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Autore: Sasita    22/08/2011    5 recensioni
Tutto inizia nel miglio. Jane ha ucciso John e non l'ha fatto per legittima difesa. Qual'è la pena per questi omicidi se non la morte? Così inizia una corsa contro tutto, contro tempo e legalità perché Jane e Lisbon possano finalmente vivere la loro vita. Scappando da tutto ciò che è loro noto, si ritrovano a vivere con nomi di altri, e ad amarsi come prima non avevano mai potuto fare. E cosa succederà loro? Riusciranno a scampare i pericoli? E potranno mai tornare a fare quel che amano di più al mondo, nella loro meravigliosa Sacramento? Leggere per sapere! E recensire per piacere! :)
Genere: Commedia, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Patrick Jane, Teresa Lisbon, Un po' tutti | Coppie: Jane/Lisbon
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Long Fic Jisbon'
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Il caldo e l’afa sembravano non voler mollare quel giovedì di maggio. Neppure a San Francisco, una delle città più ventilate e fresche della California, sembrava possibile passare una giornata tranquilla senza rischiare di squagliarsi da un momento all’altro. Anche in Facoltà era difficile sopravvivere al calore umido del clima equatoriale di quella giornata primaverile. L’estate era arrivata in anticipo in America, quell’anno; o almeno, così recitavano a pappagallo i meteo nei canali televisivi e radiofonici.
Grace camminava spedita nei suoi vestiti sgargianti e con i capelli rossi raccolti in una treccia lunga, su e giù nell’università. Era il giorno della sua ultima tesi di laurea.
In fondo si era ripromessa di riprendere gli studi di architettura, una volta lasciata la polizia. E così aveva fatto, anche se adesso le forze dell’ordine le mancavano terribilmente.
Tra lei e Wayne tutto andava a meraviglia: avevano deciso di andare a vivere insieme, in una piccola villetta colorata con un bel giardino pieno di fiori.
Lui, come aveva detto, era andato a lavorare per la NCIS e vista la sua esperienza al CBI dopo pochi giorni di lavoro ai “piani alti” avevano deciso di elevarlo a livello di capo di una squadra investigativa. A quanto pareva era stata Hightower a mettere una buona parola su di lui e sulla squadra che era stata, nel suo periodo lavorativo dal 2004 al 2011, quella con il maggior numero di casi risolti.
Ogni volta che si perdeva nei ricordi della vecchia squadra, Grace era presa da una grande nostalgia: la mancavano le schermaglie teologiche con Patrick, i discorsi da donne con Teresa, il modo di fare di Kimball e il continuo smangiucchiare di Wayne.
Ora era una laureanda in architettura, era una colta progettista ventisettenne dai capelli rossi, un prestante futuro marito e tre migliori amici di cui due erano in giro non si sa dove in Europa.
Sorrise amaramente mentre saliva le scale con i tacchi che ticchettavano sul pavimento di legno, diretta verso la sala conferenze dove avrebbe esposto la tesi.
Il problema, però, era che Grace sentiva che qualcosa non stava andando bene. Non a Teresa e Patrick, che sicuramente si stavano godendo la “vacanza”, ma in generale.
Grace aveva la sensazione che presto qualcosa sarebbe andato storto, come se sapesse che LaRoche stava seguendo il caso di Patrick, e avessero scoperto che era evaso.
Beh, prima o poi l’avrebbero capito, nonostante l’inettitudine dei secondini... In fondo, mancava un corpo.
E poi LaRoche era troppo scaltro per lasciarsi scappare tanti piccoli dettagli, come ad esempio il fatto che  tutti si erano licenziati.
Probabilmente era solo paranoica, o era l’ansia pre-laurea, però lei si sentiva come se ci fosse qualcosa che non andava in città.
Arrivò nella sala, tirò un respiro profondo e guardò tra il pubblico: c’erano i suoi genitori, che si tenevano per mano seduti in prima fila, sua sorella Marie e suo fratello Peter vicini che parlottavano fitto fitto, Wayne che la guardava raggiante con i pollici alzati, Kim che, a braccia conserte, la osservava con un ombra di sorriso sul volto. E poi c’erano alcuni studenti, che assistevano per capire bene come fare, ma lei non li conosceva.
E, infine, la commissione che la aspettava al tavolo. Si sedette, agitata, e posò la tesi davanti a sé. Si passò le mani sulle gambe tentando di calmarsi, respirò profondamente di nuovo e iniziò a parlare.
