Il
cervello di Tom venne martellato da un rumore
che aveva imparato a conoscere.
Era un BIP che si ripeteva con costanza.
Quel rumore lo rassicurò: era il suo cuore. Era
ancora vivo.
Non riusciva a respirare bene dal naso, lo sentiva
come tappato e aveva dolori in varie parti del corpo.
Il fianco sinistro gli doleva in maniera infernale
e sentiva la gola pulsare.
Sospirò, prima di aprire gli occhi.
La luce lo costrinse a ripetere l’azione più
volte, e quando si abituò vide che era su un lettino.
La stanza attorno a lui aveva le pareti azzurre e
il soffitto era bianco. Nel comodino alla sua destra c’era un
vaso di fiori e
il suo cellulare, e accanto al suo letto c’era una sedia.
Tutto aveva l’aria di un ospedale, e Tom ricordava
bene in che situazione si era trovato in quello stato.
Nonostante i dolori fece per prendere il
cellulare, quando la porta si aprì.
Simone entrò con un caffè in mano e quando lo
vide
sveglio e, di conseguenza, vivo, spalancò gli occhi.
Chiuse velocemente la porta e si precipitò su di
lui.
« Tom. » sussurrò.
Tom fu estremamente felice di vederla.
« Ciao, mamma. »
Simone poggiò il caffè nel comodino e lo
guardò in
viso.
« Come ti senti? »
« Uno schianto, se capisci cosa intendo. » disse
con voce rauca.
La madre lo guardò ancora e poi scosse la testa,
socchiudendo gli occhi.
« Perché mi fai questo, Tom? Stavo per perderti.
»
Tom le accarezzò una guancia.
« Mi dispiace, mamma. »
Simone sospirò.
« Non fa niente, l’importante è che tu
ora sia
sano e salvo. »
Tom deglutì.
« Da quanto tempo sono su questo letto? »
« Due giorni. »
« Quindi ero in... coma? »
« Sì, Tom. »
« Georg sta bene? »
La donna annuì con la testa.
Tom non aggiunse altro.
« Sai, stare in coma è davvero strano. »
Simone riprese il caffè, ma non lo bevve.
« In che senso? »
Tom fece spallucce.
« Non mi faceva male niente, al contrario di
adesso. »
Simone sorrise e solo allora sorseggiò il caffè.
« Hai visto qualcosa? Molto dicono che vedi una
luce e che ti senti felice. »
Tom ripensò a tutto quello che aveva visto e
vissuto.
Non era solo coma.
Tom aveva avuto un’altra possibilità.
Voleva sfruttarla al meglio, senza commettere
alcun errore.
« Sì, ho visto tante cose. »
« Anche la luce? » continuò Simone,
sorseggiando
ancora il caffè.
Tom annuì con la testa.
« E ti sentivi felice? »
Tom annuì di nuovo.
Simone non disse altro e si decise a bere il suo
caffè.
Lui la osservava.
Gli sembrava di non averla mai vista davvero come
in quegli istanti.
La forma del suo viso, i contorni dei suoi occhi,
le rughe che iniziavano a farsi strada sul suo viso.
Non aveva mai dato molta importanza a tutto
quello.
« Ho visto papà. » mormorò.
Simone spostò lo sguardo dal caffè al figlio,
perplessa.
Tom le sorrise fiducioso.
« Ha detto che sei sempre più bella. »
La casa aveva un aspetto diverso.
Era come se mancasse qualcosa.
E Tom sapeva cosa c’era che non andava.
Mancava Norah.
«
Come ti senti? »
gli domandò Simone.
« Bene, grazie. » rispose, con un sorriso.
Osservò ancora un po’ il salone, e poi
salì al
piano di sopra.
Gordon entrò dopo aver chiuso la macchina, e lo
seguì con lo sguardo.
Aprendo la porta di camera sua, Tom si sorprese di
vedere i suoi oggetti in disordine, proprio come li aveva lasciati lui
quell’estate.
L’armadio era aperto e vicino c’era una valigia,
con dentro alcuni suoi vestiti.
Si voltò e vide Simone alle sue spalle, titubante.
« Dove vado? » domandò, sapendo in cuor
suo quale
fosse la risposta.
Gordon comparve sulle scale, e Simone lo guardò
intimorita.
« Non gliel’hai detto? »
La donna aprì la bocca e balbettò qualcosa di
insensato.
« Volevo farlo, ma ogni momento mi sembrava
sbagliato. »
« Dovevi dirglielo, Simone! »
Lei voleva rispondere, ma Tom provò un impulso di
rabbia verso Gordon.
« Hey, finitela. » sbottò, tenendo a
freno la
lingua. Le parole del padre echeggiavano ancora nella sua testa come un
allarme. « Non è successo niente, ma adesso ditemi
dove devo andare. Perché so
che volete mandarmi da qualche parte a causa del mio comportamento.
»
Simone inspirò a fondo, gonfiando il petto in modo
da dargli un’aria più autoritaria.
Tuttavia, la tranquillità di Tom distrusse ogni
sua difensiva, e sgonfiò il petto.
« Ho chiamato zia Margaret, a Portland. »
mormorò.
« Mi ha detto che Kay sta frequentando un college dove si
studia e ci si
diverte, e che lei si trova molto bene. »
« Devo andare lì? »
Simone abbassò lo sguardo e annuì.
Gordon le si affiancò, temendo una brusca reazione
da parte di Tom.
« Ok, va bene. »
La madre sollevò di colpo lo sguardo, stupita.
« Davvero? »
Tom annuì.
« Sì, lo capisco. Devo responsabilizzarmi,
insomma. »
Gordon e Simone si guardarono, perplessi.
« Tom, sei sicuro di stare bene? »
azzardò Gordon.
Il ragazzo annuì con la testa.
«
Fra quanto parto? »
Simone deglutì.
« Fra due giorni. »
Tom sapeva già tutto, e Simone
stava solo contribuendo a confermare quello che già sapeva.
Più Simone confermava le sue
teorie, più Tom si sentiva sollevato.
Annuì con la testa, facendo
segno di aver capito, e si chiuse in camera.
Non vedeva l’ora di tornare a
Portland, e sorrise.
Georg
non prese la notizia con
ottimismo, ma Tom cercò di spiegargli che era per il suo
bene e che non sarebbe
cambiato niente.
