42
Rialzarsi e andare avanti
«Non
ce la faccio. Non sono pronto.»
Negli occhi verde scuro di Olette
la pazienza regnava sovrana. «Non è vero, e lo sai.»
Sospirò di sconforto. Perché
quella ragazza era sempre così... logica?
«Ti dico che cado.»
«No che non cadi.»
«Invece sì.»
«Roxas, mi stai
dicendo che vuoi cadere?»
Si sentì un po’ meno convinto.
«No.»
«E allora, che cosa aspetti?»
Olette gli tese la mano
aperta. Roxas tirò un altro sospiro, ma questo
era di resa. Accettò il sostegno dell’amica, drizzò le
spalle e fece leva sul piede sinistro, ancora saldo sull’asfalto. La
tavola di Olette scivolò lentamente in avanti.
Avvertendo il movimento – così familiare, così dimenticato
– sotto la scarpa destra, Roxas si
ritrovò col fiato corto.
Strinse forte la mano della ragazza, che
camminava accanto allo skateboard, unica presenza sicura all’inizio di un
viaggio di cui non si sapeva ancora il come, il dove o il perché. Ma era
un’altra, la presenza che sentiva più forte...
Dentro
l’armadio, la nicchia nascosta dall’asse mobile ormai era vuota.
Eppure nascondeva ancora qualcosa.
Lo aveva scoperto per caso, una sera di due anni
prima, quando era appena arrivato all’appartamento e trascorreva tutto il
suo tempo tra le quattro mura di quella cameretta. Non lo aveva mai mostrato a
Sora. Né allora, né in seguito, né adesso.
Però, adesso c’era Axel.
E Axel si era chinato
alle sue spalle e aveva parlato in tono incuriosito. «Che stai
guardando?»
Roxas aveva allungato la mano
verso la parte interna dell’armadio aperto, fin dentro la nicchia
scoperta, e aveva sollevato il pannello nascosto nel muro.
«Il mio segreto.»
Axel era rimasto in
silenzio.
Lo strato di polvere non sfumava la bellezza
dolorosa di quel ricordo. Dolorosa... Faceva davvero male; ma all’improvviso
il dolore sembrava sopportabile. Forse era per questo che – per quanto
avesse desiderato farlo – non era riuscito a liberarsene. Forse aveva
sperato di poterlo guardare di nuovo, un giorno, senza provare quelle vecchie
fitte di rimpianto che gli mozzavano il respiro.
Evidentemente, quel giorno era arrivato.
Roxas era tornato a se stesso
e aveva sfiorato con la punta delle dita il suo vecchio skateboard rosso,
bianco e blu. Si era ritratto in fretta, quasi per non sciupare con un tocco prolungato
quel qualcosa di estremamente fragile che finora aveva tenuto relegato
nell’angolo più lontano e buio della sua stanza e dei suoi
pensieri.
Aveva guardato Axel,
neutro. «Magari non è ancora il momento.»
Lui aveva ricambiato lo sguardo. Poi gli aveva
scostato i capelli dalla fronte, senza cambiare espressione.
«Magari sì.»
«Roxas! Apri gli occhi!»
Non si era accorto di averli chiusi.
Obbedì.
Olette sorrideva raggiante; lo
seguiva ancora di pari passo, di corsa,
ma non gli teneva più la mano.
Era come se il tempo non fosse mai passato.
Di nuovo su una tavola, le braccia aperte in
cerca di equilibrio, un piede a sospingersi e l’altro a sentire il
fremito di scivolare a un palmo da terra. Era facile, era istintivo, era come
se lo ricordava.
Di colpo si sentì sopraffatto, e
piantò il piede al suolo per fermarsi. Ansimava, scosso.
«Hai visto? Te l’avevo detto che non
saresti caduto.» Il sorriso di Olette divenne
un’espressione preoccupata quando l’amica lo guardò in viso.
«Ehi, va tutto bene?»
Roxas scese dalla sua tavola.
Cercò di tornare a respirare normalmente.
«Scusami. Io... Io vorrei farcela,
davvero. Ho solo un po’... di...»
Abbassò lo sguardo, ma la voce della
ragazza lo raggiunse dall’altra parte del suo schermo, piena di dolcezza.
«... Ricordi?»
Lui si strinse nelle spalle, con un sorrisetto
colpevole.
Sentì i passi di Hayner
e Pence avvicinarsi senza fretta. Pensò che
quel rumore era strano; era assurda la mancanza del grattare delle ruote delle
loro tavole sulla pista.
Si scosse al piccolo pugno di Hayner sul gomito.
«Va tutto bene, amico. Non sei
solo.»
Alla voce tranquilla di Pence.
«Giusto, Roxas.
Sempre insieme. Ti ricordi, no?»
