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Autore: Kioto    22/08/2011    6 recensioni
Cosa faresti, se scoprissi che hai solo 100 giorni di vita?
Genere: Fluff, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Georg Listing, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il cervello di Tom venne martellato da un rumore che aveva imparato a conoscere.
Era un BIP che si ripeteva con costanza.
Quel rumore lo rassicurò: era il suo cuore. Era ancora vivo.
Non riusciva a respirare bene dal naso, lo sentiva come tappato e aveva dolori in varie parti del corpo.
Il fianco sinistro gli doleva in maniera infernale e sentiva la gola pulsare.
Sospirò, prima di aprire gli occhi.
La luce lo costrinse a ripetere l’azione più volte, e quando si abituò vide che era su un lettino.
La stanza attorno a lui aveva le pareti azzurre e il soffitto era bianco. Nel comodino alla sua destra c’era un vaso di fiori e il suo cellulare, e accanto al suo letto c’era una sedia.
Tutto aveva l’aria di un ospedale, e Tom ricordava bene in che situazione si era trovato in quello stato.
Nonostante i dolori fece per prendere il cellulare, quando la porta si aprì.
Simone entrò con un caffè in mano e quando lo vide sveglio e, di conseguenza, vivo, spalancò gli occhi.
Chiuse velocemente la porta e si precipitò su di lui.
« Tom. » sussurrò.
Tom fu estremamente felice di vederla.
« Ciao, mamma. »
Simone poggiò il caffè nel comodino e lo guardò in viso.
« Come ti senti? »
« Uno schianto, se capisci cosa intendo. » disse con voce rauca.
La madre lo guardò ancora e poi scosse la testa, socchiudendo gli occhi.
« Perché mi fai questo, Tom? Stavo per perderti. »
Tom le accarezzò una guancia.
« Mi dispiace, mamma. »
Simone sospirò.
« Non fa niente, l’importante è che tu ora sia sano e salvo. »
Tom deglutì.
« Da quanto tempo sono su questo letto? »
« Due giorni. »
« Quindi ero in... coma? 
»
« Sì, Tom.
»
« Georg sta bene? »
La donna annuì con la testa.
Tom non aggiunse altro.
« Sai, stare in coma è davvero strano. »
Simone riprese il caffè, ma non lo bevve.
« In che senso? »
Tom fece spallucce.
« Non mi faceva male niente, al contrario di adesso. »
Simone sorrise e solo allora sorseggiò il caffè.
« Hai visto qualcosa? Molto dicono che vedi una luce e che ti senti felice. »
Tom ripensò a tutto quello che aveva visto e vissuto.
Non era solo coma.
Tom aveva avuto un’altra possibilità.
Voleva sfruttarla al meglio, senza commettere alcun errore.
« Sì, ho visto tante cose. »
« Anche la luce? » continuò Simone, sorseggiando ancora il caffè.
Tom annuì con la testa.
« E ti sentivi felice? »
Tom annuì di nuovo.
Simone non disse altro e si decise a bere il suo caffè.
Lui la osservava.
Gli sembrava di non averla mai vista davvero come in quegli istanti.
La forma del suo viso, i contorni dei suoi occhi, le rughe che iniziavano a farsi strada sul suo viso.
Non aveva mai dato molta importanza a tutto quello.
« Ho visto papà. » mormorò.
Simone spostò lo sguardo dal caffè al figlio, perplessa.
Tom le sorrise fiducioso.
« Ha detto che sei sempre più bella. »

 Tom tornò a casa sua qualche giorno dopo.
La casa aveva un aspetto diverso.
Era come se mancasse qualcosa.
E Tom sapeva cosa c’era che non andava.
Mancava Norah.

« Come ti senti? » gli domandò Simone.
« Bene, grazie. » rispose, con un sorriso.
Osservò ancora un po’ il salone, e poi salì al piano di sopra.
Gordon entrò dopo aver chiuso la macchina, e lo seguì con lo sguardo.
Aprendo la porta di camera sua, Tom si sorprese di vedere i suoi oggetti in disordine, proprio come li aveva lasciati lui quell’estate.
L’armadio era aperto e vicino c’era una valigia, con dentro alcuni suoi vestiti.
Si voltò e vide Simone alle sue spalle, titubante.
« Dove vado? » domandò, sapendo in cuor suo quale fosse la risposta.
Gordon comparve sulle scale, e Simone lo guardò intimorita.
« Non gliel’hai detto? »
La donna aprì la bocca e balbettò qualcosa di insensato.
« Volevo farlo, ma ogni momento mi sembrava sbagliato. »
« Dovevi dirglielo, Simone! »
Lei voleva rispondere, ma Tom provò un impulso di rabbia verso Gordon.
« Hey, finitela. » sbottò, tenendo a freno la lingua. Le parole del padre echeggiavano ancora nella sua testa come un allarme. « Non è successo niente, ma adesso ditemi dove devo andare. Perché so che volete mandarmi da qualche parte a causa del mio comportamento. »
Simone inspirò a fondo, gonfiando il petto in modo da dargli un’aria più autoritaria.
Tuttavia, la tranquillità di Tom distrusse ogni sua difensiva, e sgonfiò il petto.
« Ho chiamato zia Margaret, a Portland. » mormorò. « Mi ha detto che Kay sta frequentando un college dove si studia e ci si diverte, e che lei si trova molto bene. »
« Devo andare lì? »
Simone abbassò lo sguardo e annuì.
Gordon le si affiancò, temendo una brusca reazione da parte di Tom.
« Ok, va bene. »
La madre sollevò di colpo lo sguardo, stupita.
« Davvero? »
Tom annuì.
« Sì, lo capisco. Devo responsabilizzarmi, insomma. »
Gordon e Simone si guardarono, perplessi.
« Tom, sei sicuro di stare bene? » azzardò Gordon.
Il ragazzo annuì con la testa.

« Fra quanto parto? »
Simone deglutì.
« Fra due giorni. »
Tom sapeva già tutto, e Simone stava solo contribuendo a confermare quello che già sapeva.
Più Simone confermava le sue teorie, più Tom si sentiva sollevato.
Annuì con la testa, facendo segno di aver capito, e si chiuse in camera.
Non vedeva l’ora di tornare a Portland, e sorrise.
 