 

*********

 
-Wow! Sei stata bravissima, amore!- le disse Wayne quando arrivarono a casa, dopo che la commissione la ebbe liquidata con un bel 105.
Ancora non ci credeva, che era riuscita a prendere la laurea. Abbracciò il fidanzato e poi la madre, il padre e i fratelli. Kim le strinse la mano, impassibile ma affettuoso allo stesso tempo.
-Non ci credo!- disse, al settimo cielo - E pensare che mi sentivo così strana stamani... come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro... -
-Era solo l’ansia da prestazione, Grace.- le fece sua madre –Cosa sarebbe mai potuto andare male?-
Grace lanciò un’occhiata a Wayne e Kimball, che la ricambiarono turbati.
-Niente, mamma. Hai ragione...-
Il padre di Grace rise –E quando mai non ce l’hai, Elisabeth?-
-Ah, sta’ zitto, Ronald.- lo redarguì la donna, scuotendo la chioma bionda e cotonata e scoccando un’occhiata divertita al marito quasi calvo.
Riportò lo sguardo su Wayne e Grace, che si tenevano per mano teneramente, e sorrise, andando verso la cucina. -Vado a controllare il forno, prendete pure posto a tavola.- disse, camminando spedita.
Quando la donna tornò in sala da pranzo trovò il marito, Wayne e Kimball in una discussione sulla partita serale di football: Ronald diceva che avrebbero sicuramente vinto i Red Socks, mentre Wayne era convinto che questa sarebbe stata la volta buona per il Sacramento. Kimball era impassibile, ascoltava in silenzio con le braccia conserte e annuendo. Grace era assorta nei suoi pensieri e guardava distrattamente fuori dalla finestra che dava sul cortile, seguendo  con gli occhi il dondolio dell’altalena che un tempo era stata sua fedele compagna di giochi.
Elisabeth le se avvicinò e le posò una mano sulla spalla, facendola destare dai suoi pensieri.
-Ti andrebbe di aiutarmi in cucina?- le chiese, con un sorriso insolitamente dolce sul viso.
Grace sorrise annuendo e seguì la madre gettando un ultimo sguardo all’altalena mossa dal vento.
La cucina di casa Van Pelt era di una leggera tonalità crema, accogliente e sempre pervasa di un delizioso odore di miele e lavanda. I fornelli, sempre perfettamente in ordine, adesso accoglievano una grossa padella in cui rosolavano delle verdure tagliate a fettine, mentre dal forno emergeva il delizioso profumo dell’agnello. Dalla finestra invece entrava un lieve venticello: nella zona di San Francisco dove abitavano i genitori di Grace, infatti, faceva leggermente più freso e dal giardino davanti a casa arrivava una brezza leggera che sembrava trasportare l’odore di erba tagliata. La stanza, molto luminosa, aveva al centro un grande ripiano di marmo dove la signora Van Pelt stava tagliando una cipolla. Grace si guardò intorno e si avvicinò al frigorifero, prendendo una bottiglia d’acqua fresca e versandosene un po’ in un bicchiere.
-Sei incinta?-
Per poco non gli andò di traverso l’acqua che stava bevendo e dovette fare un grosso sforzo per non sputarla fuori per rispondere. Invece la ingollò tutta d’un sorso e guardò sua madre, che neppure si era girata per farle una domanda del genere; anzi, era rimasta a tagliuzzare la sua cipolla e la rossa avrebbe pure scommesso che stesse sogghignando.
-Mamma, ma che domande fai?- domandò
-Mi pareva di averti fatto una domanda per prima.- rispose, seria.
Grace sospirò -No, mamma. Non sono incinta.-
Elisabeth annuì per qualche secondo, prima di girarsi a guardare la figlia dritta negli occhi verdi. La fissò con i suoi occhi scuri a lungo e poi tornò alla sua cipolla.
-Allora qualcosa non va con il tuo vecchio lavoro... ho saputo cosa è successo a quel consulente di cui mi hai parlato spesso. L’hanno detto al telegiornale quello che ha fatto. Sai, per quanto io sia cattolica credo che questo… Jane abbia fatto bene a liberarsi di quell’uomo. Peccato l’abbia fatto nel modo sbagliato. Non c’è più giustizia in questo mondo, comunque.-
Grace la guardò in silenzio: sua madre era sempre stata molto perspicace, ed era stato difficile mentirle a volte. Però stavolta avevano fatto un giuramento, nessuno avrebbe mai dovuto dire una parola riguardo quanto fosse realmente successo quella notte del 13 aprile.