Il ragazzo alzò gli occhi sui tre amici.
Li rivide come in quella foto, scattata due anni prima, che per tutto quel
tempo aveva atteso solo di essere guardata da lui. Rivide la propria
espressione nel rettangolo lucido di quel momento fissato per sempre. Alla fine
annuì.
«Prometto.»
Hayner, Olette
e Pence sorridevano.
Mentre rimetteva il piede destro sullo skate di Olette, Roxas si sentì
finalmente abbastanza sereno da sbirciare tra gli alberi al di là della
pista e chiedersi dove si fosse appostata la presenza che lo aveva guidato fin là.
* * *
Adesso
credeva di capire il perché di quella strana richiesta.
«Scusami, bimbo, ma non ci arrivo. Vuoi
che venga con te, però non vuoi che venga con te?»
«Non voglio che tu non venga con
me.» Un silenzio confuso. Il ragazzino si era preso la testa tra le mani.
«Aaah, mi stai facendo impazzire!»
«Evviva! Obiettivo raggiunto!»
«AXEL!»
Gli occhi azzurri scintillavano più del solito, lucidi di mille emozioni
contrastanti. «Sto cercando di farti capire quanto sia difficile.»
E in effetti, ora che – non visto –
lo guardava affrontarsi e affrontare quella dannata, semplicissima tavola con
le ruote, capiva. Capiva che Roxas non sapeva ancora
se attraversare quel ponte da solo o meno, capiva perché lo avesse
voluto così... ‘vicino ma non troppo’.
Ma aveva pensato che la sua presenza lo avrebbe
incoraggiato, e lui sentiva di dovergli
essere grato anche solo per questo.
E dopotutto, la sistemazione che si era trovato
non era neppure così male.
«Che ci fa un ex pivellino appollaiato
lassù?»
Axel sobbalzò e
rischiò di cadere dal ramo dell’acero su cui era seduto. Si
aggrappò al tronco appena in tempo e, con una certa apprensione mista
all’irritazione e alla sorpresa, guardò giù.
Ai piedi dell’albero c’era
l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere.
Demyx lo fissava di rimando,
con un sorriso storto e le sopracciglia aggrottate.
«È un pedinamento? Hai iniziato a
lavorare in proprio? Eppure una certa poliziotta di mia – di nostra conoscenza mi ha detto che anche
tu eri stato riaccolto dalla retta via.»
Punto nel vivo, Axel
dimenticò presto la sorpresa iniziale e rispose a tono, lieto di essere
in una posizione così sopraelevata.
«Vedo che ultimamente hai trovato anche il
senso dell’umorismo, oltre che alla luce della ragione. Buon per
te.»
Le labbra di Demyx
parvero congelarsi nel ghigno.
Cadde un silenzio lungo e imbarazzato, inframmezzato
solo dai lievi rumori del parco circostante, dal vento tra i rami
dell’acero e dalle voci smorzate dei pochi avventori, Hawk
Runners inclusi.
Axel non riuscì a
sostenere a lungo lo sguardo del vecchio compagno. L’ultima volta che si
erano parlati erano dallo stesso lato della barricata – quello opposto.
Adesso, anche se erano ancora dalla stessa parte, era una situazione
completamente diversa.
Fu Demyx il primo a
parlare.
«Posso venire su da te?»
Tornò a soppesarlo con gli occhi per un
tempo indefinito. Poi gli fece un cenno.
«Sali.»
Demyx si era sistemato su un ramo più basso, ma dalla sua
posizione riusciva anche lui a seguire la scena nella pista da skateboard; Axel lo capì quando lo sentì canticchiare tra
sé.
«He was a skater boy, she said: see you
later, boy...» Appoggiandosi
alla corteccia e incrociate le braccia, il ragazzo abbandonò
l’aria svagata e tornò a guardarlo. «Beh, che ci facciamo
quassù?»
Axel sorrise, gli occhi
già di nuovo fissi su Roxas. «Tu, non lo
so. Io sono qui per vedere dove va la mia
retta via.»
Demyx non replicò.
Magari non aveva capito, o, se aveva capito, non intendeva chiedere niente.
Axel puntò un piede
sul ramo e distese il braccio sul ginocchio. L’acero costituiva un luogo
d’osservazione molto ospitale; per un attimo gli ricordò il faggio
piantato dietro l’orfanotrofio, quella pianta altissima – almeno
così gli pareva allora – dove lui e Xion
un tempo si erano fabbricati un covo e sulle cui asperità avevano
lasciato parecchia epidermide, unghie e sangue.
Si stava già preparando a un altro lungo
silenzio, ma la voce di Demyx lo sorprese ancora una
volta.
«Lo sai perché l’ho
fatto?»