Tuttavia, l’amico non sembrava
accettare la soluzione trovata da Simone per il comportamento del
figlio.
« Posso parlarci io. » disse,
fumando con ansia una sigaretta.
Tom scosse la testa.
« Lei e Gordon sono
irremovibili. »
« Da quando ti importa qualcosa
di Gordon? » sbottò l’amico.
Tom non rispose.
Non poteva di certo dirgli cosa
aveva passato. Anche se Georg era il suo migliore amico, avrebbe potuto
chiamare il manicomio e far rinchiudere Tom lì dentro per il
resto della vita.
Fece spallucce.
Georg scosse la testa.
« Il coma ti ha rincoglionito il
cervello. »
« Probabile. »
Georg fece un altro tiro e poi
espirò il fumo lentamente, osservandolo disperdersi
nell’aria.
« Quando parti? »
« Fra due giorni. »
« Così presto? »
Tom annuì con la testa. Lui non
aveva accettato la sigaretta.
L’amico non disse niente.
« Verrai in aeroporto? » gli
domandò.
Georg lo guardò con la coda
dell’occhio e poi fece un altro tiro, serio.
« Allora? »
« Secondo te mi perdo la tua
partenza verso Fanculopoli? »
Tom sorrise, rassicurato nel
vedere il Georg di sempre.
Gli batté un colpo sulla spalla
e rise.
Restarono insieme per un’altra
ora, poi Tom tornò a casa sua.
Simone aveva preparato la cena.
Ricordava che Georg era andato a
casa sua per convincerla a lasciar perdere quell’assurda idea
del college, ma
che la situazione era precipitata con l’arrivo di Gordon, e
Tom quella sera non
aveva cenato.
Restò fermo con una mano poggiata
sul passamano della scala e lo sguardo rivolto verso la tavola.
Gordon poggiò la saliera e lo
guardò.
Alle sue spalle uscì Simone con
una pentola bollente.
« Tom, vieni a mangiare con noi?
» gli domandò l’uomo.
Simone guardò prima Gordon poi
Tom.
In una situazione normale, Tom
avrebbe ignorato la domanda di Gordon e sarebbe salito al piano di
sopra
sbattendo in piedi.
Quella volta, invece, accettò.
« Ok. »
Si sedette a tavola con loro,
senza commentare i comportamenti di Gordon e senza attaccarlo per la
minima
scemenza.
Scoprì che Gordon riusciva ad
essere un tipo simpatico e per niente rompipalle o invadente, e che lui
e sua
madre si divertivano davvero tanto insieme, e si capivano
immediatamente.
Aiutò Simone a sparecchiare e
poi si chiuse in camera sua.
Non sapeva se tutto quello che
gli era successo fosse stato un sogno o un brutto scherzo del coma, ma
qualunque cosa fosse stata, gli stava sicuramente cambiando la vita e
gli stava
facendo aprire gli occhi su cose e persone che prima non avrebbe mai
voluto
incrociare.
Si cambiò e si mise a letto,
spegnendo la luce di camera sua.
Dal corridoio sentì i passi di
qualcuno, e istintivamente chiuse gli occhi.
Poco dopo, Simone aprì la porta.
Tom era coricato e le dava le
spalle. Dormiva senza maglietta ma aveva un lenzuolo che lo copriva
fino a metà
petto; la finestra di camera sua era aperta e la luce della Luna
illuminava
appena la camera.
Simone fece qualche passo
avanti, incerta.
Osservò la stanza, e notò quanto
era cambiata negli ultimi anni.
Si avvicinò poi al letto del
figlio, osservandolo.
Aveva gli occhi chiusi, e
respirava regolarmente.
Simone pensò a quando aveva
saputo dell’incidente.
Quando Tom era entrato in coma
si era sentita una pessima madre.
Come aveva potuto permettere che
suo figlio facesse quella fine?
Non portava rispetto a nessuno,
nemmeno a sua madre, come poteva pretendere di andare avanti in quel
mondo che
non guardava in faccia nessuno?
Portland sembrava la soluzione
giusta, ma come avrebbe fatto a passare tutti quei mesi senza Tom?
Senza suo
figlio?
Quando Jörg
era morto, le era crollato il mondo addosso.
Crescere Tom sembrava un’impresa impossibile
portandosi dentro un peso come quello. Suo marito le mancava ogni
giorno di
più, e sapeva che Gordon non avrebbe mai preso il suo posto,
ma sperava che
potesse aiutarla a crescere suo figlio.
Tuttavia, proprio suo figlio Tom non era d’accordo
con l’entrata di un nuovo membro.
Gli
accarezzò il viso,
pensierosa.
« Mi mancherai questi mesi, Tom.
» mormorò. « Mi mancherà
sentire la tua musica alta e vederti indossare quelle
enormi magliette. »
Salì ad accarezzargli le
treccine incarnate.
« Mi mancherà sentire la tua
voce, anche se stavamo semplicemente discutendo. E probabilmente mi
mancherà
anche sentirti litigare con Gordon. »
Gli accarezzò un orecchio. Jörg
lo faceva sempre quando era piccolo.
Tom si trattenne dal voltarsi per guardare la
madre in faccia.
La sentì tirare su col naso.
« Vorrei che tu e lui poteste andare d’accordo,
almeno un po’. Non dico che debba prendere il posto di tuo
padre, non l’ho mai
pensato. E so che ti manca, perché manca anche a me e tu non
hai idea di
quanto. » si fermò e stette a guardarlo.
Poi si alzò e tornò alla porta, ma prima di
uscire
si voltò di nuovo verso il figlio.
« So che non ti piace sentirtelo dire, Tom. Ma gli
somigli davvero tanto. »
Tom chiuse ancora di più gli occhi, cercando di
non muoversi.
Simone sospirò.
Aprì la porta e uscì.
Assicuratosi di essere solo, Tom si voltò verso la
porta.
Gli bruciavano gli occhi.
Si mise a sedere, sentendo un groppo in gola, ma
non pianse.
Alzò istintivamente lo sguardo verso una mensola,
e vide la casetta dei Lego.
Sorrise, rimettendosi poi sotto le coperte.
Quei
due giorni passarono veloci come fulmini, e
Tom si trovò catapultato all’aeroporto.
