distanza dalla sua. Anche il solo vederlo aggirarsi per il parco…
Tra loro, avrebbe dovuto essere meglio di Savannah, avrebbe dovuto essere la risoluzione di tutti quei sentimenti contrastanti che l’avevano sempre bloccato e reso diffidente e angosciato. Ma a Westchester, Charles era anche in un campo scoperto. Quella era la sua vita, era parte di lui, per quanto la sentisse estranea come casa.
Era come mostrare ad Erik un’altra vulnerabile parte di sé… e questo poteva essere sia un bene che un male.
Si passò la lingua sui denti, sentendo un retrogusto acido e fumoso in bocca. Guardò di nuovo fuori dall’ampia finestra, ma nel biancore accecante del sole che sorgeva, il parco della villa sembrava scomparso, inghiottito dalla luce. E nessuna figura nera, nessun re, ne veniva illuminato.
 
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“Allora questa è Westchester.”
Charles si voltò lentamente. Sorrise. Erano le prime parole che Erik gli rivolgeva da quando erano rimasti soli, dopo che assieme a Raven si era occupato di assegnare le sistemazioni per gli altri ospiti.
L’ultima ad abbandonare il salone era stata Moira, fin troppo affascinata dalla collezione di carte nautiche del patrigno di Charles. Aveva detto qualcosa riguardo la carriera in Marina del padre e Charles aveva annuito, rivolgendole qualche domanda garbata, qualche osservazione sulla sua famiglia, ascoltandola con quanta più attenzione possibile.
Erik aveva seguito la loro conversazione distrattamente. Vicino alla finestra, il suo interesse si era rivolto in particolare alle file di libri che s’intravedevano nella biblioteca, oltre il corridoio, a quegli scaffali dominati dall’ombra che Charles gli aveva indicato nel pomeriggio, dopo aver fatto un giro per la grande casa.
“Non ti piace?” gli domandò Charles, avvicinandosi, le mani in tasca. Fece un altro paio di passi nella sua direzione, ma poi, ad un metro da lui, si fermò, come sul confine di una linea invisibile.
Erik lo vide guardare in direzione di una delle porte che davano sul corridoio, comprendendolo. Non se la sentiva di chiedere direttamente a Charles di stare assieme quella sera, erano arrivati da poche ore. Charles sembrava altrettanto titubante. Quella era casa sua, era naturale che fosse a disagio a fare e a ricevere proposte del genere. Anche Erik lo sarebbe stato.
 Aveva già provato una simile, sgradevole afflizione, mentre percorrevano il viale d’ingresso e la villa cominciava a fare la sua apparizione fuori dai finestrini dell’auto.
Qualcosa di simile al tradimento. E all’invidia.
Si era domandato come fosse cresciuto Charles in quella casa. Era lì che Charles aveva vissuto, mentre lui era chiuso dietro recensioni di ferro?
Erik sapeva di essere ingiusto, ma pregò dentro di sé che Charles non gli leggesse nella mente in quel momento. Non l’avrebbe perdonato.
Depose il drink su uno dei tavolini, sotto ad una delle lampade basse che illuminavano la stanza con luci giallo biancastre. I loro steli di metallo dorato erano curve eleganti, come se dovessero riprodurre grossi bulbi opalescenti con il calice all’ingiù. “E’ una bella casa” disse piano, cercando di non apparire del tutto piatto.
Charles si sarebbe fatto troppe domande, e lui non voleva.
“Grazie.” Charles abbassò un poco il capo, come se avesse un discorso scritto sulla punta delle scarpe, cercando qualcosa di adatto a cancellare il silenzio imbarazzante che era  scivolato fra di loro.
Erik avrebbe voluto domandargli molte cose. Aveva sottovaluto Charles; in lui, nella sua esistenza, sembrava esserci ben più di un qualche interrogativo irrisolto, o qualche dubbio non confermato.
Immaginare Charles vivere tra quelle pareti e quelle stanze però era strano. Era un ambiente troppo vuoto, troppo grande e dispersivo. 
“Ti mostro la tua camera” sbottò Charles all‘improvviso, facendo un mezzo giro su sé stesso e avviandosi verso la porta. “Vieni?”
Erik assentì e lo seguì nel corridoio, e poi nell’atrio, dove le lucide piastrelle bianco nere gli ricordarono una scacchiera. Ma qui le caselle parevano infinite, e i pedoni erano loro due soli, diretti verso la scala di legno scuro che saliva ai piani superiori.
Erik ricordava di averlo seguito e per tutto il tragitto, fino alla porta del secondo piano davanti a cui si era fermato Charles, non si erano scambiati una parola.
Ma, quando aveva visto Charles mettere una mano sulla maniglia e aprire uno spiraglio, l’aveva afferrato per l’avambraccio e finalmente, Charles l’aveva guardato dritto negli occhi.
“Non c’è bisogno che tu faccia il bravo padrone di casa” gli aveva detto in tono conciliante, cercando di ignorare la fronte aggrottata dell’amico. “Posso fare da solo.”
Charles aveva abbassato il braccio ed Erik l’aveva lasciato andare. “Ne sono sicuro” aveva replicato in tono freddo, prima di scuotere la testa e scusarsi.
“No, sono io che non mi sono spiegato in modo chiaro” rispose Erik. Spinse leggermente la porta, allargando lo spiraglio buio. “Resta.”
Charles nascose di nuovo le mani nelle tasche, lanciandogli un’occhiata distratta. Scosse di nuovo la testa, ma questa volta in segno di negazione. “Non stasera.”
“Resta e basta, Charles” Erik parlò a voce bassa, così che gli uscì un po’ roca. “Solo…”
Erik si sentiva strano. Voleva che Charles rimanesse lì, con lui, anche solo a parlare o a dormire. L’importante era avere Charles vicino.
Nel suo egoismo, sapeva che Charles avrebbe desiderato lo stesso.
Per questo, avvertì un moto di risentimento inacidirgli la gola, quando Charles indietreggiò nella penombra del corridoio, le mani ancora in tasca, allontanandosi da lui.
“Ci vediamo domani, Erik.”
Senza aspettare una risposta, si voltò e accelerò il passo, finché non scomparve del tutto alla vista.
Erik non rimase ancora a lungo nel corridoio. Cercò la luce sulla parete e dopo che il lampadario cominciò lentamente ad irradiare una luce accogliente, con una piccola scarica di elettricità che si perse nell‘aria, chiuse del tutto la porta della sua nuova camera. La sua unica valigia era stata deposta a lato del letto da mani sconosciute e lì stava intatta. 
Con un gesto meccanico, Erik si sfilò la moneta di Shaw dalla tasca della giacca. Senza guardarla, la depose sulla consolle di noce accanto all’ingresso e andò a sedersi sul letto.
Solo quando si distese si accorse di quanto in realtà fosse stanco. Forse Charles provava lo stesso. Forse era per quello che non era rimasto con lui.
In realtà, un altro pensiero catturò la mente di Erik. Charles era deluso. Deluso perché era stata la morte di Munoz a condurli lì, non certo una visita di cortesia. Forse la morte del ragazzo e del capo finanziamenti della Divisione X, avevano aperto la mente di Charles, facendogli capire che c’erano cose più importanti a cui pensare che a… 
 
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Erik cercò di smettere in fretta di pensare, come se fosse possibile.