Georg non prese la notizia con ottimismo, ma Tom cercò di spiegargli che era per il suo bene e che non sarebbe cambiato niente.
Tuttavia, l’amico non sembrava accettare la soluzione trovata da Simone per il comportamento del figlio.
« Posso parlarci io. » disse, fumando con ansia una sigaretta.
Tom scosse la testa.
« Lei e Gordon sono irremovibili. »
« Da quando ti importa qualcosa di Gordon? » sbottò l’amico.
Tom non rispose.
Non poteva di certo dirgli cosa aveva passato. Anche se Georg era il suo migliore amico, avrebbe potuto chiamare il manicomio e far rinchiudere Tom lì dentro per il resto della vita.
Fece spallucce.
Georg scosse la testa.
« Il coma ti ha rincoglionito il cervello. »
« Probabile. »
Georg fece un altro tiro e poi espirò il fumo lentamente, osservandolo disperdersi nell’aria.
« Quando parti? »
« Fra due giorni. »
« Così presto? »
Tom annuì con la testa. Lui non aveva accettato la sigaretta.
L’amico non disse niente.
« Verrai in aeroporto? » gli domandò.
Georg lo guardò con la coda dell’occhio e poi fece un altro tiro, serio.
« Allora? »
« Secondo te mi perdo la tua partenza verso Fanculopoli? »
Tom sorrise, rassicurato nel vedere il Georg di sempre.
Gli batté un colpo sulla spalla e rise.
Restarono insieme per un’altra ora, poi Tom tornò a casa sua.
Simone aveva preparato la cena.
Ricordava che Georg era andato a casa sua per convincerla a lasciar perdere quell’assurda idea del college, ma che la situazione era precipitata con l’arrivo di Gordon, e Tom quella sera non aveva cenato.
Restò fermo con una mano poggiata sul passamano della scala e lo sguardo rivolto verso la tavola.
Gordon poggiò la saliera e lo guardò.
Alle sue spalle uscì Simone con una pentola bollente.
« Tom, vieni a mangiare con noi? » gli domandò l’uomo.
Simone guardò prima Gordon poi Tom.
In una situazione normale, Tom avrebbe ignorato la domanda di Gordon e sarebbe salito al piano di sopra sbattendo in piedi.
Quella volta, invece, accettò.
« Ok. »
Si sedette a tavola con loro, senza commentare i comportamenti di Gordon e senza attaccarlo per la minima scemenza.
Scoprì che Gordon riusciva ad essere un tipo simpatico e per niente rompipalle o invadente, e che lui e sua madre si divertivano davvero tanto insieme, e si capivano immediatamente.
Aiutò Simone a sparecchiare e poi si chiuse in camera sua.
Non sapeva se tutto quello che gli era successo fosse stato un sogno o un brutto scherzo del coma, ma qualunque cosa fosse stata, gli stava sicuramente cambiando la vita e gli stava facendo aprire gli occhi su cose e persone che prima non avrebbe mai voluto incrociare.
Si cambiò e si mise a letto, spegnendo la luce di camera sua.
Dal corridoio sentì i passi di qualcuno, e istintivamente chiuse gli occhi.
Poco dopo, Simone aprì la porta.
Tom era coricato e le dava le spalle. Dormiva senza maglietta ma aveva un lenzuolo che lo copriva fino a metà petto; la finestra di camera sua era aperta e la luce della Luna illuminava appena la camera.
Simone fece qualche passo avanti, incerta.
Osservò la stanza, e notò quanto era cambiata negli ultimi anni.
Si avvicinò poi al letto del figlio, osservandolo.
Aveva gli occhi chiusi, e respirava regolarmente.
Simone pensò a quando aveva saputo dell’incidente.
Quando Tom era entrato in coma si era sentita una pessima madre.
Come aveva potuto permettere che suo figlio facesse quella fine?
Non portava rispetto a nessuno, nemmeno a sua madre, come poteva pretendere di andare avanti in quel mondo che non guardava in faccia nessuno?
Portland sembrava la soluzione giusta, ma come avrebbe fatto a passare tutti quei mesi senza Tom? Senza suo figlio?
Quando
Jörg era morto, le era crollato il mondo addosso.
Crescere Tom sembrava un’impresa impossibile portandosi dentro un peso come quello. Suo marito le mancava ogni giorno di più, e sapeva che Gordon non avrebbe mai preso il suo posto, ma sperava che potesse aiutarla a crescere suo figlio.
Tuttavia, proprio suo figlio Tom non era d’accordo con l’entrata di un nuovo membro.

Gli accarezzò il viso, pensierosa.
« Mi mancherai questi mesi, Tom. » mormorò. « Mi mancherà sentire la tua musica alta e vederti indossare quelle enormi magliette. »
Salì ad accarezzargli le treccine incarnate.
« Mi mancherà sentire la tua voce, anche se stavamo semplicemente discutendo. E probabilmente mi mancherà anche sentirti litigare con Gordon. »
Gli accarezzò un orecchio.
Jörg lo faceva sempre quando era piccolo.
Tom si trattenne dal voltarsi per guardare la madre in faccia.
La sentì tirare su col naso.
« Vorrei che tu e lui poteste andare d’accordo, almeno un po’. Non dico che debba prendere il posto di tuo padre, non l’ho mai pensato. E so che ti manca, perché manca anche a me e tu non hai idea di quanto. » si fermò e stette a guardarlo.
Poi si alzò e tornò alla porta, ma prima di uscire si voltò di nuovo verso il figlio.
« So che non ti piace sentirtelo dire, Tom. Ma gli somigli davvero tanto. »
Tom chiuse ancora di più gli occhi, cercando di non muoversi.
Simone sospirò.
Aprì la porta e uscì.
Assicuratosi di essere solo, Tom si voltò verso la porta.
Gli bruciavano gli occhi.
Si mise a sedere, sentendo un groppo in gola, ma non pianse.
Alzò istintivamente lo sguardo verso una mensola, e vide la casetta dei Lego.
Sorrise, rimettendosi poi sotto le coperte. 