Simone era in ansia più di lui, e Gordon leggeva
un giornale.
Lui si guardava attorno, aspettando Georg.
La madre controllava insistentemente il gate per
vedere se Tom doveva già andare, e non stava un attimo ferma.
« Io vado in bagno. » disse il ragazzo, alzandosi.
« E se aprono il gate? » domandò Simone,
ansiosa.
Tom la guardò perplesso.
« Ci metto due secondi, non preoccuparti. »
Si allontanò mentre Gordon faceva sedere Simone
per calmarsi.
Camminando
nell’aeroporto, Tom
vedeva gente con enormi bagagli che si affrettava per raggiungere le
uscite,
mentre altre persone camminavano in tranquillità e qualcuno
faceva addirittura
colazione.
Entrò in bagno e ci rimase
qualche minuto, controllandosi ripetutamente allo specchio.
Sapeva che sua madre sarebbe
entrata in panico non vedendolo ritornare, quindi uscì
qualche minuto dopo.
Il suo volo era stato
annunciato, e lo dedusse dal fatto che sia Simone che Gordon si fossero
alzati
e stringevano le sue valigie.
La madre gli corse incontro,
agitata.
« Hanno annunciato il volo, sbrigati!
»
La coda del gate era già gremita
di gente, e Tom prese una valigia, mentre l’altra era tirata
da Gordon.
Si avvicinarono, finché Tom si
sentì chiamare, e si voltò.
Georg stava correndo verso di
lui, i capelli stranamente gonfi e una faccia assonnata.
Tom gli sorrise, e l’amico gli
si fermò davanti.
« Ce l’hai fatta a venire. »
« Secondo te potevo perdermi la
tua partenza? Andiamo, non scherzare. »
Il primo sorrise, e Georg gli
poggiò una mano sulla spalla, col fiatone.
« Non fare troppo lo stronzo laggiù,
e soprattutto ricordati di me quando vedrai una bella ragazza.
»
Annuì con la testa, mentre
Gordon e Simone facevano finta di non sentire, anche se la madre era in
ansia
più di Tom.
Lui e Georg si abbracciarono il
tanto che bastava per scambiarsi un “a presto”, poi
l’amico si allontanò.
Simone fece voltare il figlio in
modo da guardarla negli occhi. Sarebbe scoppiata a piangere da un
momento
all’altro.
« Io non so che cosa mi sia
preso quando ho deciso di mandarti lì, perché
improvvisamente mi sembra tutto
un’assurdità. » confessò.
Tom rise.
« Stai tranquilla, andrà tutto
bene. »
Lei annuì, anche se era poco
convinta.
Lo abbracciò, stringendolo a sé.
« Chiamami se ti serve qualcosa,
oppure se vuoi semplicemente sentirmi, ok? »
« Lo farò. »
Si staccò dalla madre iniziando
a sentire una leggera ansia mentre la fila diminuiva, e si
voltò verso Gordon.
L’aveva odiato fin dal primo
momento che l’aveva visto, ma in quei momenti non gli
sembrava più il cattivo
della situazione.
Lo vedeva impacciato, perché non
sapeva come comportarsi.
« Prenditi cura della mamma
mentre sto via, ok? »
Lui annuì abbozzando un sorriso.
« So che l’avresti fatto anche
se non te l’avessi detto io, ma ci tenevo a ricordartelo.
»
Gordon annuì di nuovo,
allargando il sorriso.
Gli porse la valigia, e Tom la
prese.
Fece per voltarsi, ma in uno
scatto improvviso di follia guardò ancora un attimo Gordon.
Sapeva che non avrebbe mai
rimpiazzato suo padre, ma poteva essere una specie di fratello maggiore
per
lui.
Allungò un braccio e lo passò attorno
alle sue spalle, abbracciandolo con il dovuto distacco.
Simone non credette ai suoi
occhi, tantomeno Georg e Gordon stesso, che gli batté due
colpetti sulle
spalle.
Tom si allontanò velocemente e
si infilò nella coda.
Quando gli controllarono il biglietto
e passò oltre, si voltò verso i tre che non erano
ancora andati via.
Sorrisero tutti quanti e lo
salutarono.
Ricambiò il sorriso e poi si
avviò nel tunnel che portava all’aereo.
Portland lo aspettava.
“Benvenuti
a Portland – Oregon”
Tom fu estremamente sollevato nel leggere quella
scritta, quando uscì dall’aereo.
Attese impaziente i suoi bagagli e poi si immerse
nel fiume di gente che usciva dagli arrivi.
C’era un sacco di gente che aspettava i propri
parenti o amici, e fra quella miriade di teste vide sbucare un cartello
con
scritto “Tom – LA”.
Riconobbe Zio Victor, e gli andò incontro
sorridente.
« Ciao zio! » lo salutò con un abbraccio
alla
quale l’uomo restò sorpreso.
« Accidenti, quanto sei cresciuto! »
esclamò. «
Tua madre mi aveva detto che eri cambiato, ma non pensavo
così tanto. »
Il ragazzo fece spallucce, e lo zio ritirò via il
cartello.
« Dammi una valigia, zia Margaret ci aspetta in
macchina. »
La jeep nera di zio Victor era parcheggiata
esattamente dove Tom la ricordava, e subito zia Margaret
uscì dalla vettura.
« Ciao zia. » la salutò Tom.
La donna lo abbracciò forte, stringendolo a sé
per
qualche istante.
« Sono così felice di rivederti. »
mugolò.
Tom sorrise.
« Anch’io zia, mi sei mancata. »
Zio Victor chiuse il cofano dell’auto con un
tonfo.
« E’ tutto pronto, possiamo andare! »
esordì.
Zia Margaret mollò suo nipote e gli aprì lo
sportello dei sedili posteriori per farlo sedere.
Successivamente presero posto anche lei e zio
Victor.
« Come sta tua madre? » domandò
quest’ultimo.
« Era un po’ in ansia, ma le ho detto che
andrà
tutto bene. »
« E Gordon? »
« Sta bene anche lui. »
Lasciarono l’aeroporto e si immersero dentro
Portland.
Tom si sentiva stranamente a casa.
Era contento di essere tornato là e di rivedere
gli zii.
Parlò con loro del viaggio, di quegli ultimi 10
anni, di quante cose fossero cambiate e man mano che il tempo passava
non
vedeva l’ora di vedere Kay.