Provò a concentrarsi su altre cose, cercando di smettere di ripercorrere mentalmente, per l’ennesima volta, la prima sera trascorsa a Westchester. 
Charles poteva sentirlo pensare. Era là, affacciato ad una delle finestre -la sua camera?-, il fumo azzurrino della sigaretta era stato un segnale troppo evidente nella mattina chiara.
Erik pensò che avrebbe potuto girarsi e salutarlo. Ci aveva già pensato mentre camminava accanto a quella che doveva essere una grande piscina vuota.
Fece quasi un mezzo giro su sé stesso, ma poi tornò a guardare di fronte a sé e continuò ad allontanarsi, in direzione di una macchia di betulle, piantate ad intervalli regolari. 
Era uno dei tanti viali alberati che portavano al limitare della proprietà. Il mattino prima l’aveva quasi percorso fino in fondo, inoltrandosi tra gli ippocastani, fino ad una strana radura acciottolata dove cresceva un cedro delle Indie, visibilmente malato.
Camminando nella foschia mattutina, Erik s’inoltrò di nuovo tra gli alberi, fino a ritrovare quel punto, rallentando man mano che si avvicinava all’albero. Spiccava tra gli altri, per le foglie ingiallite e macchiate e la recinzione malridotta che lo cingeva attorno al tronco. 
Erik si ritrovò a camminare sotto quelle fronde provate, dove i raggi del sole filtravano con facilità, rendendo i contorni bucherellati delle foglie e dei rami neri, quasi iridescenti.
Si chiese se dovesse proseguire. Il sentiero lastricato sembrava protrarsi all’infinito, tra file di alberi tutti uguali, le chiome ondeggianti piano nel vento leggero.
Erik si voltò verso la villa. Sembrava ancora così vicina, appena dietro gli alberi… ieri non gli era affatto apparsa così. 
Non riusciva più a scorgere Charles alla finestra però, era andato troppo lontano. Era un bene. Erik non era del tutto certo che Charles potesse sempre resistere all’idea di leggergli nella mente, non dopo il comportamento enigmatico che entrambi avevano mantenuto ultimamente, complice la disgraziata incursione di Shaw alla divisione di Richmond e le nuove direttive da Langley che Charles aveva voluto ignorare.
Erik l’aveva assecondato con piacere. Allenarsi e combattere ? Qualcosa di concreto da fare e a cui pensare, qualcosa di vero che l’avrebbe avvicinato a Shaw.
Quanto gli serviva per ucciderlo.
Si bloccò, le mani nelle tasche della giacca. Si girò ancora verso la villa, ma ormai si era allontanato davvero. Il sentiero aveva fatto un paio di curve ed ora Erik era circondato da file di alberi, tutti simili, rigidi nei loro filari. Era irritante, quella disposizione. Erano come schierati, in attesa di qualcosa; ad Erik quell’associazione riportò a galla ricordi dolorosi e solo quando vide che la terra era coperta da un soffice strato di erba verde e non da fango grigio e viscido, tornò un poco in sé. 
Non voleva pensare ancora al passato. Non mentre era lì, a casa di Charles. 
Sarebbe stato un torto imperdonabile da parte sua, anche se il suo scopo principale, il suo essere lì, era semplicemente perché grazie alla CIA -grazie a Charles- sarebbe arrivato a Shaw.
La prima sera a Westchester era stata strana.
Era quello il suo pensiero mentre cominciava a tornare sui suoi passi, che cosa importava, se Charles lo sentiva?  Anche se sarebbe stato meglio di no…
L’essere salutato da Charles tanto freddamente l’aveva spiacevolmente sorpreso, ma credeva di averlo capito. A Erik sarebbe piaciuto che fosse rimasto con lui, ma preferiva che Charles fosse prima a suo agio, che riprendesse contatto con casa sua. 
Il giorno seguente le cose erano andate meglio, con Charles che stabiliva le direttive e l’organizzazione delle loro giornate di allenamento, mostrando loro il gigantesco bunker sotto la casa, stanze quasi prive di mobili da poter usare come laboratori e altre sciocchezze. Sembrava davvero divertirsi un mondo, nonostante avesse il viso perennemente atteggiato in una smorfia seria e riflessiva. Rideva molto di meno. 
Erik sapeva che in parte, quella pantomima di scuola era stata messa in piedi perché lui gliel’aveva suggerito, ma non aveva mai creduto che Charles avesse reso quella follia quanto più concreta possibile.
Avrebbe voluto che Charles partisse con lui, andando a cercare Shaw insieme, da soli. Sarebbero stati più rapidi, più efficienti. Quella storia dell’esercito… era stata una scelta sconsiderata. Forse l’omicidio aveva aiutato quei ragazzi a crescere… Ma in così breve tempo? Erik si rendeva conto di quanto la sua valutazione fosse stata avventata, ma non avrebbe negato che in buona parte il suo suggerimento a Charles era derivato dal fatto che così facendo, il progetto X sarebbe andato avanti. Tutto portava a Shaw. 
Era solo per Sebastian Shaw che Erik si trovava lì, rifletté, ripetendoselo ancora una volta, quando uscendo dall’ombra delle betulle si ritrovò a percorrere la stradina che tagliava il grande prato in fronte alla villa. 
Per nient’altro. Il sole era mai sorto e la luce calda aveva dissipato l’umida foschia biancastra che aveva aleggiato sopra il terreno, fino a qualche attimo prima.
Charles non era più alla finestra. Questa era ancora aperta, ma le tende scure erano tirate. Si chiese perché si fosse svegliato tanto presto solo per fumare una sigaretta e anche se l’avesse sentito pensare. E, se così era stato, se gli avesse letto nella mente. Non che l’avesse avvertito, non dopo quello che si erano detti la sera precedente…
Ma Charles, come a Stoccolma, gli aveva dimostrato di riuscire ad usare un’altra sfaccettatura del suo potere, lasciandolo pensare ma inibendo la sua capacità di muoversi e anche...
Avrebbe potuto prevederlo ed evitare di aggredirlo. 
Erik rallentò il passo, mentre tornava verso la villa, verso quelle grigie finestre che riflettevano porzioni regolari di cielo. Occorreva solo del tempo. Ad entrambi. 
Mentre risaliva le scale che conducevano al patio vicino alla piscina, la mente di Erik si concentrò sulla sua seconda sera passata a Westchester. 
E anche se era strano, pensare a quei serali momenti frammentari, soprattutto sapendo che di lì a poco l’avrebbe di nuovo rivisto, Erik non poteva farne a meno.
Non riusciva più a capirlo.
 
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“Scusami. Non ti aspettavo, pensavo fossi…” Charles arretrò velocemente, mentre faceva un mezzo sorriso all’indirizzo di Erik, chiudendo la porta con un’ultima occhiata nel corridoio.
“Non mi hai detto un’ora precisa, Charles” replicò Erik sorridendo entrando nella stanza e cominciando a guardarsi attorno.
Non era proprio una camera da letto; almeno, non quella parte, con le pareti piene di scaffali e lampade a muro che sembravano fare a gara per nascondere la tappezzeria. Davanti a lui, due alte finestre a ghigliottina davano sul parco buio, simili a grandi occhi ciechi. Sotto le finestre, una grande scrivania in radica ingombra di plichi di carte, libri e un posacenere di ceramica immacolato, illuminati da una lampada da lettura verdastra.