-Sì, mi dispiace molto per Jane. Ma ormai è acqua passata, non ci possiamo fare niente.- Grace si morse le labbra per quanto stava per dire, era pur sempre cattolica dopo tutto e mentire tanto spudoratamente non era il suo forte - Spero che Dio si prenda cura della sua anima, in paradiso.-
Sua madre annuì di nuovo, stavolta in modo più cerimonioso, e si affrettò a buttare le cipolle tagliate nella padella per farle rosolare insieme alla verdura.
-Mi dispiace per lui. E per tutti voi.- esclamò alla fine, riposando gli occhi sulla figlia, persa ad esaminare i residui di cipolla sul bancone di marmo chiaro. –Cosa ti turba, Grace?- le chiese allora la donna, vedendo ben al di là della maschera che Grace, tanto ostinatamente, continuava a portare.
La rossa spostò di nuovo lo sguardo sulla madre e le fece un sorriso triste –Niente di che, mamma. E’ tutta questa storia. E’ stato un brutto anno. Tra O’laghlin che...- scosse la testa, cacciando il pensiero – E Jane che ha ucciso John il Rosso, tutto il processo, finito con la sua condanna, la sua morte e poi la squadra che si è sciolta, il capo...-
-Teresa?- si intromise Elisabeth, che aveva conosciuto Lisbon alle prove del matrimonio di Grace e Craig, prima di tutto il disastro.
Grace annuì –Teresa che è andata dai fratelli e non si sa come stia o cosa faccia...- negli occhi della giovane passò un’ombra di tristezza ma la ricacciò subito.
Elisabeth posò la mano sul braccio della figlia stringendolo dolcemente –Si sistemerà tutto.- le sussurrò.
-Lo so mamma.-
La signora Van Pelt stava per fare un’altra domanda quando suonarono alla porta e Grace ne approfittò per andare ad aprire a sua sorella e suo fratello, ovviamente in ritardo.
La sorella di Grace le somigliava molto, a parte per i capelli e gli occhi – gli uni biondi, gli altri castani – , mentre il fratello era totalmente diverso, con i suoi lineamenti marcati tutti di suo padre e i capelli scuri del nonno.
-Ehi, laureata.- la apostrofarono contemporaneamente le due pesti gemelle che le erano capitate come fratelli.
-Ce ne hai messo di tempo per arrivare in fondo, eh?- la canzonò Marie, entrando in casa e buttandosi sul primo divano che trovò.
-Oh, non la prendere in giro!- accorse in suo soccorso suo fratello Peter.
Marie sorrise con i suoi denti bianchi e perfetti –Ma lo so, Pete. Ma la sorellona può difendersi da sola, non ha bisogno di templari per la sua causa.- proferì giocosa e con un gesto della mano che alla rossa ricordò tremendamente Jane. –Allora, quand’è che si mangia?-
Wayne lanciò un’occhiata alla sorella bionda della sua ragazza con aria grata, probabilmente non aveva fatto lui la domanda per educazione ma stava morendo di fame.
-E’ quasi pronto!- gridò Elisabeth dalla cucina –Anzi, Pete perché non porti i crostini in tavola, sono già pronti.-
Peter non se lo fece ripetere due volte. Nonostante tutte le differenze che aveva con la gemella, infatti, sul cibo erano uguali. Erano due ventunenni perennemente affamati e perennemente magri. Ma in fondo era una cosa di famiglia, probabilmente, visto che lei era quella che amava mangiare un bel cheeseburger o una tortina al cioccolato e panna senza farsi problematiche sul fisico. Su questo, lei e i suoi fratelli erano gocce d’acqua.
Il giovane portò prima i crostini, poi le bruschette ed infine gli affettati e mamma Elisabeth fece tranquillamente presente a tutti di non aspettarla, ma di iniziare a mangiare.
 

********

 
Dopo pranzo Kimball e Wayne erano seduti a tavola da soli, mentre Peter e suo padre tentavano di sistemare un cavo della tv nel salotto dove avrebbero visto la partita di football, le donne di casa stavano in cucina a chiacchierare di futili cose e la voce squillante e vivace della bella Marie spiccava sulle altre due, mentre parlava eccitata della sua futura laurea in legge e di quanto fosse meraviglioso il suo campus...
-Pensi quello che penso io?- domandò d’improvviso Rigsby, smangiucchiando un pezzetto di pane rimasto sulla tovaglia.
-Sto pensando che la sorella di Grace è davvero una ragazza affascinante.- rispose lui, guardandolo con i suoi scurissimi occhi a mandorla.