Zio Victor parcheggiò di fronte alla casa, e Tom
ne riconobbe immediatamente le pareti esterne bianche e il sentiero in
ciottoli.
La zia lo condusse dentro, e chiamò la figlia a
gran voce.
« Kay ha già messo in ordine la tua stanza, quindi
puoi sistemarti come meglio ti pare. »
Entrarono e la donna si sfilò la giacca di dosso,
mentre zio Victor portava le valigie di Tom dentro casa.
« So che non sei vecchio, ma posso darti una mano?
»
Questo lo guardò perplesso, ma poi sorrise e gli
lasciò prendere le valigie.
« La tua stanza è al piano di sopra. »
gli disse.
Tom annuì con la testa e salì le scale,
già
sapendo quale fosse la sua stanza.
Aprì la porta e portò le valigie dentro la
camera,
guardandosi attorno.
La ricordava ancora in ogni minimo dettaglio e
ricordava ancora i pochi momenti che aveva vissuto là dentro.
Il massaggio di Kay, la notte che aveva dormito
con Norah.
Si domandò se mai l’avrebbe rivista, e se mai si
sarebbero scambiati una singola parola. Gli andava bene anche un
“Ciao” nei
corridoi.
Ma poi pensò a quello che gli aveva detto suo
padre riguardo la scommessa e quella cosa strana dell’essersi
messo in mezzo, e
decise di starsene per le sue e di non interferire nella vita di Norah.
Fece per uscire dalla camera quando la porta della
stanza accanto alla sua si aprì e vide uscire Kay.
I suoi capelli rossi erano uguali a come li
ricordava e i suoi occhi risultavano di un verde acceso.
Rimase perplessa vedendolo lì davanti a sé, ma
sorrise ugualmente.
« Tom? »
Lui gonfiò il petto.
« In carne ed ossa, Kay. »
La cugina allargò il sorriso e lo abbracciò.
Tom la strinse a sé, odorandole i capelli.
Kay gli era mancata tantissimo, quasi fossero
passati anni.
Per lei erano davvero passati tanti anni, ma per
Tom no. Se la ricordava ancora bene, e sapeva a che cosa andava
incontro.
« Come stai? » le domandò.
« Bene, grazie. E tu? Tutto ok dopo l’incidente?
»
« Sì, sto alla grande. Il tuo ginocchio?
»
Kay restò sorpresa nel vedere che Tom sapeva del
suo incidente.
« Sta bene, grazie. Ma tu come fai a sapere del
mio ginocchio? »
Il ragazzo fece spallucce.
« Sono Mr Onnisciente. »
La cugina scoppiò a ridere.
« Kay! » strillò zia Margaret.
« Che c’è? »
« Puoi venire un attimo? Mi serve il tuo aiuto. »
« Arrivo! »
Si voltò verso Tom, e lui le fece segno di andare.
« Fai pure, non preoccuparti. »
Kay si avvicinò alle scale e scese i primi
gradini, poi si fermò e si voltò verso il cugino,
con un mezzo sorriso.
« Sono contenta di vederti. »
Tom ricambiò il sorriso e la guardò scendere le
scale.
« Sono contento anch’io. »
Cenò con loro in una tranquillità surreale, che
non viveva da anni, e quella notte non riuscì a dormire
dall’eccitazione che
provava nel sapere che sarebbe tornato al college.
Sperava di rivedere Nicco, ma l’ansia più grande
comprendeva Norah.
Che cosa avrebbe fatto rivedendola? E soprattutto,
rivedendola accanto a David?
Sarebbe riuscito a sopportare l’idea di non averla
più con sé?
Di non poterla più guardare negli occhi?
Abbracciarla? Baciarla?
Di non poterla più amare?
Il mattino seguente si sentiva uno schifo.
Zia Margaret aveva ansia per cinquanta persone, invece
zio Victor era avvolto da una tranquillità paralizzante,
mentre leggeva il
giornale e beveva il suo caffè.
Tom
fece colazione con loro e
una Kay taciturna, indaffarata con gli ultimi preparativi.
Zio Victor preparò la macchina
con le loro valige, ma zia Margaret li trattenne qualche minuto in
più per il
suo sermone che non poteva mancare.
Trattò Tom come se fosse suo
figlio, assicurandosi che avesse ascoltato ogni singola parola di
ciò che aveva
detto, e solo dopo esserne certa, li lasciò andare entrambi.
Zio Victor guidava tranquillo e
allegro, mentre alla radio passavano una vecchia canzone che
probabilmente a
lui riportava ricordi piacevoli.
Tom guardava Portland.
La guardava ammaliato,
desideroso di tornare al college, di rivedere quei posti, di passare
ancora del
tempo lì e allo stesso tempo terrorizzato da quello che non
sapeva poteva
accadere.
Conosceva solo una parte degli
avvenimenti, e non sapeva come sarebbero andate le cose senza Norah.
Riconobbe immediatamente la
strada che portava alla scuola, e si mise bene sul sedile.
Non aveva avuto il coraggio di
indossare le cuffie, perdendosi così ogni minimo rumore
legato a quella città.
Sbucarono davanti al cancello, e
lo zio parcheggiò proprio lì accanto.
Tom ricordava ancora quando era
rimasto bloccato con Norah là fuori, a causa del coprifuoco.
Pensandoci bene, non aveva fatto
altro che rivolgere i suoi pensieri a lei.
Si rabbuiò ripensando alla sua
stupida mania di egoismo quando parlava di Los Angeles, trascurando
tutto
quello che di bello Portland gli aveva dato.
Zio Victor richiamò la sua
attenzione.
Tom prese le sue valigie e poi
lo salutò.
Kay ci mise un po’ più tempo di
lui, ma non la aspettò.
Varcò la soglia del cancello da
solo e si fermò a metà strada.
Il paesaggio era lo stesso di
sempre.
Il vento gli arrivò dritto in
viso, facendolo sorridere impercettibilmente.
Si sentiva a casa.
Vedendo
che la sua casetta era
la stessa di sempre, Tom non perse tempo cercandola perché
sapeva esattamente
dove si trovasse.
Camminò sicuro fra quelle abitazioni
così uguali fra di loro e lanciò uno sguardo a
quella di Norah quando ci passò
davanti.