Erik notò che buona parte dei libri trattavano di medicina; soprattutto, la sua attenzione fu colpita da una vecchia copia dell’Anatomia di Gray, riposta in orizzontale su uno dei ripiani, come se Charles avesse appena finito di sfogliarla, riponendola lì per venire ad aprirgli.
In una parete, si apriva poi un piccolo arco, che a quanto riusciva a vedere, sembrava condurre alla camera vera e propria.
Charles si frappose fra lui e quell’ingresso. Erik vide che era ancora vestito nello stesso modo in cui si era presentato a cena, cardigan e camicia chiari. Erik sollevò un sopracciglio, ma quando vide l’espressione di Charles non fece commenti. 
Voleva fargli un complimento, dire qualsiasi cosa su quanto fosse piacevole essere lì ma forse, l’avrebbe solo trovato come una sciocca frase di circostanza o peggio, falso. “Pensavo non venissi” disse Charles. 
Erik si voltò verso la porta e disse scherzosamente. “Posso sempre andarmene…” Quando si girò di nuovo verso Charles, lo trovò vicino a sé. Davvero vicino.
Charles gli mise una mano intorno al collo, mentre con l’altra gli afferrò la stoffa della maglia, quasi artigliandola. La differenza d’altezza tra loro non era molta, ma Erik chinò il capo comunque, quel tanto che bastava per baciarlo. Voleva solo essere gentile. 
E l’espressione di Charles era inequivocabile. Sembrava quasi aggrapparsi a lui; Erik sentiva la sua mano calda ancora più stretta dietro al collo,  le unghie graffiarlo leggermente. Charles lo baciava con fin troppo entusiasmo, premendo il corpo contro il suo. Foga, si corresse Erik, non entusiasmo. Era strano, come se non fosse Charles… 
Erik… Charles lo strattonò ancora, come se volesse invitarlo a togliersi quei vestiti di dosso. Erik gli mise le mani sui fianchi, per allontanarlo e guardarlo, ma Charles si strinse solo maggiormente a lui, cominciando a strusciarsi e insinuando una mano fra loro, iniziando  a toccarlo attraverso la stoffa dei pantaloni con insistenza. Suo malgrado, Erik si stava davvero eccitando. Respirava molto più rapidamente e quelle ondate di piacevole calore che lo attraversavano erano ben più che una conferma.
 Avrebbe dovuto immaginarlo. Lo sapeva, lo sapeva mentre percorreva il corridoio, lo sapeva mentre fletteva le dita e picchiava le nocche alla porta di Charles.
Lo voleva, pensò, assaporando l’umida bocca di Charles, mentre una fitta di piacere lo attraversava, nel sentire la lingua di lui sfiorare la sua. Avrebbe voluto stringere i denti, per trattenere un gemito. Riuscì solo a fare un debole verso strozzato, quando l’altro gli slacciò i pantaloni, sentendo la mano di Charles stringersi attorno alla sua erezione.
Si accorse che aveva difficoltà a ricordare quello che era successo fino a che non era entrato nella stanza. Ebbe la strana sensazione di essere uno spettatore in quella scena. Non ricordava nemmeno quando Charles gli avesse detto di venire nella sua stanza. Gliel’aveva detto? E dove era prima, prima di essere nel corridoio?
Erik non lo rammentava…
Mi sei mancato. Mi sei mancato, Erik. Le labbra di Charles ora lo baciavano sul collo, dopo avergli abbassato il colletto della maglia. Sentiva i suoi denti sfregare contro la pelle sottile della gola, ed Erik non poté fare a meno di tenere una mano tra i capelli di Charles, assecondando i movimenti della sua testa, e l’altra sulla sua schiena, sotto, accarezzando quella pelle pallida e madida. Poi Charles si spostò un poco e guardandolo negli occhi cominciò ad abbassarsi davanti a lui.
Stai con me, Erik. Stasera, vieni da me, stai con me... disse la voce di Charles nella sua testa. E allora Erik comprese.
Provò a pensare, ma quella situazione sembrava così reale, così vera, che ne fu quasi dissuaso…
“Smettila” disse Erik al falso Charles, che subito levò di nuovo la testa e si alzò, la faccia inespressiva. 
Scusami, disse la voce di Charles, ma Erik sapeva che non era stata la voce di quel Charles davanti a lui a parlare, ma quello che nella realtà, aveva creato quella sciocca illusione. 
“Finiscila qui.”
 
Erik aveva aperto gli occhi. Nella realtà questa volta, non in quella proiettata da Charles nella sua mente. 
Era seduto in biblioteca, solo. Era venuto lì proprio dopo cena, ora ricordava. C’era un libro aperto davanti a lui, un libro di Hawtorne. Ed era tardi, forse.
Dovevano essere andati già tutti a dormire, perché il brusio dei ragazzi e Moira nell’altra sala, quella adiacente, era scomparso.
Si raddrizzò lentamente, si era lasciato scivolare sul divano, schiacciandosi il braccio ed ora aveva il braccio addormentato. Cercò di scuotersi, passandosi un mano sulla faccia, sulle palpebre stanche. Era stato così reale.
Qualche istante dopo, il rumore di passi lo fece voltare verso la porta a due battenti, che ben presto si spalancò. Charles fece il suo ingresso trafelato, il viso arrossato e gli occhi stranamente lucidi. 
“Erik. Oh, Erik… “ disse andando verso di lui, accostando la porta dietro di sé.
Urtò quasi un tavolino, mentre avanzava verso di lui. “Scusami. Scusami. E’ stata una sciocchezza…”
Erik lo guardò inespressivo, il braccio ancora indolenzito. “Perché hai fatto una cosa tanto stupida?” gli domandò, la voce priva di particolari inflessioni.                                                                                                  Charles si passò una mano tra i capelli, sospirando e fermandosi ad un paio di passi da dove Erik era seduto. Aprì la bocca, come se stesse per iniziare un discorso, ma poi non disse  nulla. Rimase immobile davanti ad Erik, che chiuse seccamente il libro di Hawtorne e tornò a guardarlo, incrociando le braccia.
Charles era in pigiama o comunque vestito per dormire, con una canotta che lo faceva sembrare molto più magro di quanto non fosse e dei pantaloni gessati, un po‘ troppo lunghi e pieni di pieghe attorno ai polpacci. Sembrava davvero molto più giovane dei suoi anni. 
“Non so cosa…” Charles scosse il capo, correggendosi.
“So cosa volevo fare, ma mi dispiace, sono stato invadente. Non so cosa mi abbia preso... Erik, davvero, non era del tutto mia intenzione… Volevo solo che venissi da me.”
Erik fece quasi un mezzo sorriso, prima di tornare serio. Inclinando appena il capo, lo scrutò attentamente, finché non lo vide sedersi sul divano di fronte, leggermente curvo e le mani giunte. "Non potevi chiedermelo?"
Non ci voleva molto a capire che era abbastanza imbarazzato. Anche Erik lo era, ma a differenza di Charles riusciva a nasconderlo con maggior abilità.