Wayne mugugnò –Intendevo, non pensi anche tu che sia strano che Lisbon non ci abbia scritto ancora? Sono passate molte settimane.-
Cho alzò le spalle, con aria saputa –Avranno avuto da fare, quei due. Hanno molto da recuperare, dopo tutto.- esclamò con un leggero timbro tra il divertito e il preoccupato.
-Sì, ma non ventiquattrore su ventiquattro per… quanto? Quasi due mesi. Insomma, non è possibile.- esclamò Wayne, spalancando i suoi occhi chiari.
Un lampo fugace di malizia passò negli occhi neri dell’orientale –Non so che dirti.-
-Forse dovremmo chiamare per chiedere come stanno.-
Kimball lo guardò impassibile ma in modo decisamente eloquente. Wayne non capì e al moro toccò spiegarsi, come se non avesse già parlato abbastanza per la giornata.
-Hai sentito di aerei caduti, ultimamente?- chiese
-No.- rispose Wayne confuso.
-Navi affondate?-
-No, ma perché ... –
-Duplici omicidi di persone chiamate Axel e Dakota?-
-No, però...-
-Allora non dobbiamo chiamarli noi. Ci chiameranno loro. Ce lo hanno detto: contattateci solo in caso di estrema urgenza, altrimenti saremo noi a cercarvi.- sospirò –Non vogliono metterci in pericolo, Wayne.-
Rigsby annuì, ma non era ancora convinto.
Dopo qualche minuto di perplessità, però, aveva già trovato qualcos’altro con cui trastullarsi. –Scommetto che sono in Svizzera.- disse, sicuro di sé.
Cho sogghignò –Non scommettere contro di me. Perderai, di nuovo.-
-Stavolta sono sicurissimo.- esclamò
-Duecento dollari che sono andati dritti dritti in Svizzera.-
Cho sorrise apertamente e porse la mano a Wayne –Duecento dollari che non ci sono andati, perché Lisbon avrà sicuramente da ridire sul fatto che per entrare in Svizzera ci vogliono tanti soldi.-
Wayne era sicuro, e strinse la mano di Kimball con sicurezza –Dove dici che sono, allora?- chiese
-Italia. O Belgio, Inghilterra, Francia… questi posti qui. Anche la Spagna è una possibilità.- commentò l’orientale, con ancora il sorriso sulle labbra.
La loro diatriba territoriale fu interrotta dal grido di gioia dei due uomini di casa, che si stavano battendo il cinque proprio nel momento in cui i due si girarono a guardarli.
Avevano riparato la televisione.
-Wayne, Kimball, venite a vedere la partita?- domandò il signor Van Pelt,  con i capelli rossi arruffati per via dell’essere stato sotto il mobiletto della TV per tutto quel tempo.
I due si scambiarono un’occhiata esasperata e si alzarono dal tavolo per raggiungere Peter e Ronald sul divano del salotto.
Il salotto di casa Van Pelt, al contrario della cucina, era impostato su colori più freddi. Le pareti, coperte da carta da parati color celeste pastello con eleganti ricami bianchi, erano tappezzate di foto di famiglia incorniciate in quadri bianchi che richiamavano al mare: alcuni infatti avevano gli angoli a forma di conchiglie, o di scogli. Talvolta di pesci. Altre cornici invece riportavano raffigurazioni di angioletti in diverse posizioni e azioni.
Il divano e le poltrone, bianchi, erano cosparsi di cuscini dei colori del mare e i mobili scuri, a contrasto con l’impatto chiaro della stanza ma perfettamente integrati alla stanza, erano di stampo marinaro. E a completare l’opera c’erano alcune barchette in bottiglia e un vassoio stracolmo di  conchiglie di ogni tipo. Beh, non era da biasimare la scelta dell’arredamento di quella stanza, da cui si vedeva, proprio dietro la televisione, dalle finestre grandi e ammantate di tende azzurre e bianche, l’oceano su cui San Francisco è costruita.
La famiglia Van Pelt, tra l’altro, viveva in un quartiere residenziale molto bello e ricco, fatto di casette bianche tutte composte di un grande giardino, un cortiletto interno e spiaggia. Una specie di villaggio, da poco costruito proprio accanto alla bella Frisco.
-Adoro questa stanza...- esclamò Marie, entrando in salotto con un vassoio con i caffè -... E’ decisamente la mia preferita nella casa.-
Grace entrò in quel momento sorseggiando la sua camomilla –Concordo, anche se a me piace moltissimo la camera di mamma e papà.-
Peter si tuffò su una poltrona, sistemandosi per bene –Io preferisco la stanza di Grace, anche se magai cambierei il colore...- disse, rabbrividendo al solo pensiero della camera color rosa carne della sorella maggiore.