Quei due giorni passarono veloci come fulmini, e Tom si trovò catapultato all’aeroporto.
Simone era in ansia più di lui, e Gordon leggeva un giornale.
Lui si guardava attorno, aspettando Georg.
La madre controllava insistentemente il gate per vedere se Tom doveva già andare, e non stava un attimo ferma.
« Io vado in bagno. » disse il ragazzo, alzandosi.
« E se aprono il gate? » domandò Simone, ansiosa.
Tom la guardò perplesso.
« Ci metto due secondi, non preoccuparti. »
Si allontanò mentre Gordon faceva sedere Simone per calmarsi.

Camminando nell’aeroporto, Tom vedeva gente con enormi bagagli che si affrettava per raggiungere le uscite, mentre altre persone camminavano in tranquillità e qualcuno faceva addirittura colazione.
Entrò in bagno e ci rimase qualche minuto, controllandosi ripetutamente allo specchio.
Sapeva che sua madre sarebbe entrata in panico non vedendolo ritornare, quindi uscì qualche minuto dopo.
Il suo volo era stato annunciato, e lo dedusse dal fatto che sia Simone che Gordon si fossero alzati e stringevano le sue valigie.
La madre gli corse incontro, agitata.
« Hanno annunciato il volo, sbrigati! »
La coda del gate era già gremita di gente, e Tom prese una valigia, mentre l’altra era tirata da Gordon.
Si avvicinarono, finché Tom si sentì chiamare, e si voltò.
Georg stava correndo verso di lui, i capelli stranamente gonfi e una faccia assonnata.
Tom gli sorrise, e l’amico gli si fermò davanti.
« Ce l’hai fatta a venire. »
« Secondo te potevo perdermi la tua partenza? Andiamo, non scherzare. »
Il primo sorrise, e Georg gli poggiò una mano sulla spalla, col fiatone.
« Non fare troppo lo stronzo laggiù, e soprattutto ricordati di me quando vedrai una bella ragazza. »
Annuì con la testa, mentre Gordon e Simone facevano finta di non sentire, anche se la madre era in ansia più di Tom.
Lui e Georg si abbracciarono il tanto che bastava per scambiarsi un “a presto”, poi l’amico si allontanò.
Simone fece voltare il figlio in modo da guardarla negli occhi. Sarebbe scoppiata a piangere da un momento all’altro.
« Io non so che cosa mi sia preso quando ho deciso di mandarti lì, perché improvvisamente mi sembra tutto un’assurdità. » confessò.
Tom rise.
« Stai tranquilla, andrà tutto bene. »
Lei annuì, anche se era poco convinta.
Lo abbracciò, stringendolo a sé.
« Chiamami se ti serve qualcosa, oppure se vuoi semplicemente sentirmi, ok? »
« Lo farò. »
Si staccò dalla madre iniziando a sentire una leggera ansia mentre la fila diminuiva, e si voltò verso Gordon.
L’aveva odiato fin dal primo momento che l’aveva visto, ma in quei momenti non gli sembrava più il cattivo della situazione.
Lo vedeva impacciato, perché non sapeva come comportarsi.
« Prenditi cura della mamma mentre sto via, ok? »
Lui annuì abbozzando un sorriso.
« So che l’avresti fatto anche se non te l’avessi detto io, ma ci tenevo a ricordartelo. »
Gordon annuì di nuovo, allargando il sorriso.
Gli porse la valigia, e Tom la prese.
Fece per voltarsi, ma in uno scatto improvviso di follia guardò ancora un attimo Gordon.
Sapeva che non avrebbe mai rimpiazzato suo padre, ma poteva essere una specie di fratello maggiore per lui.
Allungò un braccio e lo passò attorno alle sue spalle, abbracciandolo con il dovuto distacco.
Simone non credette ai suoi occhi, tantomeno Georg e Gordon stesso, che gli batté due colpetti sulle spalle.
Tom si allontanò velocemente e si infilò nella coda.
Quando gli controllarono il biglietto e passò oltre, si voltò verso i tre che non erano ancora andati via.
Sorrisero tutti quanti e lo salutarono.
Ricambiò il sorriso e poi si avviò nel tunnel che portava all’aereo.
Portland lo aspettava. 