Se c’era qualcosa che non si sarebbe aspettato, bè… Charles l’aveva davvero sorpreso. Non del tutto in modo spiacevole.
“Potevi chiedermelo” ripetè.
“E’ quello che ho fatto” replicò Charles. Fu lui ad accennare un mezzo sorriso, che Erik volle subito far sparire, dicendo freddamente: “Potevi chiedermelo senza giocare con la mia mente, Charles.”
L’altro aprì le mani un blando gesto di scusa. “Mi sono fatto trascinare. Ma non penso sia stato così spiacevole.”
Lo guardò dritto negli occhi. Erik sapeva che Charles l’aveva fatto con l’intenzione di sorprenderlo, ma c’era anche qualcosa di arrogante nel modo in cui gli aveva risposto.
 “No. Non lo è stato“ gli disse con sincerità, osservandolo. Era proprio davanti a lui e si ritrovò a pensare al modo aggressivo con cui Charles lo aveva baciato in bocca e sul collo,
il modo sicuro con cui aveva preso l’iniziativa, ed Erik si domandò perché non l’avesse capito subito che quella era stata solo una fantasia.
Un fantasia di Charles, questa era la cosa  inattesa. Somigliava...
“E’ stato piacevole” ammise Erik piano, “… Ma avrei preferito che non l’avessi fatto, Charles. Potevi chiedermelo.”
“Erik…” Charles stava per alzarsi, ma fu Erik ad alzarsi per primo, andando a sedersi al suo fianco, seppur mantenendo una decisa distanza e guardando davanti a sé,
sentendosi addosso gli occhi di Charles, quegli occhi azzurri, grandi e fin troppo sinceri.
“Charles, come posso essere alla pari con te, se devi sempre usare il tuo potere?”
“Cosa intendi dire?”
Erik s’incupì un poco, cercando le parole più adatte per esprimere quello che nella sua mente appariva così chiaro.
“Quando ti trovi in difficoltà, anche in cose così… Semplici…”
“Semplici?” domandò Charles, la voce carica d’incredulità e diffidenza. Erik lo ignorò, continuando a parlare:
“Tu ricorri al tuo potere. Non è un male e non è un’accusa… Ma Charles, c’è un divario enorme tra quello che sei e quello che puoi … Dannazione.”
Erik flettè le dita della mano, ricadendo contro lo schienale. Sembrava profondamente arrabbiato con sé stesso, per non riuscire a spiegarsi. 
“Lo sai meglio di me.”
Charles lo guardò interrogativamente. Aggrottò le sopracciglia, poi la sua fronte sembrò distendersi, il viso rasserenarsi.
“Se fossimo esseri umani normali non avremmo questi problemi.”
“Forse no” ammise Erik con un sorriso a mezza bocca.
Charles lo osservò socchiudendo un poco le palpebre. “Vorresti che io fossi umano?”
Erik sorrise mestamente, lanciandogli un’occhiata in tralice. 
“Tu sei anche questo, Charles. Ma in fondo…” il suo sorriso si adornò di una qualche forma di gioia, prima di dirgli: “E’ perfetto così.”
Mi vai benissimo così pensò Erik, ma non glielo disse. Sarebbe stato troppo chiaro.
Sentiva ancora lo sguardo di Charles su di sé. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare ora; girarsi e dirgli che era stato lui ad arrabbiarsi per nulla.
Se Charles si sentiva più libero di essere sé stesso giocando con la mente altrui… 
Erik avrebbe quasi potuto concederglielo. Non gli era dispiaciuto. Quell’eccitazione era stata quasi reale, era uno dei tanti legami che lo univano a Charles.
Persino adesso, sapeva che se l’avesse guardato non avrebbe potuto fare a meno di avvicinarsi di più e baciarlo, sfiorare la pelle morbida sotto la gola, pregarlo di fargli sentire la sua voce nella testa chiamandolo all‘infinito.
Ma sentiva che non avrebbe potuto farlo. Non prima di aver chiarito alcune cose almeno, ora che ne avevano l’occasione. “Non leggermi nella mente, a meno che non te lo chieda. Ci sono cose che…” Erik mosse un poco il capo, cercando le parole. “… Che non posso permettermi di mostrarti.”
“Che non puoi.. O non vuoi?” domandò Charles, serio.
“Entrambe. Charles” Erik si girò verso di lui, trattenendosi, vedendolo voltato nella sua direzione. “Puoi promettermelo? O quantomeno, puoi provarci?”
Charles lo guardò per un lungo momento, in silenzio, corrugando appena la fronte. “Erik, non chiedermelo ancora. Sai che non posso, se non posso sapere cosa pensi io…”
“Non significa che non potrai. Ma solo non farlo a mia insaputa, non sempre i miei pensieri sono…” ... gentili e veri. Molto spesso riguardano Shaw, Shaw e me, e io non voglio che tu capisca, non tutto. Non adesso.
Erik finì la frase solo pensandola. Non voleva litigare con Charles, non era quello il momento per parlare schiettamente del perché fosse lì.
“Non posso promettertelo, Erik.”
“Ma puoi provarci” Erik gli batté una rapida pacca sul ginocchio, lanciando un‘occhiata alla porta socchiusa.  Forse era meglio andarsene  a dormire.
Non avrebbe mai creduto che una conversazione potesse riuscire a stancarlo.
Sai che non lo farò. Tu sai che non lo farò. 
Erik si voltò verso Charles, ancora intento a fissarlo, ma con la mano vicino alla fronte, imperturbabile. Era ancora nella sua mente, Erik lo avvertiva come  un principio di mal di testa, tra le tempie leggermente pulsanti.
“Charles…” Charles. Erik non aveva voglia di ripetersi. C’era qualcosa negli occhi brillanti di Charles, in quelle iridi afflitte dalla tensione, che gli impediva di dire di stare fuori dai suoi pensieri. Non poteva dirgli di allontanarsi mentalmente da lui, perché ad Erik, quel mondo telepatico, dove le cose esterne erano solo un pallido riflesso, piaceva.
Era il mondo di Charles, controllato da lui e, in quel mondo, Erik coltivava l’illusione che niente potesse ferirlo, che non ci fosse niente da inseguire. Lui non l’avrebbe permesso.
Stai con me stasera. Non è un problema.
La mente di Erik venne attraversata in rapida successione dal ricordo dell’illusione di Charles. Il modo in cui gli aveva detto che gli mancava, quello strano Charles sicuro di sé stesso. Ricordò le sue mani, quella pelle madida che aveva accarezzato. E si accorse che era vero, era stato vero, almeno nel mondo di Charles, dove non esistevano né passato né avvenire, solo il momento corrente.
“Per favore…” Charles si piegò verso di lui, appena con il capo, senza toccarlo. Aveva abbassato la mano vicina alla tempia, ma le sue braccia erano ferme, lungo i fianchi,
le dita contratte strette al bordo del divano.
C’era un abisso tra la mente e l’uomo, rifletté Erik. Un abisso troppo profondo.
“Possiamo giocare a scacchi o parlare… Oppure… Quello che vuoi tu” iniziò Charles con voce malferma, come se non fosse sicuro di quello che stava dicendo. Ora che era uscito dalla testa di Erik, sembrava costretto a procedere a tentoni, del tutto privo di sicurezze. Come se dovesse interpretare quello che c’era dietro gli occhi cupi di Erik.