-Io ho sempre amato la cucina.- esclamò invece il padre di Grace, facendo ridere sua moglie, appena entrata nella stanza per la partita.
-Non ne avevamo dubbi, Ron.- gli disse, sedendosi accanto a lui.
Wayne e Kimball si sedettero sul divano accanto al signor Van Pelt, mentre Grace si sedette per terra, alle gambe di Wayne, e Marie sulla poltrona opposta a quella del gemello.
 

*********

 
-Così, Kimball, tu alleni la squadra di baseball di San Francisco.- esordì Ronald, quando anche la partita fu finita e l’ora di cena si avvicinava.
Cho annuì –Non è proprio la prima squadra, però sì.- disse
-E’ tanto per uno che ha appena iniziato.- si complimentò il padre di Grace
L’orientale annuì di nuovo, adesso sorridendo. –Un tempo ero molto bravo, ma decisi per la polizia.- spiegò.
-E dimmi, esattamente in che squadra giocavi?-
Kim stava per rispondere, quando il suo cellulare squillò nella sua tasca. Immediatamente gli occhi di Grace e Wayne gli si puntarono addosso, mentre lui guardava lo schermo del cellulare impassibile.
Si scusò e si alzò per rispondere.
-Kimball Cho.- rispose.
Ascoltò per diversi minuti, prima di riattaccare dicendo che avrebbe provveduto.
A quel punto, tornò al tavolo e guardò prima Grace e poi Wayne, i quali capirono subito. Infatti, dopo aver risposto cortesemente alle ultime domande del padre di Grace, i tre si accomiatarono, giustificandosi dicendo che avevano tante cose da fare.
Una volta fuori dalla portata della rumorosa famiglia Van Pelt, Cho svoltò verso l’autostrada prendendo la via per Sacramento. Si stava facendo buio e sulla strada c’era meno gente del solito, probabilmente per via delle vacanze in cui meno persone facevano su e giù tra le città per lavorare, ma, piuttosto, se ne stavano a Malibù sotto il sole.
-Che è successo?- chiese Rigsby, dopo che non ce la fece più ad aspettare.
-Era Hightower.- rispose Kim, guardando la strada come volesse attraversarla in un secondo con un solo sguardo.
-E...- lo incitarono Grace e Wayne.
-Sa che Patrick è evaso. Sa che non è mai stato giustiziato. Vuole parlare con noi, non mi aspetterei buone nuove.-
Il tragitto da Frisco a Sacramento fu velocizzato dal confabulare dei tre, che cercavano di mettersi il meglio possibile d’accordo per dare una versione dei fatti abbastanza valida per poter togliere dai guai sia loro che Teresa. Per Jane non potevano fare niente, ovviamente. Lui sarebbe probabilmente diventato un ricercato di stato, ma in fondo era praticamente scomparso e nessuno avrebbe mai potuto trovarli, per quanto li cercassero.
Sia Kim, Wayne e Grace che Teresa, però avevano un falso alibi da mostrare per la notte dell’evasione e sicuramente sarebbero riusciti a cavarsela.
Quando arrivarono al CBI, gli uffici erano già quasi chiusi. Attraversare di nuovo il loro bullpen scatenò in tutti e tre emozioni contrastanti: rabbia, nostalgia, tristezza, malinconia, felicità, emozione...
Un agente dai capelli rosso scuro stava chino alla scrivania di Jane mentre un uomo tarchiato era al posto di Lisbon nel suo ufficio. Grace ebbe l’impulso di dire all’agente dai capelli rossi di togliersi dalla scrivania del loro amico, ma si trattenne, ricordandosi che loro lì dentro non avevano più niente di proprietà. Non la lavagna, non il tavolo lungo o la televisione, non il divano di pelle o le scrivanie, non i computer, non i file che un tempo loro sfogliavano. Niente era rimasto davvero loro, a parte i casi chiusi, su cui erano stampati in modo incorreggibile e indelebile tutti i loro nomi.
Arrivarono in silenzio all’ufficio di Madeline e bussarono piano.
-Avanti.- li invitò la donna. –Buonasera. Grace, Kimball, Wayne.- salutò, con un mezzo sorriso.
-Madeline.- salutarono loro, con un po’ di acredine.