 “Benvenuti a Portland – Oregon”
Tom fu estremamente sollevato nel leggere quella scritta, quando uscì dall’aereo.
Attese impaziente i suoi bagagli e poi si immerse nel fiume di gente che usciva dagli arrivi.
C’era un sacco di gente che aspettava i propri parenti o amici, e fra quella miriade di teste vide sbucare un cartello con scritto “Tom – LA”.
Riconobbe Zio Victor, e gli andò incontro sorridente.
« Ciao zio! » lo salutò con un abbraccio alla quale l’uomo restò sorpreso.
« Accidenti, quanto sei cresciuto! » esclamò. « Tua madre mi aveva detto che eri cambiato, ma non pensavo così tanto. »
Il ragazzo fece spallucce, e lo zio ritirò via il cartello.
« Dammi una valigia, zia Margaret ci aspetta in macchina. »
La jeep nera di zio Victor era parcheggiata esattamente dove Tom la ricordava, e subito zia Margaret uscì dalla vettura.
« Ciao zia. » la salutò Tom.
La donna lo abbracciò forte, stringendolo a sé per qualche istante.
« Sono così felice di rivederti. » mugolò.
Tom sorrise.
« Anch’io zia, mi sei mancata. »
Zio Victor chiuse il cofano dell’auto con un tonfo.
« E’ tutto pronto, possiamo andare! » esordì.
Zia Margaret mollò suo nipote e gli aprì lo sportello dei sedili posteriori per farlo sedere.
Successivamente presero posto anche lei e zio Victor.
« Come sta tua madre? » domandò quest’ultimo.
« Era un po’ in ansia, ma le ho detto che andrà tutto bene. »
« E Gordon? »
« Sta bene anche lui. »
Lasciarono l’aeroporto e si immersero dentro Portland.
Tom si sentiva stranamente a casa.
Era contento di essere tornato là e di rivedere gli zii.
Parlò con loro del viaggio, di quegli ultimi 10 anni, di quante cose fossero cambiate e man mano che il tempo passava non vedeva l’ora di vedere Kay.
Zio Victor parcheggiò di fronte alla casa, e Tom ne riconobbe immediatamente le pareti esterne bianche e il sentiero in ciottoli.
La zia lo condusse dentro, e chiamò la figlia a gran voce.
« Kay ha già messo in ordine la tua stanza, quindi puoi sistemarti come meglio ti pare. »
Entrarono e la donna si sfilò la giacca di dosso, mentre zio Victor portava le valigie di Tom dentro casa.
« So che non sei vecchio, ma posso darti una mano? »
Questo lo guardò perplesso, ma poi sorrise e gli lasciò prendere le valigie.
« La tua stanza è al piano di sopra. » gli disse.
Tom annuì con la testa e salì le scale, già sapendo quale fosse la sua stanza.
Aprì la porta e portò le valigie dentro la camera, guardandosi attorno.
La ricordava ancora in ogni minimo dettaglio e ricordava ancora i pochi momenti che aveva vissuto là dentro.
Il massaggio di Kay, la notte che aveva dormito con Norah.
Si domandò se mai l’avrebbe rivista, e se mai si sarebbero scambiati una singola parola. Gli andava bene anche un “Ciao” nei corridoi.
Ma poi pensò a quello che gli aveva detto suo padre riguardo la scommessa e quella cosa strana dell’essersi messo in mezzo, e decise di starsene per le sue e di non interferire nella vita di Norah.
Fece per uscire dalla camera quando la porta della stanza accanto alla sua si aprì e vide uscire Kay.
I suoi capelli rossi erano uguali a come li ricordava e i suoi occhi risultavano di un verde acceso.
Rimase perplessa vedendolo lì davanti a sé, ma sorrise ugualmente.
« Tom? »
Lui gonfiò il petto.
« In carne ed ossa, Kay. »
La cugina allargò il sorriso e lo abbracciò.
Tom la strinse a sé, odorandole i capelli.
Kay gli era mancata tantissimo, quasi fossero passati anni.
Per lei erano davvero passati tanti anni, ma per Tom no. Se la ricordava ancora bene, e sapeva a che cosa andava incontro.
« Come stai? » le domandò.
« Bene, grazie. E tu? Tutto ok dopo l’incidente? »
« Sì, sto alla grande. Il tuo ginocchio? »
Kay restò sorpresa nel vedere che Tom sapeva del suo incidente.
« Sta bene, grazie. Ma tu come fai a sapere del mio ginocchio? »
Il ragazzo fece spallucce.
« Sono Mr Onnisciente. »
La cugina scoppiò a ridere.
« Kay! » strillò zia Margaret.
« Che c’è? »
« Puoi venire un attimo? Mi serve il tuo aiuto. »
« Arrivo! »
Si voltò verso Tom, e lui le fece segno di andare.
« Fai pure, non preoccuparti. »
Kay si avvicinò alle scale e scese i primi gradini, poi si fermò e si voltò verso il cugino, con un mezzo sorriso.
« Sono contenta di vederti. »
Tom ricambiò il sorriso e la guardò scendere le scale.
« Sono contento anch’io. »
Cenò con loro in una tranquillità surreale, che non viveva da anni, e quella notte non riuscì a dormire dall’eccitazione che provava nel sapere che sarebbe tornato al college.
Sperava di rivedere Nicco, ma l’ansia più grande comprendeva Norah.
Che cosa avrebbe fatto rivedendola? E soprattutto, rivedendola accanto a David?
Sarebbe riuscito a sopportare l’idea di non averla più con sé?
Di non poterla più guardare negli occhi? Abbracciarla? Baciarla?
Di non poterla più amare?
Il mattino seguente si sentiva uno schifo.
Zia Margaret aveva ansia per cinquanta persone, invece zio Victor era avvolto da una tranquillità paralizzante, mentre leggeva il giornale e beveva il suo caffè.

Tom fece colazione con loro e una Kay taciturna, indaffarata con gli ultimi preparativi.
Zio Victor preparò la macchina con le loro valige, ma zia Margaret li trattenne qualche minuto in più per il suo sermone che non poteva mancare.
Trattò Tom come se fosse suo figlio, assicurandosi che avesse ascoltato ogni singola parola di ciò che aveva detto, e solo dopo esserne certa, li lasciò andare entrambi.
Zio Victor guidava tranquillo e allegro, mentre alla radio passavano una vecchia canzone che probabilmente a lui riportava ricordi piacevoli.
Tom guardava Portland.
La guardava ammaliato, desideroso di tornare al college, di rivedere quei posti, di passare ancora del tempo lì e allo stesso tempo terrorizzato da quello che non sapeva poteva accadere.
Conosceva solo una parte degli avvenimenti, e non sapeva come sarebbero andate le cose senza Norah.
Riconobbe immediatamente la strada che portava alla scuola, e si mise bene sul sedile.
Non aveva avuto il coraggio di indossare le cuffie, perdendosi così ogni minimo rumore legato a quella città.
Sbucarono davanti al cancello, e lo zio parcheggiò proprio lì accanto.
Tom ricordava ancora quando era rimasto bloccato con Norah là fuori, a causa del coprifuoco.
Pensandoci bene, non aveva fatto altro che rivolgere i suoi pensieri a lei.
Si rabbuiò ripensando alla sua stupida mania di egoismo quando parlava di Los Angeles, trascurando tutto quello che di bello Portland gli aveva dato.
Zio Victor richiamò la sua attenzione.
Tom prese le sue valigie e poi lo salutò.
Kay ci mise un po’ più tempo di lui, ma non la aspettò.
Varcò la soglia del cancello da solo e si fermò a metà strada.
Il paesaggio era lo stesso di sempre.
Il vento gli arrivò dritto in viso, facendolo sorridere impercettibilmente.
Si sentiva a casa. 