La voce di Charles s’affievolì, fino a dissolversi in una risata incerta.
“Oppure fare quello che immagini nella tua testa? Cosa, Charles?” chiese Erik un poco irritato.
“Quando ti ho detto che mi mancavi era vero” mentre lo diceva,  Charles arrossì ancora, ma Erik questa volta finse di non notarlo. “E non dirmi che non ci hai pensato.”
“Lo so.” Per me era lo stesso, ma non lo disse. Si limitò a pensarlo, anche se Charles non lo poteva più sentire.
“…. Ma è stato così patetico, Charles” aggiunse, prima di potersi trattenere. Erik lo guardò di sfuggita per vedere la sua reazione, vedendo i suoi occhi dilatarsi appena, sbigottito.
“Cosa?” disse piano. “Erik…”
Erik non sapeva perché l’avesse detto. Non lo pensava davvero, ma non sapeva come commentare altrimenti la sciocca fantasia di Charles.
Forse era quel disagio, quello che aveva provato nel vedere il luogo in cui era cresciuto Charles. Stare in quella stanza austera, piena di ombre e di mobili lucidi e libri rilegati con cura e denaro. Il sentirsi come… qualcosa che Charles non aveva, qualcosa che non aveva ancora.
Qualcosa che si era portato in quel mausoleo e con cui adesso intendeva giocare, per un po’… solo per un po’…
Questo era il pensiero di Erik, mentre lo sguardo di Charles si riempiva di tristezza e si allontanava impercettibilmente da lui. “Ti prego di scusarmi. Ancora.”
Erik avrebbe voluto domandare scusa per primo. Come poteva accusare Charles di essere tanto calcolatore, tanto insincero? Erano difetti che Charles non sembrava possedere… Charles non era così… oppure no?
“Domani dovrai spiegare a Cassidy come si vola. E’ meglio se vai a dormire, Charles.”
“Non voglio” rispose l’altro, abbandonando il tono incerto. “Come posso… Come posso aiutare qualcuno, aiutare loro, se devo trovarmi sempre in conflitto, sempre, con te?”
“Charles, tu non sei in conflitto con me. Smettila di pensarci, siamo solo…”
“Stanchi? Ma non è vero Erik, non è vero, io…”
“Charles. Abbassa la voce.”
Charles si zittì, mentre lo sguardo di entrambi andava alla porta socchiusa. Sembrava tremare leggermente, come se fosse davvero scosso, mentre si alzava e andava a chiuderla, abbassando piano la maniglia d‘ottone.
“Sono migliore di così. Ma sta diventando tutto così difficile ed insensato… E non posso fare a meno di pensare che sia io il problema” disse Charles sospirando, passandosi una mano sul viso e risedendosi. 
Insensato. Erik lo sapeva, era come se cercassero costantemente di sopraffarsi l’uno con l’altro, e contro loro stessi.
No, si corresse. Charles non capiva sé stesso, ecco con chi era in conflitto… mentre lui, Erik…
“Tu hai un vantaggio su di me” mormorò Erik sommessamente, sperando che Charles comprendesse quanto quelle parole gli costassero fatica. “Non posso combattere ad armi pari, non posso fidarmi davvero se...”
“Oh, Erik…” Charles sembrò riscuotersi un poco. Gli mise una mano sulla spalla, chinandosi appena nella sua direzione. “Non potrei mai abusarne, non farei mai una cosa del genere. Non a te.”
Erik apprezzò quel contatto. Avrebbe voluto anche credergli.
“Un giorno, Charles. Verrà un giorno in cui sbaglierai e capirai che il tuo…” Erik si voltò verso di lui, abbassandogli la mano che gli teneva sulla spalla, ma trattenendola nella sua. 
“Il tuo modo di ragionare, la tua etica… Sono troppo umane. Soccomberanno, perché il tuo potere è troppo grande. E allora cosa farai, Charles?”
Charles gli sorrise. Un sorriso fin troppo malinconico. “Cercherò te.”
 
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La ghiaia gemette sotto i passi di Erik, mentre attraversava l’ampio spazio che conduceva alla porta di servizio.
L’aveva lasciata semiaperta. Non aveva programmato di allontanarsi per tanto.
Non doveva essere stato fuori molto; il sole era ancora poco sopra le cime degli alberi, notò, girandosi verso il parco.
Sarebbe stata una bella giornata. Ampi sprazzi d’azzurro si aprivano, mentre la foschia delle ultime ore notturne, svaniva. 
Un altro giorno cominciava a Westchester. Erik però si domandava già come sarebbe finito. Aveva solo pensato a Charles, camminando nel parco. 
Alla prima sera, in cui si era allontanato senza una parola.
Alla seconda, a quello che si erano detti. Provò ancora una stretta, nel ricordare il modo in cui Charles l’aveva cercato. Nel modo in cui aveva usato i suoi poteri su di lui, di nuovo.
Non voleva davvero Charles lontano dalla sua testa. Voleva solo che non lo facesse a sua insaputa. Erik aveva pensato che sarebbe stato un bene, ribadirlo una volta ancora, una volta per tutte, spiegandosi…
Alla luce del giorno però, gli sembrava un errore. Forse si era scoperto troppo. Charles avrebbe potuto capire che, almeno un po’, Erik lo temeva.
Lo temeva, nello stesso modo in cui si poteva temere qualcosa di fin troppo affascinante ma potenzialmente distruttivo. 
Cercherò te, gli aveva detto Charles. Erik non gli aveva domandato perché. Si era limitato a sorridergli e andarsene, augurandogli la buona notte. Charles non l’aveva trattenuto.
Erano state quelle parole a chiudere la serata, tracciate in bilico tra una minaccia ed una promessa. Cercherò te.
Inutile aggiungere altro.
Erik spinse piano la porta con la punta delle dita, entrando tra le fredde mura della villa e chiudendo la luce mattutina dietro di sé. Mentre saliva al piano superiore, verso le camere, si chiese solo se Charles fosse riuscito di nuovo a prendere sonno. Quando fu davanti alla sua porta però, la oltrepassò senza guardarla.
C’era ancora tempo, aveva tutta la giornata davanti a sé.
 
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“Moira, mi occorrerebbe la tua pistola.” 
“Certo. Perché?” gli domandò, mentre Charles deponeva la tazza di Earl Grey sul bancone. Erano seduti nella grande cucina del pianterreno, al bancone metallico che attraversava la grande stanza. C’era una gradevole atmosfera casalinga, illuminata dalla luce del sole che entrava dalle finestre in alto.
Persino le credenze ingombre di piatti da esposizione non sembravano così intollerabili, agli occhi di Charles. 
“Vorrei solo… Vorrei solo provare una cosa, tutto qui.”
Moira afferrò un biscotto dal piattino davanti a sè, spezzandolo a metà tra le dita. “E’ di sopra. Posso andare a prenderla subito, se vuoi” disse senza altre domande.
Charles apprezzò il fatto che non s’interessasse minimamente alla questione. Era già difficile cercare di portare avanti quello a cui aveva pensato quella mattina.
