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Fantasmi
You put a knife in my back, shot
an arrow in me
Tell me, are you the ghost of
jealousy?
La Villa li aveva guidati
fin da quando li aveva lasciati entrare, e Sora non aveva dubbi che le altre
stanze fossero tutte inaccessibili. Guardò la porta aperta che dal
pianerottolo conduceva a una nuova scalinata semibuia, passandosi la lingua
sulle labbra secche. Non avevano scelta. Dovevano passare per di là.
Per l’ennesima
volta, il pensiero di trovarlo
lassù ad aspettare gli provocò un moto d’odio.
Ma il pensiero di Riku, Kairi, Naminè,
Xion, Olette e Pence lo sostenne, rinsaldandogli la presa sul bastone, e
fu senza un fremito che Sora fece un cenno ad Axel e Hayner guidandoli verso il portone spalancato.
Lo oltrepassarono.
In quella, un lampo
più accecante degli altri filtrò dalle finestre, e i tre ragazzi
chiusero gli occhi d’istinto. Riaprendoli, Sora sentì il cuore
mancare un battito.
La rampa di scale che li
avrebbe condotti al piano più alto della Villa non s’immergeva nei
suoi meandri, ma si avvolgeva attorno a una torre, come una cengia di
montagna, o i vecchi ballatoi esterni delle rocche medievali che Olette gli aveva mostrato una volta in un libro di storia
che sembrava appartenere a un’altra vita. La loro strada si svolgeva
simile a un serpente viscido nella notte burrascosa. In alto, molto lontano
sopra le loro teste, quasi invisibile nello scroscio della pioggia e dei
fulmini, un lumicino indicava un’ultima stanza aperta per il loro arrivo.
Eppure Sora avrebbe giurato che un attimo prima non ci fosse
alcuna torre a svettare sulla Vecchia Villa.
Hayner fu il primo a scattare
fuori. Axel e Sora gli tennero dietro come automi, ma
una folgore che dardeggiò vicinissima all’amico indusse Sora a
ricordare con chi avevano a che fare.
«Hayner, rallenta!» boccheggiò, almeno dieci
gradini sotto i suoi pantaloni mimetici. «Non così in fretta!
Così gli vai direttamente incontro, e lui non aspetta altro che di
coglierci impreparati!»
Hayner ruggì una
risposta sopra la propria spalla, senza smettere di correre. «Non m’importa! Non m’importa
di cosa vuole fare! Non gli permetterò di tenerli qui, Sora, non gli
permetterò di toccare Olette o Pence o chiunque altro!»
«Hayner, idiota, a
loro non serve un fottuto eroe!» urlò Axel
più forte ancora, sovrastando i tuoni. «Gli serve qualcuno che
sappia cosa fa! Sta’ attento a dove metti i piedi e tieniti la testa ben
piantata sul collo, accidenti a te!»
Hayner voltò di nuovo
il viso per rispondergli qualcosa – Sora distinse un furore selvaggio nei
suoi occhi – ma non udirono mai le sue parole. Fu sfiorato da un altro
fulmine. Mise un piede in fallo, scivolò.
L’istante
successivo, come al rallentatore, Sora lo vide precipitare dall’altezza
vertiginosa che avevano raggiunto, le braccia aperte, in volto
l’espressione attonita di chi ha appena visto un fantasma.
«Hayner!»
Si sporsero a guardare,
urlando il suo nome alle urla del vento. Ma lui era già sparito nella pioggia
che frustava i sottostanti tetti di quelle stanze maledette percorse invano.
Sora non si sentiva
più la voce. Restò a guardare giù dalla scalinata,
agghiacciato, finché Axel non gli strinse
forte una spalla.
«Non possiamo fare
nulla per lui... Andiamo avanti.»
Sora batté le
palpebre. Axel si chinò per parlargli
direttamente nell’orecchio. Non l’aveva mai sentito così
vicino.
«Vai. Ti guardo le spalle.»
Si scosse. Annuì,
e riprese la corsa.
Nel fiume di volti che
lo incitavano ad andare avanti si era aggiunto ora anche lo sguardo stupito di Hayner.
Arrivarono in cima senza
fiato; si lanciarono all’interno della stanza illuminata più
veloci dei fulmini, e Axel si chiuse i battenti alle
spalle con forza, sopprimendo il fragore degli elementi. Sora si guardò
intorno ansante.
Era una stanzetta
circolare, vuota, molto più piccola di tutte quelle finora incontrate. E
anche qui regnava incontrastato l’abbandono, con l’unica differenza
della totale mancanza di mobilia: l’ambiente era nudo, spoglio e umido,
come la cella di una prigione. Kairi l’avrebbe
certo definita la stanza più
remota della torre più alta; solo che qui non c’erano
principesse da svegliare con un bacio, si disse Sora stringendo più
forte il bastone – e, in tutta onestà, ancora non sapeva quale
fosse il modo più giusto di definire il suo nemico.
«Dov’è?»
chiese Axel al nulla, dando voce ai suoi stessi
pensieri.
L’ultimo eco della
sua domanda ebbe appena il tempo di spegnersi. D’improvviso, nella stanza
divampò il fuoco. Non c’era nessun camino – le fiamme
sembravano sgorgare direttamente dall’aria, per magia, avviluppandosi
alle ginocchia di Sora e spandendo intorno un debole sentore di bruciato.
Axel lo spinse
immediatamente da parte, facendogli scudo col proprio corpo mentre Sora
strisciava dal lato opposto della stanza e sollevava il bastone tremante: ma
che avrebbe potuto fare il legno contro il fuoco?