Aveva passato così tanti momenti
con lei dentro quella casetta, che dimenticarli era impossibile.
Con un sospirò trovò la sua, la
128.
Salì i gradini con le valigie e
la borsa in spalla e poi la aprì.
Odorava di nuovo, ma vedendola
sentì il calore che, in qualche modo, gli era mancato.
Portò dentro le valigie fino
alla sua camera, o almeno fino a quella che era stata la sua camera e
provò un
senso di nostalgia vedendo che l’altra stanza era
completamente vuota.
Decise di iniziare a disfare le
valigie e così fece, sistemandosi secondo una logica
pressoché fattibile. Non
ricordava di aver portato così tante cose, ma evidentemente
dalla precedente
esperienza aveva notato che gli serviva decisamente più
roba, vestiario in
primis.
Aveva svuotato già la prima
valigia da un pezzo, quando sentì qualcuno trafficare con la
porta d’ingresso.
« Accidenti! »
Avrebbe riconosciuto quella voce
dappertutto, e rimase pietrificato con una felpa in mano.
« Queste porte sono ogni anno
peggio! »
Lasciò cadere la maglia sul
letto e si sporse verso il salotto.
Riconobbe la chioma riccia e
castana e la carnagione scura come caratteristiche di Nicco, il quale
fissò Tom
perplesso.
Questo gli puntò un dito contro.
« Nicco? »
Il riccio arricciò le labbra in
avanti e imitò il suo gesto.
« E tu sei, amico? »
Tom rise, amando sentirlo
parlare di nuovo in quel modo e gli si avvicinò.
« Io sono Tom, piacere di
conoscerti. »
Gli porse la mano e Nicco la
strinse, mollando un bagaglio.
« Sei il mio coinquilino, amico?
»
Tom annuì con la testa.
« Figo! »
« E sono californiano.
Precisamente di Los Angeles. Scommetto che ti piace da matti, eh?
»
Nicco sbiancò. Sempre
presupponendo che la sua carnagione riuscisse a diventare almeno un
po’ più
chiara. In ogni caso sgranò gli occhi, pietrificato.
Fece un lungo respiro e poi
poggiò una mano sulla spalla di Tom.
« Amico, a primo impatto mi
piaci. E di solito io non sbaglio mai sulle persone. »
Tom sorrise.
« Bene, perché anche io non
sbaglio mai, e sono sicuro che diventeremo buoni amici. »
Nicco ricambiò il sorriso, già
nel suo mondo di sogni californiani.
« Ti do una mano con le valigie.
»
Tom aiutò Nicco a sistemarsi
nella stanza libera.
Gli raccontò del perché era a
Portland e si assicurò che fosse il Nicco di sempre
stuzzicandolo riguardo Los
Angeles, ma senza menzionargli la sua reputazione da sciupafemmine.
Non era lo stesso Tom.
Era passata un’eternità da quei
momenti in cui due belle e sode tette lo facevano andare fuori di testa.
Il
mattino seguente si presentò
con una frase ben precisa: primo giorno di scuola.
Tom sapeva come funzionava,
quindi non aveva bisogno né di Nicco né di Kay.
Trovò l’orario appeso
all’armadietto e lo seguì ricordandosi dove
fossero tutte le aule.
Il
risultato fu che non si trovò con un enorme mal
di testa a perseguitarlo come la prima volta, ed entrò in
mensa con una
tranquillità innaturale.
Fece la fila con il suo vassoio e fu ben lieto di
non avere gli sguardi altrui addosso; era un perfetto sconosciuto.
Nessuno lo conosceva come il nuovo fidanzato di
Norah Davis, o il nemico giurato di David Blakelee e tantomeno come il
compagno
di stanza di Nicholas “Amico” Ryan, o il cugino di
Kay Miller.
Era Tom e basta.
Nessuno sapeva che veniva da Los Angeles, nessuno
sapeva che era orfano di padre, nessuno sapeva che aveva avuto una
seconda
possibilità.
Vide Kay seduta in un tavolo da sola e decise di
andare a sedersi con lei.
« Buongiorno. » la salutò.
« Hey, ciao. Come stai? »
Tom fece spallucce.
« Non mi lamento. E tu? »
« Idem. » sospirò. «
Com’è andato il primo giorno
di scuola? »
« Rientra nella normalità, fortunatamente.
»
« Hai fatto amicizia con qualcuno? »
« Escluso Nicco, il mio compagno di stanza? Nah,
con nessuno. Non ho avuto modo di parlare con i miei compagni di
classe. »
Kay non aggiunse altro e continuò a mangiare.
Tom iniziò il suo pasto con disinteresse, ansioso
di tornare in casetta e sentire Georg al telefono.
« Ti troverai bene, vedrai. » disse Kay,
catturando di nuovo la sua attenzione. « All’inizio
potrai sentirti spaesato,
abbandonato al mondo, » ironizzo. « ma vedrai che
con l’andare del tempo ti
troverai a tuo agio e ti sentirai un po’ a casa. »
Tom sollevò lo sguardo con un mezzo sorriso.
Guardò Kay che mangiava davanti a lui e pensò a
tutto quello che aveva passato. A tutto quello che lui e lei avevano
vissuto
nella sua precedente esperienza.
Spostò lo sguardo oltre le spalle della cugina e
il cuore gli si fermò qualche istante.
Iniziò a tremare e a sudare, preso alla sprovvista
dall’agitazione.
Norah era lì.
Si sentì catapultato dentro un realtà parallela,
e
dentro una bolla di vetro.
Lui guardava Norah, ma lei non lo vedeva.
Ed era comprensibile, visto che nemmeno lo
conosceva.
Tom sapeva tutto di lei, ma lei non conosceva nemmeno il suo nome.
Avrebbe voluto alzarsi e correrle incontro,
abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene. Ma che diritto
aveva? Lei l’avrebbe
allontanato in malo modo e preso a parolacce. Per non parlare di David,
seduto
qualche tavolo più in là.
Norah lanciò via il vassoio e uscì dalla mensa
con
una mela in mano.
Quando le porte si chiusero alle sue spalle, Tom
si sentì vuoto.
La fame gli era completamente passata e non si era
accorto di Kay che continuava a blaterare qualcosa.
Si passò una mano in viso, decisamente sconvolto.
Kay lo notò.