“No, non mi occorre subito. E mi servirebbe anche che oggi stessi tu con Havok, giù al bunker, mentre Hank può occuparsi del progetto per aiutare Sean. Potete chiedere aiuto a Raven, se vi serve altro.”
Moira annuì piano, dando un piccolo morso al biscotto; alcune briciole caddero nella sua tazza di latte. Sembrava pensierosa. Forse si chiedeva perché Charles non avesse fatto direttamente il nome di Erik. Per eludere il suo sguardo, Charles scese dall’alto sgabello e andò verso il frigo, andando a recuperare un succo di frutta, mentre Moira parlava:
“Non avevi detto che oggi avresti aiutato tu Sean, Charles?”
“Ho cambiato idea” disse lui in fretta, chiudendo lo sportello. Charles vide Moira sollevare un sopracciglio, incuriosita. Si affrettò a dare una risposta più esaustiva.
“Non l’ho dimenticato, è solo che vorrei vedere se Erik… Vorrei capire meglio qual è il potenziale di Erik.”
“Sparandogli addosso?” chiese Moira in tono tranquillo e facendo un mezzo sorriso. “Credo che Lensherr avrà da ribattere in proposito.”
Charles rise piano, ma s’interruppe quando un rumore di passi aggredì le piastrelle a scacchi.
“A chi vuoi sparare Charles?” la figura di Raven fece capolino dall’ingresso, le palpebre ancora un poco abbassate. Sbadigliò, avanzando verso il frigo ed allontanando un poco Charles con il braccio, recuperando un succo anche per sé, prima di prendere una tazza vicino al lavello e sedersi al bancone. 
Moira le diede il buongiorno e le porse la teiera con un sorriso gentile che Raven ricambiò rapidamente e con fredda cortesia. Moira sembrò fare finta di nulla, come se avesse ormai accettato la scarsa disponibilità e l’atteggiamento scostante che Raven manteneva nei suoi confronti.
“Ciao Raven” la salutò Charles in tono stanco. Raven avrebbe potuto comportarsi in tono più maturo ed evitare di trattare Moira in quel modo.
Lì erano tutti uguali, e per quanto Raven potesse essere sua sorella e credere di avere più diritto su come muoversi a Westchester, non era nella posizione di escludere nessuno. Charles non voleva pensare e giudicare  quella strana forma di egoismo che stava dimostrando Raven negli ultimi giorni, ma guardandola passarsi una mano tra i capelli biondi e fare una smorfia nel bere il primo sorso di tè bollente, non poté trattenere un moto di disapprovazione. Era irritante.
“Vuoi sparare ad Erik?” gli chiese lei, non appena Charles si fu riseduto al bancone. “O lui deve sparare a te?”
“Cosa?” Charles strinse forse un po’ troppo convulsamente le dita attorno al freddo vetro della bottiglietta, sentendo l’acqua della condensa inumidirgli il palmo della mano.
“Perché dovrebbe…”
Raven fece spallucce, bevendo un altro sorso dalla tazza. “Magari per farti smettere di chiacchierare.”
Charles accennò una risata forzata, mentre lo sguardo di Moira passava da Charles a Raven.  “Come se parlassi tanto.”
Raven sollevò gli occhi al cielo. “Ma sentitelo. Come se a Oxford avessi fatto altro. Appena vedeva una ragazza carina in un pub, correva a leggergli nella mente per capire come parlargli e portarsela a casa. Era un po’ patetico, Charles.”
“Raven…” borbottò Charles spazientito. Era abituato ai commenti di Raven. Ma quella parola, patetico, proprio non gli piaceva. Proprio no.
“L’hai fatto anche con me?” replicò Moira ridendo piano, intercettando lo sguardo turbato di Charles con un sorriso scherzoso, cercando di distogliere l‘attenzione di Raven da lui.
Charles sentiva di stare arrossendo. Si chiedeva solo in che modo potesse andare peggio.
“Credo l’abbia fatto un po’ con tutte” disse Raven a Moira, con un sorriso smaliziato che non si estese agli occhi vagamente sprezzanti.
“A volte, anche con quelle non proprio carine. Non è così?”
“Raven…” cominciò Charles, prima di accorgersi che qualcun altro era entrato nella stanza, rispondendo all’implicita domanda di Charles su come quella situazione potesse peggiorare.
“Buongiorno” disse la voce di Erik alle sue spalle. Charles sentì una vampa di rossore assalirlo, si morse il labbro, girandosi lentamente, ma il suo debole saluto fu coperto dalla voce di Raven che esclamò:
“Erik!”
Lui sorrise. Era vestito nello stesso modo in cui Charles l’aveva visto, guardandolo all’alba dalla finestra, solo senza la giacca. Le scarpe erano ancora un poco sporche di terra, notò Charles. Come se fosse stato necessario quel dettaglio, per fargli capire che Erik nel parco, non era stata solo una sua allucinazione.
“Sei uscito?” gli domandò in tono noncurante, rivedendo Erik allontanarsi in direzione del bosco artificiale. Erik annuì piano, incrociando le braccia.
“Solo a fare un giro.”
Charles stava per dirgli qualcos’altro, ma fu interrotto da Raven che avanzò verso Erik con uno sciocco sorriso stampato in faccia, mentre gli porgeva una tazza di tè. 
“Per te.”
Erik fece uno strano sorriso, ringraziandola. La seguì verso il bancone, senza guardare nemmeno una volta in direzione di Charles, mantenendo quella strana espressione,
a metà tra il serio e il divertito.
Raven si risedette, facendogli segno di sedersi vicino a lei, ma Erik scosse la testa, bevve un sorso e si appoggiò al ripiano vicino ai fornelli, preferendo stare in piedi, un po’ in disparte.
“Stavamo parlando di quanto Charles fosse patetico” disse Raven girandosi verso Erik con un altro sorriso, artigliando il manico della sua tazza, posando i gomiti sul bancone.
Fece anche un sorriso a Charles, un sorriso che voleva essere scherzoso, ma che riuscì solo ad irritarlo di più. Charles avrebbe voluto entrare nella mente di Erik e farlo addormentare. O cancellare quella parte di giornata che stavano vivendo. Oppure parlargli nella stessa, qualsiasi cosa per distrarlo…
Ma non poteva farlo, anche se la sera prima non glielo aveva davvero promesso. Era impotente.
“Patetico? Perché?” domandò Erik. Sembrava incuriosito e Raven fin troppo felice di spiegargli perché. Cominciò a raccontare qualche sciocco aneddoto sulle serate trascorse ad Oxford, sulle ragazze che Charles aveva frequentato. L’argomento era troppo scomodo, Charles non sapeva come controbattere, se non strozzandola.
Le mani gli formicolavano; avrebbe voluto colpirla, tanto era arrabbiato, ma mantenne un falso sorriso, che si trasformò in una smorfia insofferente non appena gli occhi di Moira si posarono su di lui. Lei almeno, sembrava dispiaciuta per lui, anche se non capiva del tutto quella strana situazione.
“… Ed è per quello che deve usare il suo discreto talento, sempre. Tutte quelle ragazze soggiogate. Poverette.”
“Davvero interessante” commentò Erik con un sorriso storto.
Raven si voltò verso Charles, ammiccandogli in modo fin troppo divertito.  “Alcune magari ti trovavano davvero carino, ma non tutte Charles, è impossibile.”