Vedendo che la sua casetta era la stessa di sempre, Tom non perse tempo cercandola perché sapeva esattamente dove si trovasse.
Camminò sicuro fra quelle abitazioni così uguali fra di loro e lanciò uno sguardo a quella di Norah quando ci passò davanti.
Aveva passato così tanti momenti con lei dentro quella casetta, che dimenticarli era impossibile.
Con un sospirò trovò la sua, la 128.
Salì i gradini con le valigie e la borsa in spalla e poi la aprì.
Odorava di nuovo, ma vedendola sentì il calore che, in qualche modo, gli era mancato.
Portò dentro le valigie fino alla sua camera, o almeno fino a quella che era stata la sua camera e provò un senso di nostalgia vedendo che l’altra stanza era completamente vuota.
Decise di iniziare a disfare le valigie e così fece, sistemandosi secondo una logica pressoché fattibile. Non ricordava di aver portato così tante cose, ma evidentemente dalla precedente esperienza aveva notato che gli serviva decisamente più roba, vestiario in primis.
Aveva svuotato già la prima valigia da un pezzo, quando sentì qualcuno trafficare con la porta d’ingresso.
« Accidenti! »
Avrebbe riconosciuto quella voce dappertutto, e rimase pietrificato con una felpa in mano.
« Queste porte sono ogni anno peggio! »
Lasciò cadere la maglia sul letto e si sporse verso il salotto.
Riconobbe la chioma riccia e castana e la carnagione scura come caratteristiche di Nicco, il quale fissò Tom perplesso.
Questo gli puntò un dito contro.
« Nicco? »
Il riccio arricciò le labbra in avanti e imitò il suo gesto.
« E tu sei, amico? »
Tom rise, amando sentirlo parlare di nuovo in quel modo e gli si avvicinò.
« Io sono Tom, piacere di conoscerti. »
Gli porse la mano e Nicco la strinse, mollando un bagaglio.
« Sei il mio coinquilino, amico? »
Tom annuì con la testa.
« Figo! »
« E sono californiano. Precisamente di Los Angeles. Scommetto che ti piace da matti, eh? »
Nicco sbiancò. Sempre presupponendo che la sua carnagione riuscisse a diventare almeno un po’ più chiara. In ogni caso sgranò gli occhi, pietrificato.
Fece un lungo respiro e poi poggiò una mano sulla spalla di Tom.
« Amico, a primo impatto mi piaci. E di solito io non sbaglio mai sulle persone. »
Tom sorrise.
« Bene, perché anche io non sbaglio mai, e sono sicuro che diventeremo buoni amici. »
Nicco ricambiò il sorriso, già nel suo mondo di sogni californiani.
« Ti do una mano con le valigie. »
Tom aiutò Nicco a sistemarsi nella stanza libera.
Gli raccontò del perché era a Portland e si assicurò che fosse il Nicco di sempre stuzzicandolo riguardo Los Angeles, ma senza menzionargli la sua reputazione da sciupafemmine.
Non era lo stesso Tom.
Era passata un’eternità da quei momenti in cui due belle e sode tette lo facevano andare fuori di testa. 

Il mattino seguente si presentò con una frase ben precisa: primo giorno di scuola.
Tom sapeva come funzionava, quindi non aveva bisogno né di Nicco né di Kay.
Trovò l’orario appeso all’armadietto e lo seguì ricordandosi dove fossero tutte le aule.

Il risultato fu che non si trovò con un enorme mal di testa a perseguitarlo come la prima volta, ed entrò in mensa con una tranquillità innaturale.
Fece la fila con il suo vassoio e fu ben lieto di non avere gli sguardi altrui addosso; era un perfetto sconosciuto.
Nessuno lo conosceva come il nuovo fidanzato di Norah Davis, o il nemico giurato di David Blakelee e tantomeno come il compagno di stanza di Nicholas “Amico” Ryan, o il cugino di Kay Miller.
Era Tom e basta.
Nessuno sapeva che veniva da Los Angeles, nessuno sapeva che era orfano di padre, nessuno sapeva che aveva avuto una seconda possibilità.
Vide Kay seduta in un tavolo da sola e decise di andare a sedersi con lei.
« Buongiorno. » la salutò.
« Hey, ciao. Come stai? »
Tom fece spallucce.
« Non mi lamento. E tu? »
« Idem. » sospirò. « Com’è andato il primo giorno di scuola? »
« Rientra nella normalità, fortunatamente. »
« Hai fatto amicizia con qualcuno? »
« Escluso Nicco, il mio compagno di stanza? Nah, con nessuno. Non ho avuto modo di parlare con i miei compagni di classe. »
Kay non aggiunse altro e continuò a mangiare.
Tom iniziò il suo pasto con disinteresse, ansioso di tornare in casetta e sentire Georg al telefono.
« Ti troverai bene, vedrai. » disse Kay, catturando di nuovo la sua attenzione. « All’inizio potrai sentirti spaesato, abbandonato al mondo, » ironizzo. « ma vedrai che con l’andare del tempo ti troverai a tuo agio e ti sentirai un po’ a casa. »
Tom sollevò lo sguardo con un mezzo sorriso.
Guardò Kay che mangiava davanti a lui e pensò a tutto quello che aveva passato. A tutto quello che lui e lei avevano vissuto nella sua precedente esperienza.
Spostò lo sguardo oltre le spalle della cugina e il cuore gli si fermò qualche istante.
Iniziò a tremare e a sudare, preso alla sprovvista dall’agitazione.
Norah era lì.
Si sentì catapultato dentro un realtà parallela, e dentro una bolla di vetro.
Lui guardava Norah, ma lei non lo vedeva.
Ed era comprensibile, visto che nemmeno lo conosceva.
Tom sapeva tutto di lei, ma lei non conosceva nemmeno il suo nome.
Avrebbe voluto alzarsi e correrle incontro, abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene. Ma che diritto aveva? Lei l’avrebbe allontanato in malo modo e preso a parolacce. Per non parlare di David, seduto qualche tavolo più in là.
Norah lanciò via il vassoio e uscì dalla mensa con una mela in mano.
Quando le porte si chiusero alle sue spalle, Tom si sentì vuoto.
La fame gli era completamente passata e non si era accorto di Kay che continuava a blaterare qualcosa.
Si passò una mano in viso, decisamente sconvolto.
Kay lo notò.
« Tutto ok? »
« Sì, non preoccuparti. »
La cugina restò a fissarlo un po’.
« Sicuro? Non hai un bell’aspetto. »
Tom scosse la testa, agitando una mano come a dire “non preoccuparti”.
« Forse ho preso l’influenza. »
« Influenza a Settembre? »
« Che ne so, Kay. » sbottò.
Si alzò e prese il vassoio.
« Torno in casetta, ci vediamo domani. »
Si allontanò, buttando tutto quello che aveva nel vassoio. Uscì dalla mensa mentre Kay lo fissava allibita.
Si sentiva uno schifo.
Vedere Norah gli aveva provocato un reazione che non si sarebbe mai aspettato.
Voleva urlare, lasciarsi cadere a terra o anche lasciarsi investire da un tram impazzito.
Non riusciva a sopportare di vederla camminare davanti a sé e non poterci parlare, non poterle chiedere come andassero le cose, se ci fosse qualcosa che poteva fare per lei. Non resisteva a vederla ancora una volta vittima di David.
Avrebbe voluto fare qualsiasi cosa, ma non poteva. Aveva promesso che non si sarebbe più intromesso nella sua vita, e non poteva rischiare di commettere lo stesso errore della prima volta.
Probabilmente non sarebbe durato a lungo in quello stato, ma doveva almeno provarci.
Uscì dall’edificio e si diresse solitario e a passo lento verso la sua casetta.
Non aveva più niente da perdere, ormai. 