Hightower li guardò un po’, poi si alzò dalla sedia e si avvicinò loro, appoggiandosi alla scrivania. –So che Jane è evaso. E suppongo anche che voi e l’agente Lisbon l’abbiate aiutato, perché da dove era rinchiuso è praticamente impossibile evadere senza aiuto di qualcuno.-
I tre rimasero in silenzio.
-So anche che probabilmente se vi interrogassi o vi richiedessi un alibi per quella notte avreste delle prove di ferro che attesterebbero che non eravate al Sacramento State Prison nella sezione del “miglio”.-
Grace, Wayne e Kim non osarono scambiarsi un’occhiata ma avrebbero tanto voluto farlo, perché non riuscivano a capire dove il loro ex-capo volesse arrivare.
-Sedetevi.- disse gentilmente Madeline, indicando le poltrone e tornando dietro alla scrivania.
I tre obbedirono.
-Allora, come agente capo di un intero dipartimento, temo di dovervi dire che è mio dovere organizzare le ricerche di Patrick ed è mio dovere arrestare chiunque provi a coprirlo, in quanto detenuto di massima sicurezza...- si lasciò sfuggire uno sbuffo contrariato -... pertanto se voi mi diceste che state proteggendo Patrick Jane e, suppongo, Teresa Lisbon, dovrei prendere seri provvedimenti contro di voi.-
Poi, Kimball capì.
-Non abbiamo nessuna intenzione di dirlo, signora.- disse
-Benissimo. Quindi suppongo che il signor Jane e la signorina Lisbon non siano in giro per gli Stati Uniti, o peggio, per il mondo sotto falso nome. Non è così, forse?-
Kimball nascose un sorriso –Proprio così.-
Madeline sorrise –Fantastico allora. Ritengo che tutto ciò sia solo un grosso errore. Ma, nel caso non fosse un errore e i signori Jane e Lisbon, che non sono in fuga, venissero trovati o riconosciuti, non potrò fare a meno di arrestare entrambi. Ma, ovviamente, è tutto ipotetico.-
-Ovviamente.- rispose Grace, che aveva capito, subito seguita da Wayne che si affrettò ad aggiungere un “certamente” pieno di enfasi.
-Per tanto, se per ipotesi, qualcuno li avvistasse, io non informerei delle persone che stanno aiutando gli ipotetici fuggitivi, giusto?-
-Giustissimo.- risposero in coro.
-Prima di tutto perché non ci sono fuggitivi, e poi perché voi non state aiutando questi ipotetici Jane e Lisbon in fuga.-
-Già.- rispose Wayne, tanto eccitato da riuscire difficilmente a nasconderlo.
-Quindi se vi dicessi che la polizia sta indagando su un certo Axel Simmons e una certa Dakota McKinley, voi non sapete assolutamente dirmi chi siano e, soprattutto, siete totalmente certi che non si tratti degli ipotetici Jane e Lisbon.-
-Assolutamente no.- rispose Cho, pronto.
-D’accordo. Questo è quanto. Mi raccomando, state attenti. Vi avviserò se ci fossero delle novità, mi dispiace aver tirato fuori una storia tanto dolorosa.-
E così dicendo, Hightower li liquidò con un sorriso complice. Non c’era dubbio, quella donna era un vero genio ma era una brava persona e sapeva riconoscere chi fosse nel giusto e chi nello sbagliato, per quanto dovesse seguire le regole che il suo lavoro le imponeva.
E così, in parte sollevati e in parte terrorizzati, i tre si ridiressero verso San Francisco, per decidere cosa fare di quanto avevano scoperto. 






Dice l'autrice:
Hola, como estas? Salve a tutti e a tutte, miei carissimi lettori, sono tornata fresca e pimpante, pronta pronta per ricominciare ad assillarvi con le mie storie su The Mentalist. E siccome sono una che fa le cose con rigore, eccomi con il capitolo di Segno del Destino. Per vostra (e mia) sfortuna il capitolo di Turning Time non è ancora completato, ahimè, spero che tutti vi ricordiate di quella storia quanto basta perché non abbia messo ancora le ragnatele e magari non le metta da qui a quando aggiornerò...
Comunque sia, spero che vi piaccia questo capitolo dedicato a quanto succede in quel di California, dovevo fare un  piccolo stacco tra i piccioncini che se la godono e gli altri che invece sono ancora nella vita reale. :)
Che ne pensate? Insomma, fatemi sapere!!! Vi voglio bene, ragazzi!!
Baci e abbracci,

Sasy

   
 
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