“Raven…”
Raven guardò verso Erik, come se stesse cercando il suo appoggio. “E non ha mai pensato che potesse essere sbagliato leggere tutto nella loro testa! Vero, Charles? Effettivamente non mi ricordo nessuno con cui tu non l’abbia fatto…”
Charles aggrottò le sopracciglia, ne aveva davvero abbastanza. Voleva zittirla, ma aveva appena aperto la bocca per ribattere e dirle seccamente che lei non aveva nessun diritto di parlare in quel modo, se non qualcosa di più cattivo, quando venne di nuovo interrotto.
“Magari non lo racconta a te, Raven. Giusto, Charles?” disse Moira facendo spallucce. Aveva parlato in tono tranquillo, indirizzandole un sorriso cortese, ma il tono fermo suggeriva di mettere fine alla conversazione, almeno su quell’argomento. Charles provò un istintivo moto di gratitudine per Moira.
Riuscì anche a recuperare la sua solita espressione distesa, sorridendo ad entrambe.
“Può darsi che mi faciliti un po’ le cose. A volte” disse, sentendo lo sguardo di Erik su di sé.  “E sì, faccio anche degli errori” aggiunse in tono più serio, allontanando la bottiglietta di vetro da sé. “Patetico.”
Afferrò la teiera e si versò dell’altro tè, poi si alzò e tenendo sempre la tazza in mano, andò verso la porta.
“Non resti a far colazione con noi?” 
Charles distolse un momento lo sguardo dalla porta, dando appena segno di aver sentito la domanda di Erik, ignorando il tono divertito, vagamente beffardo. La parola colazione gli riportò alla mente una camera d’albergo, cieli neri e neve che cadeva. E le braccia di Erik attorno a lui, mentre lui gli rivolgeva quella stessa domanda. Solo un po’ diversa…
“Vado a svegliare gli altri” disse Charles piano in risposta, senza guardare verso nessuno in particolare. “
A quanto pare non si ricordano che alle nove dovevano essere in piedi.”
Era quasi sulla porta, quando trovò la forza di girarsi e guardare in direzione di Erik. 
“Fra mezz’ora ti aspetto fuori.”
Erik annuì e Charles si allontanò, mentre la voce seccata di Raven commentava:
“Credo voglia spararti addosso.”
 
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*“Sei sicuro?” 
“Sono sicuro.”
“Ok.” 
Charles fletté un poco il dito, inspirò e guardò Erik con decisione.  Si morse un poco il labbro, mentre il suo viso assumeva un‘espressione risoluta, cercando la forza per farlo. Doveva solo tirare il grilletto. 
Forse l‘avrebbe anche fatto, ma il luccichio deciso che aveva negli occhi ben presto sparì, sostituito da uno sguardo dolente.
“No, Erik. Non posso, scusa. Non posso sparare a bruciapelo a nessuno, figurati ad un amico.” 
“Oh, Charles! Lo sai che posso deviarla! Mi dici sempre che devo espormi di più…” Erik istintivamente prese la mano armata di Charles tra le sue, portandosi la Browning alla fronte, ma Charles si liberò dalla presa, allontanando il braccio da lui. 
“Se sai che puoi deviarla allora non ti stai mettendo alla prova. Che…” Charles lo guardò, incredulo. Come se fosse stato Erik ad avere quell’idea balorda e non lui. 
“Che fine ha fatto l’uomo che voleva sollevare un sottomarino?”
“Che?” sbottò Erik, innervosito dalle remissività di Charles. “Non ci riesco, non adesso. Per una cosa così grande mi serve la situazione, la rabbia…”
“No, la rabbia non basta” Charles gli passò l’arma. Non ne sopportava nemmeno la vista. L’aveva davvero puntata contro Erik? E perché, quando ci aveva pensato quella mattina a letto, gli era sembrata un’idea tanto brillante? Solo ora si rendeva conto di che stupido giochetto fosse. Era ovvio che Erik sarebbe riuscito a fermare quei proiettili.
Non aveva certo bisogno di lui.
“Mi ha permesso di farcela in tutti questi anni” replicò Erik, fissandolo.
“Ti ha quasi ucciso, in tutti questi anni” ribatté Charles, restituendogli lo sguardo. Gli diede una rapida pacca sulla spalla e diede un cenno come se volesse essere seguito, oltre la balaustra di pietra.
“Dai vieni con me, proviamo a fare una cosa un po’ più difficile.”
Charles si allontanò lungo il viale sterrato, costeggiando la balaustra e risalendo una delle scalinate. Sembrava che stesse tornando in direzione della villa. Erik strinse l’impugnatura della Browning e dopo un istante lo seguì. Sali gli scalini di pietra a passi rapidi, ritrovandosi nello spiazzo d’ingresso. Istintivamente guardò verso la villa, ma Charles lo aspettava  più in là, all’inizio di uno dei vialetti di mattoni che conducevano nel boscetto ornamentale attorno alla villa, le mani in tasca. Gli sorrise, facendogli un cenno amichevole.
“Per di qua.”
Erik lo guardò scettico. Era snervante. Sembrava di essere di nuovo scivolato nella mente di Charles, quello doveva essere senz’altro uno dei suoi giochetti. La premessa, seguimi, era sempre uguale. Come aveva potuto anche solo credere che sarebbe stato... Divertente? Charles avrebbe dovuto essere a progettare da quale tetto far cadere Cassidy.
Lui non aveva davvero bisogno del suo aiuto.
Charles si girò e cominciò ad incamminarsi. Erik lo seguì, mantenendosi comunque a distanza. Non aveva molta voglia di parlare. Non sapeva nemmeno perché lo stesse facendo.
Presto il cielo bianco opalescente e i raggi pallidi del sole vennero filtrati dalle fronde nere degli alberi, i mattoni del vialetto scomparvero sotto foglie secche e qualche erbaccia.
Erik si chiese ancora dove stessero andando, non poteva essere così lontano…
Finalmente, gli alberi terminarono, o almeno questa fu l’impressione di Erik, ritrovatosi in un ampio spazio lastricato. Su un lato c’era un gazebo di pietra e legno, con delle vecchie serrande accostate e grandi teli cerati con anelli di ferro per tenderli, accartocciati vicino a delle aste metalliche e a dei rettangoli di lamiera accatastati; un paio di panchine di pietra, si susseguivano al limitare del bosco, assieme ad un tavolino di ferro e alcune sedie, nell‘angolo più lontano. Al centro, vicino a dove si era fermato Charles, c’era una vera e propria piscina.
Sembrava un grande rettangolo verdeazzurro, grazie alle piastrelle che la rivestivano. Erik le vedeva attraverso l’acqua limpida, così come gli scalini che conducevano sul fondo, anche se ne era abbastanza distante. Si avvicinò lentamente al bordo, guardando l’ombra di Charles riflessa sull’acqua. Tutt’attorno alla grande vasca, c’erano delle luci interrate nel cemento e un trampolino di ferro, allungava la sua ombra sulla superficie liquida. Doveva essere un bel posto di notte. Non era nemmeno lontano dalla villa, che si intravedeva bene tra gli alberi. Un altro viale, un poco più ampio di quello che avevano percorso, sembrava condurre proprio a quella.