Una volta arrivato in casetta, Tom telefonò a Georg.
Restarono incollati alla cornetta per quasi un’ora, senza qualcosa in particolare da raccontarsi.
Si scambiarono le solite battute, una più stupida dell’altra.
Dopo aver chiamato l’amico, Tom fece una veloce telefonata alla mamma.
La rassicurò di ogni timore e si assicurò un risveglio più piacevole per il mattino successivo.
I giorni si susseguivano rapidi e noiosi.
Tom passava meno tempo del previsto sui libri perché conosceva già gli argomenti ed era abbastanza preparato ad ogni compito o test a sorpresa.
Al contrario di Nicco invece, che si chiudeva spesso in camera sua o girottava con in mano qualche libro.
Per qualche strana ragione, quella scena gli ricordò Norah.
Anche lei aveva l’abitudine di girare per la casetta con qualche libro in mano e ripetere ad alta voce qualche frase che non riusciva a memorizzare.
Il risultato era che perfino Tom iniziava ad imparare le lingue, come quella volta che lei gli stava insegnando a dire “Io mi chiamo Tom” e lui aveva detto “Io odio Tom”.
Solo che con Nicco non accadeva la stessa cosa, perché lui non lo degnava d’uno sguardo quando studiava. Era concentrato in un mondo tutto suo.
Lui e Kay non si erano ancora parlati e il riccio non aveva detto a Tom di avere una cotta per la cugina. Dal canto suo, Tom non si era esposto troppo, e Kay non si era fatta avanti.
La situazione era congelata, e Tom rimpiangeva assai parecchio la vecchia situazione a cui era abituato.
Ma da una parte era contento che Nicco e Kay non “ripassassero matematica” in ogni momento della giornata. Dopotutto, non c’era da stupirsi che Kay fosse rimasta incinta, pensò.
Pensando alla gravidanza mancata della cugina, Tom si stava dirigendo verso la mensa, quando Nicco gli sbarrò la strada.
« Hey hey hey, amico! » lo salutò.
« Ciao Nicco. »
« Ti va di pranzare con me? »
Tom si fermò.
« E dove? »
« Fuori, in giardino. Andiamo, è una bella giornata. »
Tom fece spallucce e lo seguì.
Si sedettero sotto un albero che iniziava ad ingiallirsi, esattamente come tutti gli altri.
Ottobre era ormai alle porte, e le temperature si abbassavano gradatamente.
Nicco aveva roba da mangiare per 10 persone, così offrì il proprio pranzo anche al coinquilino che aveva con sé soltanto della frutta.
Parlarono un po’ di argomenti futili, conoscendosi a vicenda, finchè Nicco tirò fuori una pallina da baseball.
« Ti va di fare due tiri? »
Tom sorrise al pensiero delle partite che lui e Nicco avevano fatto in precedenza, e annuì con la testa.
Il riccio si posizionò in mezzo al prato della scuola, e Tom si mise un po’ più distante.
Nicco lanciò e Tom prese prontamente la palla.
« Bella presa, amico! »
Tom fece spallucce, e gli rilanciò la palla.
In quel preciso momento, il Sole gli colpiva il viso ed ebbe come un deja-vu.
Effettivamente aveva già vissuto una situazione come quella.
Si spostò cercando di non essere colpito dal Sole, quando si immobilizzò.
La sensazione di agitazione e tormento tornò ad impossessarsi di lui, e il fiato gli si bloccò a metà strada.
Norah stava passeggiando lì nel giardino, con un libro in mano.
Probabilmente stava studiando o ripassando qualcosa, ed era completamente assorta nella lettura.
Tom la trovò bellissima con i capelli sciolti e tirati indietro da un cerchietto e la maglietta azzurra.
« Tutto ok, amico? »
Tom si voltò verso Nicco e annuì, facendogli segno di rilanciargli la palla.
Ma Nicco spostò lo sguardo e vide Norah.
Sorrise e guardò di nuovo Tom.
« Ti piace, eh? »
Il ragazzo fece spallucce.
« Chi? »
« Ma come chi? Lei. » Nicco la indicò e Tom si affrettò a scuotere la testa.
« No. »
« E allora perché la guardavi? »
Tom si sentì avvampare.
« Perché… l’ho scambiata per un’altra persona. »
Nicco lo guardò con l’espressione di chi la sa lunga.
« Dai, tira. »
« L’hai scambiata per un’altra persona? Amico, ma chi vuoi prendere in giro? »
Tom sbuffò.
« Non mi interessa, d’accordo? E poi lei è già fidanzata. »
« E tu come fai a saperlo, amico? »
Tom si immobilizzò.
Lui sapeva molte cose di Norah, ma non per questo doveva darlo a vedere.
Si passò una mano sulla nuca, mentre Nicco attese.
« E’ la coinquilina di mia cugina, Kay. »
Nicco fece segno di aver capito, ma tenne comunque la palla.
« Facciamo una scommessa, amico. »
Tom sollevò lo sguardo, sbiancando in viso.
« Io scommetto che non riesci a fartela cadere ai piedi. »
Tom indietreggiò con l’affanno.
Nella sua testa echeggiavano ancora le ultime parole di Nicco.