E poi, tra le fiamme che
ora lo separavano dall’ultimo compagno rimastogli, credette
di vedere qualcosa. Una figura indistinta e scura sembrava rivolgersi
direttamente ad Axel; e anche se non riuscì a
sentire nulla, Sora capì cosa stesse succedendo dal modo in cui gli
occhi verdi dell’eterno amico-nemico si dilatarono e si accesero di
stupore. Nello stesso istante seppe anche che non era stato il fulmine, né l’acqua depositata sui
gradini, a far precipitare Hayner dalla torre.
«No!» Si
mosse verso il fuoco e la bocca gli si riempì di cenere, ma non
indietreggiò. «Axel – coff – non
ascoltarlo! Qualunque cosa ti stia dicendo – coff – noi siamo venuti qui
per combatterlo, Axel! Ricordati cos’ha fatto
agli altri... Ricordati Naminè!»
Al nome della ragazzina
che era per lui quanto di più simile a una sorella potesse esistere, Axel parve scuotersi. Tuttavia non distolse lo sguardo
dalla figura nel fuoco, e nel silenzio che seguì, ora che era più
vicino, anche Sora poté sentire le parole che avevano immobilizzato Axel sul posto.
«Aspettavo da così tanto tempo,
così tanto, così tanto, che tu venissi a giocare con me.»
Sora gemette. Era come
aveva temuto: lo straniero del cimitero aveva deciso di prendersi tutti loro.
«No, Axel, no...»
Ma Axel
sembrava essere piombato in un mondo etereo ed eterno, in cui esisteva soltanto
il volto del ragazzino che gli fluttuava davanti agli occhi tra le lingue di
fuoco. I riflessi incendiavano le forme spigolose dei suoi zigomi, disegnavano
ombre nere sotto gli occhi sgranati. Sora sentì che rispondeva, ma era
come se mettere insieme le parole gli costasse un’immensa fatica.
«Ho come
l’impressione... di conoscerti da molto tempo...»
«Axel, no!»
Sora avrebbe voluto
lanciarsi su di lui, scaraventarlo via di lì, ma il fuoco glielo
impediva. Dal canto suo, Axel non parve accorgersi
del suo nuovo richiamo. Alzò una mano verso le fiamme, le sfiorò.
Sora urlò. Il fuoco accarezzò la pelle dell’adolescente
come un vecchio amico, senza scottarlo né lasciar segni del suo
passaggio.
E poi, inaspettatamente,
Axel sorrise. Subito dopo il fuoco lo avvolse. Lui
sparì alla vista, e Sora rimase immobile a gridare il suo nome con voce
sempre più forte, sempre più forte, finché le fiamme non
morirono risucchiate dalla stessa aria che le aveva generate. Axel era scomparso.
La stanza tornò
scura e fredda, il silenzio rotto solo dalle frustate del vento e dal respiro
affannoso di Sora.
Crollò in
ginocchio. Anche Axel... Anche il duro, il fiero, il
sarcastico Axel, quello che aveva sempre faticato ad
accettare di prendere ordini da un
ragazzino come lui... Lo straniero aveva preso anche Axel.
Era stato tutto inutile. Tutto inutile.
Sora non si accorse di
aver seppellito il viso tra le mani finché una mano diversa, fredda e
inconsistente come la neve, gli sfiorò le dita come per studiarne i
contorni.
«Hai paura,
adesso.»
Non era più una
domanda.
Non ebbe la forza di
ritrarsi. Alzò semplicemente il capo e aprì gli occhi, lasciando cadere
lacrime rinnovate, fissando quelli dello straniero che gli somigliavano
così tanto.
«Perché fai
tutto questo? Perché li hai fatti sparire?» Gli tremava la voce,
ma non si sforzava più di nasconderlo. Era vero: aveva paura. «Chi sei tu?»
Il ragazzo col mantello
nero allontanò la mano dalla sua, ma continuò a guardarlo con
aria improvvisamente stanca, e un sorriso storto più agghiacciante della
sua dubbia natura.
«Sono un fantasma,
Sora. Sono il fantasma di ciò che sarebbe potuto essere e di ciò
che non sarà mai. Sono il fantasma del Te che non ha mai avuto il
diritto di esistere. Ti ho aspettato a lungo, sai... Sapevo che saresti venuto.
Sapevo che saresti venuto a ridarmi quello che mi hai tolto. E allora io avrei tolto qualcosa a te... Qualcosa
che tu non avevi il diritto di
avere...»
Sora non reagì.
Avrebbe voluto chiedergli di cosa diavolo stesse parlando, ma persino quella
semplice domanda lo atterriva. Immobile, rimase a guardare lo straniero che
finiva di slacciarsi il mantello aperto per metà.
«E adesso, non mi
resta che una sola cosa da riprendermi.»
Lo sguardo di Sora
scivolò sui lembi di stoffa nera ora discosti e sul buco che si apriva
nel petto del suo fantasma, un
miscuglio di nero e rosso grondante dolore, lo stesso dolore che aveva fatto
piangere Naminè, lo stesso dolore che Sora
provò negli ultimi istanti della sua vita.
Note dell’autrice
O_O -> Questa
è stata la mia espressione nello scrivere la parte finale di questo
capitolo.
Brr. Mi faccio paura da
sola. Ma come mi è venuta una cosa simile?!
A presto con l’epilogo!
Aya ~