“Adorabile” commentò ironicamente Erik. “Vuoi spararmi qui?”
Charles sorrise, un poco forzatamente. Non avrebbe mai ammesso che la sua iniziativa era stata un’idea stupida. Anche perché Erik era stato ben felice di mettersi alla prova, come se non aspettasse altro che dimostrargli qualcosa. Fece qualche passo verso di lui, sfilandogli la pistola dalle mani, inserendo la sicura e infilandosela al fianco, dentro la cintura.
“Sai che non lo farei mai.”
"Forse questa mattina..." disse Erik ridendo. Charles arrossì un poco,fingendo di tossire, ma non replicò.
Lanciò un’occhiata al trampolino, Erik seguì il suo sguardo. Non era tanto alto, giusto un paio di braccia sopra la superficie dell’acqua; Erik notò anche che l’asse di legno era abbastanza malconcia. La lucida vernice bianca che doveva rivestirla era crepata in alcuni punti, in altri mancava, e la struttura di ferro non sembrava affatto solida, i tiranti e i sostegni erano quasi del tutto arrugginiti.
“Devo smontarlo?” chiese Erik divertito, girandosi verso Charles.
“Non è affatto necessario” replicò Charles tranquillo. “Anche se forse andrebbe sostituito, te ne do’ atto. Resta qui.”
Charles si allontanò lungo il bordo della vasca. Erik l’osservò, passandosi una mano sulla fronte e cominciando a ridere, mentre Charles saliva i pochi scalini metallici, fino a salire sul trampolino, mettendosi lentamente in piedi. Un po’ di vernice scrostata gli si era appiccicata sui pantaloni, all’altezza delle ginocchia, ma non sembrò farci caso.
Era vagamente comico, vederlo ritto su quell’asse, con la sua aria da giovane accademico in giacca di tweed, le mani in tasca. Gli sorrise e fece un passo in avanti.
Subito Erik avvertì lo scricchiolio metallico, come se la vecchia struttura di ferro si stesse lamentando.
“Charles…” disse Erik ad alta voce, perché potesse sentirlo. Gli veniva ancora da ridere, chiaro, ma qualcosa nella postura di Charles, non prometteva niente di buono.
“Che diavolo…”
“So che sarebbe divertente, ma non farmi cadere subito in acqua, Erik.”
Erik aprì le mani in un gesto spazientito. “E allora scendi, Charles. Quell’affare è per metà di legno. Se si rompe, posso al massimo tenere in piedi la scaletta."
Charles scosse un momento la testa, ridacchiando. “Appunto.”
Fece altri tre passi in avanti e l’asse elastica si curvò un poco sotto il suo peso, Charles era quasi vicino al limite, quando accennò un piccolo saltello sul posto.
Questa volta Erik riuscì anche a sentire persino lo scricchiolio del legno vecchio e provato. Ora non rideva più.
“Charles, non ti si addice” disse corrugando la fronte. “Scendi. Te lo chiedo per favore.”
“Voglio solo…” Charles si portò la mano al fianco, scostando un lembo della giacca e afferrando la Browning.  La guardò per un lungo momento, fece scattare la sicura e poi se la puntò con decisione alla tempia.
“Così è più semplice.”
Erik spalancò gli occhi. Tese una mano, ma tutta quella scena gli sembrava così assurda che si scoprì incapace a strappargliela dalla mano. Non poteva essere vero, era come stare dentro un gran brutto sogno. 
Non riusciva a concentrarsi, vedeva solo Charles e quella maledetta arma e l’unica cosa che riusciva a pensare era che Charles doveva nutrire per forza qualche istinto suicida, se voleva mettersi in situazioni del genere. 
Doveva arrabbiarsi con Charles, doveva avercela con lui per impedirgli di fare un’ennesima sciocchezza… ma Erik riusciva solo a sentirsi preoccupato, preoccupato per lui e con la  sola preoccupazione, Erik era impotente. Che sentimento inutile!
Charles accennò un altro saltello ed Erik cominciò a camminare verso di lui, ma Charles lo bloccò. Erik sentì la stessa forza che l’aveva immobilizzato a Stoccolma invaderlo, ma durò solo un rapido istante.
“Resta lì.”
“Charles, non lo farai” replicò Erik. “Se è perché ho sbagliato qualcosa…” cominciò a dire, ma Charles lo interruppe:
“Ti sto solo mettendo alla prova. E’ quello che volevi, Erik, me l'hai detto prima.”
Erik lo guardò duramente. “Non così. Non attraverso te.”
"Ma sembravi contento quando stavo per spararti!" ribattè Charles con un sorriso amichevole.
"Charles..."
“Se l’asse si spezza, potrei premere il grilletto” disse Charles, come se stesse spiegando qualcosa a sé stesso. “Oppure no.”
“Perché devi correre un rischio così stupido? Per una cosa così…”
Charles lo guardò, la pistola leggermente tremante nella sua mano, un poco malferma. La allontanò un poco da sé, ritraendo leggermente il braccio.
“…Patetica?” concluse lui sorridendo e facendo un altro saltello. Aveva appena poggiato i talloni sull’asse che questa si spezzò, con un suono secco. Erik spalancò gli occhi, mentre il suo sguardo spaventato si rifletteva nelle iridi sorprese di Charles, che aprì le braccia come una bambola di pezza, prima di piegarsi e cadere, mentre il suono dello sparo si riverberava nell’aria, spaventando un paio di corvi annidati tra gli alberi.
 
 
Continua....
 

Angolo delle Notizie a Casaccio 
 
Ultimamente sono in modalità Bernard Black,  ma questo non mi impedisce di mettermi al pc e scrivere qualche altra FF sulla coppia del momento.
Almeno a guardare un paio di pagine di Tumbrl.
Allora. Qualche veloce delucidazione su questo capitolo che è il primo della quarta parte e con un inizio super confuso tra varie serate e trampolini (Voleva fare un capitolo unico, ma Westchester è per me vera fonte d’ispirazione. Ho intenzione di tenere E&C in questo limbo felice almeno per altri due capitoli).
Nella FF ci sono al solito un paio di citazioni di cose che mi piacciono, of course. 
Non so se Cipriani abbia un catering, però. Facciamo finta di sì. La scatola di fiammiferi che usa Charles è quella che ho comprato dal tabaccaio l’altro giorno. Etc. 
La conversazione tra E&C relativa alla seconda sera è stata scritta in preda al delirio, perciò potrebbe risultare confusa e stazzonata (Come se altre parti della FF non lo fossero), perciò criticatela quanto volete, assieme agli errori che, sicura sicura ho lasciato in giro. Mi fa piacere ricevere recensioni che me li fanno notare, perché sono il genere di persona puntigliosa che quando rilegge le sue cose, bè pensa sia tutto ok, ignorando sviste madornali.
E naturalmente, fatemi sapere cosa ne pensate. Il parere di un lettore è sempre ben accetto!
Al solito, ringrazio coloro che mi hanno recensito e mandato messaggi. 
Può darsi che posterò il cap. 2 verso sabato. Nell’attesa, io vi saluto.

Exelle

(*) Il dialogo è tratto pari paro da X-Men First Class, versione italiana.Un po’ me ne vergogno. Ma non scriverò qui il perché.
 
  
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