Scommessa.
Scosse energicamente la testa.
« Io non scommetto Nicco, mi spiace. »
« E dai amico, perché no? Tanto che ti frega? »
« Mi frega, dal momento che non voglio scommettere su di lei. » sbottò, iniziando ad adirarsi. « E per favore, gradirei che questo discorso non venisse più fuori, intesi? Io non scommetto sulle persone, ancora meno se devo far cadere ai miei piedi una ragazza già fidanzata. »
Nicco lo fissò perplesso.
« Ok, va bene. Come vuoi tu, amico. »
Gli rilanciò la palla, e Tom la prese per un pelo.
Aveva l’affanno, ma non per il gioco: era agitato.
Rilanciò la palla all’amico con più forza di quanta pensava ce ne fosse, e Nicco la mancò.
Quando si voltò per andare a prenderla, Tom guardò verso Norah.
Era sparita. 

Tom stava male.
Lo sapeva, lo sentiva ma non voleva ammetterlo.
Norah gli mancava più di quanto avesse mai immaginato.
Dopo l’episodio con Nicco, l’aveva incrociata nel corridoio altre volte.
Una di quelle, David era arrivato di soppiatto e l’aveva abbracciata mentre Tom li guardava da dietro un pilastro.
Si era sentito morire.
Ma se solo pensava a come erano finite le cose prima di quella seconda possibilità, si sentiva uno schifo e sapeva che era giusto che lui stesse male, invece che vedere Norah morta su un lettino.