« Tutto ok? »
« Sì, non preoccuparti. »
La cugina restò a fissarlo un po’.
« Sicuro? Non hai un bell’aspetto. »
Tom scosse la testa, agitando una mano come a dire
“non preoccuparti”.
« Forse ho preso l’influenza. »
« Influenza a Settembre? »
« Che ne so, Kay. » sbottò.
Si alzò e prese il vassoio.
« Torno in casetta, ci vediamo domani. »
Si allontanò, buttando tutto quello che aveva nel
vassoio. Uscì dalla mensa mentre Kay lo fissava allibita.
Si sentiva uno schifo.
Vedere Norah gli aveva provocato un reazione che
non si sarebbe mai aspettato.
Voleva urlare, lasciarsi cadere a terra o anche
lasciarsi investire da un tram impazzito.
Non riusciva a sopportare di vederla camminare
davanti a sé e non poterci parlare, non poterle chiedere
come andassero le
cose, se ci fosse qualcosa che poteva fare per lei. Non resisteva a
vederla ancora
una volta vittima di David.
Avrebbe voluto fare qualsiasi cosa, ma non poteva.
Aveva promesso che non si sarebbe più intromesso nella sua
vita, e non poteva
rischiare di commettere lo stesso errore della prima volta.
Probabilmente non sarebbe durato a lungo in quello
stato, ma doveva almeno provarci.
Uscì dall’edificio e si diresse solitario e a
passo lento verso la sua casetta.
Non aveva più niente da perdere, ormai.
Una
volta arrivato in casetta, Tom telefonò a Georg.
Restarono incollati alla cornetta per quasi un’ora,
senza qualcosa in particolare da raccontarsi.
Si scambiarono le solite battute, una più stupida
dell’altra.
Dopo aver chiamato l’amico, Tom fece una veloce
telefonata alla mamma.
La rassicurò di ogni timore e si assicurò un
risveglio più piacevole per il mattino successivo.
I giorni si susseguivano rapidi e noiosi.
Tom passava meno tempo del previsto sui libri perché
conosceva già gli argomenti ed era abbastanza preparato ad
ogni compito o test
a sorpresa.
Al contrario di Nicco invece, che si chiudeva
spesso in camera sua o girottava con in mano qualche libro.
Per qualche strana ragione, quella scena gli
ricordò Norah.
Anche lei aveva l’abitudine di girare per la
casetta con qualche libro in mano e ripetere ad alta voce qualche frase
che non
riusciva a memorizzare.
Il risultato era che perfino Tom iniziava ad
imparare le lingue, come quella volta che lei gli stava insegnando a
dire “Io
mi chiamo Tom” e lui aveva detto “Io odio
Tom”.
Solo che con Nicco non accadeva la stessa cosa, perché
lui non lo degnava d’uno sguardo quando studiava. Era
concentrato in un mondo
tutto suo.
Lui e Kay non si erano ancora parlati e il riccio
non aveva detto a Tom di avere una cotta per la cugina. Dal canto suo,
Tom non
si era esposto troppo, e Kay non si era fatta avanti.
La situazione era congelata, e Tom rimpiangeva
assai parecchio la vecchia situazione a cui era abituato.
Ma da una parte era contento che Nicco e Kay non
“ripassassero
matematica” in ogni momento della giornata. Dopotutto, non
c’era da stupirsi
che Kay fosse rimasta incinta, pensò.
Pensando alla gravidanza mancata della cugina, Tom
si stava dirigendo verso la mensa, quando Nicco gli sbarrò
la strada.
« Hey hey hey, amico! » lo salutò.
« Ciao Nicco. »
« Ti va di pranzare con me? »
Tom si fermò.
« E dove? »
« Fuori, in giardino. Andiamo, è una bella
giornata. »
Tom fece spallucce e lo seguì.
Si sedettero sotto un albero che iniziava ad
ingiallirsi, esattamente come tutti gli altri.
Ottobre era ormai alle porte, e le temperature si
abbassavano gradatamente.
Nicco aveva roba da mangiare per 10 persone, così
offrì il proprio pranzo anche al coinquilino che aveva con
sé soltanto della
frutta.
Parlarono un po’ di argomenti futili, conoscendosi
a vicenda, finchè Nicco tirò fuori una pallina da
baseball.
« Ti va di fare due tiri? »
Tom sorrise al pensiero delle partite che lui e
Nicco avevano fatto in precedenza, e annuì con la testa.
Il riccio si posizionò in mezzo al prato della
scuola, e Tom si mise un po’ più distante.
Nicco lanciò e Tom prese prontamente la palla.
« Bella presa, amico! »
Tom fece spallucce, e gli rilanciò la palla.
In quel preciso momento, il Sole gli colpiva il
viso ed ebbe come un deja-vu.
Effettivamente aveva già vissuto una situazione
come quella.
Si spostò cercando di non essere colpito dal Sole,
quando si immobilizzò.
La sensazione di agitazione e tormento tornò ad
impossessarsi di lui, e il fiato gli si bloccò a
metà strada.
Norah stava passeggiando lì nel giardino, con un
libro in mano.
Probabilmente stava studiando o ripassando
qualcosa, ed era completamente assorta nella lettura.
Tom la trovò bellissima con i capelli sciolti e
tirati indietro da un cerchietto e la maglietta azzurra.
« Tutto ok, amico? »
Tom si voltò verso Nicco e annuì, facendogli
segno
di rilanciargli la palla.
Ma Nicco spostò lo sguardo e vide Norah.
Sorrise e guardò di nuovo Tom.
« Ti piace, eh? »
Il ragazzo fece spallucce.
« Chi? »
« Ma come chi? Lei. » Nicco la indicò e
Tom si
affrettò a scuotere la testa.
« No. »
« E allora perché la guardavi? »
Tom si sentì avvampare.
« Perché… l’ho scambiata per
un’altra persona. »
Nicco lo guardò con l’espressione di chi la sa
lunga.
« Dai, tira. »
« L’hai scambiata per un’altra persona?
Amico, ma
chi vuoi prendere in giro? »
Tom sbuffò.
« Non mi interessa, d’accordo? E poi lei
è già
fidanzata. »
« E tu come fai a saperlo, amico? »
Tom si immobilizzò.
Lui sapeva molte cose di Norah, ma non per questo
doveva darlo a vedere.