Studiava a ritmi infernali e più il tempo passava più faceva freddo e i temporali aumentavano.
Ottobre volò e il party di Halloween si presentò come una noia totale.
Nicco aveva invitato Kay senza dire niente a Tom.
Il risultato fu che Tom non si era presentato alla festa ma aveva visto sua cugina e il coinquilino uscire insieme.
Sorrise.
Ce l’avevano fatta anche senza il suo zampino.
Forse per loro era destino che passassero il resto della loro vita insieme.
Chiamava Georg ogni sette giorni e sentiva sua madre almeno tre volte a settimana, tenendosi così in contatto con loro.
Aveva fatto amicizia con Jason e avevano passato qualche pomeriggio insieme, studiando.
Era un ragazzo speciale, e l’aveva capito subito.
Gli piaceva aiutare le persone e trattava tutti come se fossero allo stesso livello, cercando di non mettersi contro nessuno e di non causare dispiaceri o casini.
Non aveva detto a Tom del tumore, e Tom non aveva dato modo di fargli capire che lui era a conoscenza di quel dettaglio.
Kay e Nicco avevano iniziato ad uscire insieme e si piacevano. Tom non si sorprese.
Phoebe era una perfetta estranea.
Girava attorno a David, ma questo le faceva credere di provare qualcosa e quando sembrava ricambiasse esplicitamente ecco che entrava in scena Norah, anche lei sotto il suo comando.
Tom si domandava quanto tempo ancora sarebbe durato tutto quello.
Quella sera faceva freddo ma non abbastanza da lasciarlo chiuso in casetta.
Aveva chiesto in prestito la macchina a Nicco e questo aveva approfittato dell’assenza dell’amico per invitare Kay in casetta.
Tom era così uscito.
Si era preso un panino, una bibita fresca e poi era risalito in macchina, andando verso un posto ben preciso.
Percorse la strada che Norah gli aveva insegnato e poi salì sulla montagnetta, fermando poi la macchina nel solito posto.
La spense, mise il freno e poi uscì al freddo.
Portland era sotto di lui e più la guardava più se ne innamorava.
Esattamente come per Norah.
Si sedette sulla vettura e incrociò le braccia, sospirando.
« Tutto questo non ha senso. » disse, rivolto a nessuno in particolare. O forse rivolto ad una persona precisa.
Sollevò lo sguardo verso il cielo stellato, stranamente privo di nuvole.
« Nicco e Kay stanno insieme, Norah e David lo stesso. Jason fa finta di avere l’intera vita davanti a sé e Phoebe si fa usare a suo piacimento da quel gorilla idiota. » fece una pausa, in cui sciolse le braccia. « E io sono qui a parlare al nulla. » mormorò.
Scosse la testa abbassando la testa, e poi la risollevò verso la città.
« Per quanto tempo ancora dovrò sopportare questa situazione? Non posso stare con le mani in mano guardando l’infelicità di Norah che passeggia nel giardino mentre legge un libro di letteratura straniera. E non posso nemmeno svegliarmi ogni mattina con l’angoscia di vederla camminare al mio fianco senza nemmeno poterla salutare. »
Si staccò dalla macchina, sollevando il viso verso il cielo.
« Avevi detto che non era destino che io e Norah ci conoscessimo in quel modo, ma io ho rifiutato la scommessa, papà. L’ho fatto per lei, l’ho fatto perché sapevo come sarebbe andata a finire se avessi accettato. Ma allora perché sta ancora con David? Perché le cose per me non sono cambiate e sono sempre qui, solo, a sperare che lei si accorga di me? » respirò a fondo, tornando a guardare Portland. « Io la amo e tu lo sai. Ma non posso passare un intero anno scolastico in queste condizioni. Non ce la faccio. Crollerò da un momento all’altro, e lo so. » scosse la testa ancora. « Lo sai anche tu, non è così? »
Guardò Portland un’ultima volta, poi fece per tornare dentro.
Si fermò davanti allo sportello e guardò ancora il cielo.
Una nuvola si stava avvicinando alla luna.
Tom la fissò, accigliato.
« Se puoi fare qualcosa, e dico qualsiasi cosa, ti prego falla. Falla per me. »
Salì in macchina e mise in moto, tornando al college.
Non tornò più in quel posto, dopo quella sera.
Nicco e Kay non avevano fatto niente che potesse catalogarsi come “pericoloso”, quella notte, e Tom gli fu assai grato.
Lo studio gli trucidava il cervello e non aspettava altro che le vacanze di Natale.
Quando stava con Norah, non aveva sofferto tutto quel peso dei libri.
Le giornate diventavano sempre più corte e faceva sempre più freddo.
La sua media era alta e Nicco e Kay sempre più uniti fra di loro.
Tom non aveva amici, esclusi loro due.
Lui e Georg si sentivano al telefono e Georg avrebbe voluto andare a trovare il suo amico in Oregon, ma Tom gliel’aveva sconsigliato: non avrebbero avuto tempo per stare insieme.
Tuttavia, Simone aveva già prenotato ogni singola cosa per andare a trovare Tom a casa di zia Margaret per un fine settimana.
A Tom l’idea non dispiaceva: avrebbe rivisto sua madre e si sarebbe staccato da quella realtà.
Il college aveva assunto un aspetto diverso dalla prima volta: adesso era solo studio e nessun divertimento.
I corsi extracurricolari non gli piacevano e non lo stimolavano, avevano fondato la squadra di baseball ma si era rifiutato di farne parte, fumava come un dannato e passava molto tempo da solo.
Ogni tanto usciva a pranzo fuori con Nicco o per comprare qualcosa che gli serviva, come vestiti, un paio di cuffie o qualcosa del genere, ma da quando il coinquilino aveva iniziato la relazione con Kay passava molto tempo con lei.
Tom la trovava una cosa assai normale.
Non trovava affatto normale pensare a Norah tutto quel tempo.
Era diventata un’ossessione, quasi leggeva il suo nome dappertutto.
Erano gli inizi di Dicembre quando decise di andare in biblioteca per cercare di documentarsi su un determinato fenomeno che si verificava in borsa.
Sperava che lì avessero dei libri più utili di quelli che gli avevano fornito per studiare. Non perché volesse diventare un secchione rompipalle, semplicemente perché studiare e farsi una cultura era tutto ciò che poteva fare là dentro.
Trovare una vergine da portarsi a letto non gli piaceva più, né comprare una bambola gonfiabile come Georg, che si era proposto di inviargliene una con tanto di dedica.
No, quella vita non faceva più per lui.
Entrò in biblioteca e la vide stracolma di gente.
Era periodo di esami, quindi tutti si rintanavano lì per sfuggire alle tentazioni casalinghe, come libri, Ipod, tv e quant’altro.
Tom si immerse negli innumerevoli scaffali e iniziò la sua ricerca che durò circa tre quarti d’ora.
Quando uscì trionfante con tre libri diversi che sembrava potessero aiutarlo, trovò un tavolo libero e si sedette.
Gli altri erano tutti occupati e c’era chi addirittura aveva preso in prestito sedie da altri tavoli.
Man mano che il tempo passava, però, la concentrazione di Tom vacillava.
Si sentiva agitato, come se stesse per accadere qualcosa, ma non sapeva assolutamente che cosa.
Si muoveva nella sedia, perdeva la riga che stava leggendo e scriveva male gli appunti.
Decise di calmarsi e poggiò la schiena sulla sedia, stirandosi le braccia in avanti.
« Ciao. » sentì alle sue spalle.
Si voltò sospirando e rimase impalato con lo sguardo sbarrato.
Norah era lì, davanti ai suoi occhi.
Si guardò attorno, ma non c’era nessuno dietro di sé.
Lei stava parlando con lui.
« Ciao. » ricambiò.
Lei sorrise, abbassando lo sguardo.
Lo faceva sempre quando era in imbarazzo.
Aveva la fascetta verde che a Tom piaceva tanto e i jeans stretti e scuri che aveva indossato la prima volta che erano usciti insieme.
Norah era lì davanti a lui e gli stava parlando di sua spontanea volontà.
D’un tratto diede una ragione a quella strana sensazione e a tutti quei mesi di insopportabile attesa.
Diede un valore a quanto aveva sopportato e fatto in quel tempo. Diede un valore a tutte le promesse che aveva fatto e si rese conto di quanti errori avesse commesso nella sua vita.
Di quante persone aveva fatto star male col suo comportamento.
Aveva imparato la lezione, e l’aveva imparata grazie a lei.
« E’ libero? »
Norah indicò la sedia vuota accanto alla sua.
Tom sorrise di rimando.
Il suo cuore batteva forte in petto dall’emozione e dalla felicità.
Avrebbe voluto abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene, farla parlare di cosa non andasse nella sua vita e aiutarla nei momenti di difficoltà.
Ma sapeva che quello non era il momento adatto e che più avanti le cose sarebbero cambiate.
Norah era entrata nella sua vita di sua spontanea volontà, senza nessuna scommessa e senza esserne costretta.
Gli ricambiò il sorriso.
« Certo. » rispose. « E’ libero. »

A/N: Ci tenevo a fare alcuni ringraziamenti, questo perchè non rispondo mai alle recensioni che mi lasciate, né vi cerco privatamente per ringraziarvi. Quindi colgo l'occasione per ringraziare tutte le persone che hanno letto questa fan fiction e alcune persone in particolare: prima di tutto la mia Steph che mi tartassava per scrivere/postare e mi segue in tutto quello che faccio <3 e poi volevo ringraziare la Marti e la Angi che non si son perse nemmeno un capitolo e hanno recensito tutto, condividendo l'odio per David xD
Grazie mille ragazze :)
Da questo momento mi prenderò dei mesi di pausa, causati sia dalla scuola che da una scelta personale: sto lavorando ad una storia che intendo pubblicare. Tuttavia continuerò a scrivere fan fiction, solo che non posterò per un po' di tempo. Spero mi possiate capire :)
Ancora grazie mille a tutte <3

Viola

   
 
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