Si passò una mano sulla nuca, mentre Nicco attese.
« E’ la coinquilina di mia cugina, Kay. »
Nicco fece segno di aver capito, ma tenne comunque
la palla.
« Facciamo una scommessa, amico. »
Tom sollevò lo sguardo, sbiancando in viso.
« Io scommetto che non riesci a fartela cadere ai
piedi. »
Tom indietreggiò con l’affanno.
Nella sua testa echeggiavano ancora le ultime
parole di Nicco.
Scommessa.
Scosse energicamente la testa.
« Io non scommetto Nicco, mi spiace. »
« E dai amico, perché no? Tanto che ti frega?
»
« Mi frega, dal momento che non voglio scommettere
su di lei. » sbottò, iniziando ad adirarsi.
« E per favore, gradirei che questo
discorso non venisse più fuori, intesi? Io non scommetto
sulle persone, ancora
meno se devo far cadere ai miei piedi una ragazza già
fidanzata. »
Nicco lo fissò perplesso.
« Ok, va bene. Come vuoi tu, amico. »
Gli rilanciò la palla, e Tom la prese per un pelo.
Aveva l’affanno, ma non per il gioco: era agitato.
Rilanciò la palla all’amico con più
forza di
quanta pensava ce ne fosse, e Nicco la mancò.
Quando si voltò per andare a prenderla, Tom
guardò
verso Norah.
Era sparita.
Tom
stava male.
Lo sapeva, lo sentiva ma non voleva ammetterlo.
Norah gli mancava più di quanto avesse mai
immaginato.
Dopo l’episodio con Nicco, l’aveva incrociata nel
corridoio altre volte.
Una di quelle, David era arrivato di soppiatto e l’aveva
abbracciata mentre Tom li guardava da dietro un pilastro.
Si era sentito morire.
Ma se solo pensava a come erano finite le cose
prima di quella seconda possibilità, si sentiva uno schifo e
sapeva che era
giusto che lui stesse male, invece che vedere Norah morta su un lettino.
Studiava
a ritmi infernali e più
il tempo passava più faceva freddo e i temporali aumentavano.
Ottobre volò e il party di
Halloween si presentò come una noia totale.
Nicco aveva invitato Kay senza
dire niente a Tom.
Il risultato fu che Tom non si
era presentato alla festa ma aveva visto sua cugina e il coinquilino
uscire
insieme.
Sorrise.
Ce l’avevano fatta anche senza
il suo zampino.
Forse per loro era destino che
passassero il resto della loro vita insieme.
Chiamava Georg ogni sette giorni
e sentiva sua madre almeno tre volte a settimana, tenendosi
così in contatto
con loro.
Aveva fatto amicizia con Jason e
avevano passato qualche pomeriggio insieme, studiando.
Era un ragazzo speciale, e l’aveva
capito subito.
Gli piaceva aiutare le persone e
trattava tutti come se fossero allo stesso livello, cercando di non
mettersi
contro nessuno e di non causare dispiaceri o casini.
Non aveva detto a Tom del tumore,
e Tom non aveva dato modo di fargli capire che lui era a conoscenza di
quel
dettaglio.
Kay e Nicco avevano iniziato ad
uscire insieme e si piacevano. Tom non si sorprese.
Phoebe era una perfetta
estranea.
Girava attorno a David, ma
questo le faceva credere di provare qualcosa e quando sembrava
ricambiasse
esplicitamente ecco che entrava in scena Norah, anche lei sotto il suo
comando.
Tom si domandava quanto tempo
ancora sarebbe durato tutto quello.
Quella sera faceva freddo ma non
abbastanza da lasciarlo chiuso in casetta.
Aveva chiesto in prestito la
macchina a Nicco e questo aveva approfittato dell’assenza
dell’amico per
invitare Kay in casetta.
Tom era così uscito.
Si era preso un panino, una
bibita fresca e poi era risalito in macchina, andando verso un posto
ben
preciso.
Percorse la strada che Norah gli
aveva insegnato e poi salì sulla montagnetta, fermando poi
la macchina nel
solito posto.
La spense, mise il freno e poi
uscì al freddo.
Portland era sotto di lui e più
la guardava più se ne innamorava.
Esattamente come per Norah.
Si sedette sulla vettura e
incrociò le braccia, sospirando.
« Tutto questo non ha senso. »
disse, rivolto a nessuno in particolare. O forse rivolto ad una persona
precisa.
Sollevò lo sguardo verso il
cielo stellato, stranamente privo di nuvole.
« Nicco e Kay stanno insieme,
Norah e David lo stesso. Jason fa finta di avere l’intera
vita davanti a sé e
Phoebe si fa usare a suo piacimento da quel gorilla idiota. »
fece una pausa,
in cui sciolse le braccia. « E io sono qui a parlare al
nulla. » mormorò.
Scosse la testa abbassando la
testa, e poi la risollevò verso la città.
« Per quanto tempo ancora dovrò
sopportare questa situazione? Non posso stare con le mani in mano
guardando l’infelicità
di Norah che passeggia nel giardino mentre legge un libro di
letteratura
straniera. E non posso nemmeno svegliarmi ogni mattina con
l’angoscia di
vederla camminare al mio fianco senza nemmeno poterla salutare.
»
Si staccò dalla macchina,
sollevando il viso verso il cielo.
« Avevi detto che non era
destino che io e Norah ci conoscessimo in quel modo, ma io ho rifiutato
la
scommessa, papà. L’ho fatto per lei,
l’ho fatto perché sapevo come sarebbe
andata a finire se avessi accettato. Ma allora perché sta
ancora con David? Perché
le cose per me non sono cambiate e sono sempre qui, solo, a sperare che
lei si
accorga di me? » respirò a fondo, tornando a
guardare Portland. « Io la amo e
tu lo sai. Ma non posso passare un intero anno scolastico in queste
condizioni.
Non ce la faccio. Crollerò da un momento
all’altro, e lo so. » scosse la testa
ancora. « Lo sai anche tu, non è così?
»
Guardò Portland un’ultima volta,
poi fece per tornare dentro.
Si fermò davanti allo sportello
e guardò ancora il cielo.
Una nuvola si stava avvicinando
alla luna.
Tom la fissò, accigliato.
« Se puoi fare qualcosa, e dico
qualsiasi cosa, ti prego falla. Falla per me. »
Salì in macchina e mise in moto,
tornando al college.
Non tornò più in quel posto,
dopo quella sera.
Nicco e Kay non avevano fatto niente
che potesse catalogarsi come “pericoloso”, quella
notte, e Tom gli fu assai
grato.
Lo studio gli trucidava il cervello
e non aspettava altro che le vacanze di Natale.
Quando stava con Norah, non
aveva sofferto tutto quel peso dei libri.
Le giornate diventavano sempre
più corte e faceva sempre più freddo.
La sua media era alta e Nicco e
Kay sempre più uniti fra di loro.
Tom
non aveva amici, esclusi loro due.
Lui
e Georg si sentivano al telefono e Georg avrebbe voluto andare a
trovare il suo
amico in Oregon, ma Tom gliel’aveva sconsigliato: non
avrebbero avuto tempo per
stare insieme.
Tuttavia,
Simone aveva già prenotato ogni singola cosa per andare a
trovare Tom a casa di
zia Margaret per un fine settimana.
A
Tom l’idea non dispiaceva: avrebbe rivisto sua madre e si
sarebbe staccato da
quella realtà.
Il
college aveva assunto un aspetto diverso dalla prima volta: adesso era
solo
studio e nessun divertimento.
I
corsi extracurricolari non gli piacevano e non lo stimolavano, avevano
fondato
la squadra di baseball ma si era rifiutato di farne parte, fumava come
un
dannato e passava molto tempo da solo.
Ogni
tanto usciva a pranzo fuori con Nicco o per comprare qualcosa che gli
serviva,
come vestiti, un paio di cuffie o qualcosa del genere, ma da quando il
coinquilino aveva iniziato la relazione con Kay passava molto tempo con
lei.
Tom
la trovava una cosa assai normale.
Non
trovava affatto normale pensare a Norah tutto quel tempo.
Era
diventata un’ossessione, quasi leggeva il suo nome
dappertutto.
Erano
gli inizi di Dicembre quando decise di andare in biblioteca per cercare
di
documentarsi su un determinato fenomeno che si verificava in borsa.
Sperava
che lì avessero dei libri più utili di quelli che
gli avevano fornito per
studiare. Non perché volesse diventare un secchione
rompipalle, semplicemente perché
studiare e farsi una cultura era tutto ciò che poteva fare
là dentro.
Trovare
una vergine da portarsi a letto non gli piaceva più,
né comprare una bambola
gonfiabile come Georg, che si era proposto di inviargliene una con
tanto di
dedica.
No,
quella vita non faceva più per lui.
Entrò
in biblioteca e la vide stracolma di gente.
Era
periodo di esami, quindi tutti si rintanavano lì per
sfuggire alle tentazioni
casalinghe, come libri, Ipod, tv e quant’altro.
Tom
si immerse negli innumerevoli scaffali e iniziò la sua
ricerca che durò circa
tre quarti d’ora.
Quando
uscì trionfante con tre libri diversi che sembrava potessero
aiutarlo, trovò un
tavolo libero e si sedette.
Gli
altri erano tutti occupati e c’era chi addirittura aveva
preso in prestito
sedie da altri tavoli.
Man
mano che il tempo passava, però, la concentrazione di Tom
vacillava.
Si
sentiva agitato, come se stesse per accadere qualcosa, ma non sapeva
assolutamente che cosa.
Si
muoveva nella sedia, perdeva la riga che stava leggendo e scriveva male
gli
appunti.
Decise
di calmarsi e poggiò la schiena sulla sedia, stirandosi le
braccia in avanti.
«
Ciao. » sentì alle sue spalle.
Si
voltò sospirando e rimase impalato con lo sguardo sbarrato.
Norah
era lì, davanti ai suoi occhi.
Si
guardò attorno, ma non c’era nessuno dietro di
sé.
Lei
stava parlando con lui.
«
Ciao. » ricambiò.
Lei
sorrise, abbassando lo sguardo.
Lo
faceva sempre quando era in imbarazzo.
Aveva
la fascetta verde che a Tom piaceva tanto e i jeans stretti e scuri che
aveva
indossato la prima volta che erano usciti insieme.
Norah
era lì davanti a lui e gli stava parlando di sua spontanea
volontà.
D’un
tratto diede una ragione a quella strana sensazione e a tutti quei mesi
di
insopportabile attesa.
Diede
un valore a quanto aveva sopportato e fatto in quel tempo. Diede un
valore a
tutte le promesse che aveva fatto e si rese conto di quanti errori
avesse
commesso nella sua vita.
Di
quante persone aveva fatto star male col suo comportamento.
Aveva
imparato la lezione, e l’aveva imparata grazie a lei.
«
E’ libero? »
Norah
indicò la sedia vuota accanto alla sua.
Tom
sorrise di rimando.
Il
suo cuore batteva forte in petto dall’emozione e dalla
felicità.
Avrebbe
voluto abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene, farla
parlare di
cosa non andasse nella sua vita e aiutarla nei momenti di
difficoltà.
Ma
sapeva che quello non era il momento adatto e che più avanti
le cose sarebbero
cambiate.
Norah
era entrata nella sua vita di sua spontanea volontà, senza
nessuna scommessa e
senza esserne costretta.
Gli
ricambiò il sorriso.
«
Certo. » rispose. « E’ libero. »
A/N:
Ci tenevo a fare alcuni ringraziamenti, questo perchè non
rispondo mai alle recensioni che mi lasciate, né vi cerco
privatamente per ringraziarvi. Quindi colgo l'occasione per ringraziare
tutte le persone che hanno letto questa fan fiction e alcune persone in
particolare: prima di tutto la mia Steph che mi tartassava per
scrivere/postare e mi segue in tutto quello che faccio <3 e poi
volevo ringraziare la Marti e la Angi che non si son perse nemmeno un
capitolo e hanno recensito tutto, condividendo l'odio per David xD
Grazie mille ragazze :)
Da questo momento mi prenderò dei mesi di pausa, causati sia
dalla scuola che da una scelta personale: sto lavorando ad una storia
che intendo pubblicare. Tuttavia continuerò a scrivere fan
fiction, solo che non posterò per un po' di tempo. Spero mi
possiate capire :)
Ancora grazie mille a tutte <3
Viola