Non si era aspettato di affrontare
l’argomento in modo così diretto. Abbassò lo sguardo, ma
non incontrò il suo; allora si concentrò di nuovo sulle
ripetizioni di skateboard di Roxas e scosse piano la
testa, certo che Demyx stesse in realtà
osservando tutti i suoi movimenti.
L’altro parlò nel tono di chi
ancora riflette su ciò che sta per dire.
«È una storia... beh, lunga. Anche
un po’ assurda.»
Axel si trattenne dal
sorridere. Ne sapeva qualcosa, di storie assurde.
Alla fine Demyx
cambiò posizione, piegò le braccia dietro la testa e
iniziò un’ennesima confessione.
«Quando avevo dieci anni»
esordì, la voce a un livello che avrebbe potuto confondersi col fruscio
delle foglie nel vento, «mio nonno morì nel sonno. Era già
molto vecchio quando mia sorella ed io c’eravamo trasferiti da lui. Era
il nostro unico parente. A quel punto, noi due finimmo in un istituto.»
Che strano. Le tappe della vita di Demyx sembravano coincidere con le sue. Cercò di
immaginarsi sua sorella, senza riuscirci, e si chiese dove sarebbe andato a
finire quel racconto che partiva da così lontano.
«Non passò molto tempo che il posto
fallì.» Nella voce del vecchio compagno tremò un sorriso
dal suono sconfitto. «Lo sai anche tu, credo; i soldi sono un problema di
tutti, e dato che la presenza di noi poveri orfanelli gliene assicurava pochi e
gliene toglieva troppi, il buon vecchio direttore prese la drastica decisione
di spedirci tutti in altre strutture altrettanto economiche, di passare ad
altri quella patata bollente. In questo modo, più o meno, finimmo tutti
separati. Quello fu l’ultimo giorno in cui vidi mia sorella.»
Anche senza guardarlo, Axel
sapeva che i suoi occhi erano chiusi, lontani quanto i ricordi che stava
rievocando per lui, per spiegargli qualcosa che – sospettava – alla
fine avrebbe compreso fin troppo bene.
«Insieme ad altri due ragazzini, io ero
destinato a finire da qualche parte a Traverse Town. Ma ero disperato. Avevo
promesso a mia sorella che saremmo stati sempre insieme... Dovevo provare a
mantenere la parola, dovevo farmi perdonare. Una volta in stazione, aspettai
che nessuno badasse a me e saltai sul primo treno in partenza. Alla prima
fermata ne scelsi un altro, poi un altro ancora, e così per altre tre o
quattro volte. Credo di aver attraversato quasi tutto il Paese, in questo modo.
Però stavo ingannando me stesso. Non sapevo dove trovarla, non mi avevano
detto dove l’avrebbero portata. Non avevo più nemmeno la speranza
di rivederla.» Demyx tacque per qualche
istante; poi la sua voce si riempì di affetto. «Mia sorella si
chiama Xion, e oggi ha quasi quindici anni.»
Per la prima volta dall’inizio della sua
storia, Axel si voltò a guardarlo. La
meraviglia scatenata dalle sue ultime parole fu seconda soltanto a quella che
gli suscitò la vista della lacrima che gli rigava la guancia.
Demyx non se ne curò:
continuava a fissare la coltre verde di foglie che gli sfioravano la testa.
«Arrivai a Twilight
Town» riprese, «e smisi di scegliere treni a caso. Non potevo
farcela. Avevo solo dodici anni. Avevo fame, e faceva freddo. In una parola,
mollai. E credo che sarei finito a vivere tra i barboni proprio in questo
parco, se su quel marciapiede sporco non mi avesse trovato Marluxia.»
La pausa che seguì fu di certo la
più pesante. Durò solo l’arco di un sospiro, ma il modo in
cui aveva pronunciato quel nome indusse Axel a
chiedersi se in quel sospiro ci fosse anche un filo di rimpianto.
«Da allora non ho quasi più pensato
a Xion» continuò Demyx
in un sussurro. «Probabilmente cercavo solo di annegare i sensi di colpa
per non essere riuscito a ritrovarla. Ma poi, solo il mese scorso, Marluxia mi ha affidato quel... quel compito...» La
faccia gli si contorse in una smorfia di dolore. «C’era una ragazzina,
un viso nuovo, che lo interessava
molto. Pensava di potersi assicurare una nuova cliente. E invece che
coinvolgere te, per una volta voleva contare sulla... mia...
disponibilità.» Voltò il capo, quel tanto che gli bastava
per poterlo guardare negli occhi. Ormai c’era solo un’innaturale
durezza nei suoi lineamenti, fredda e disgustata, come il suo tono di voce.
«Mi ha ordinato di vendere della droga a mia sorella, Axel.
A mia sorella, che credevo di aver
perso, e che forse a quel punto avrei perso per davvero.»
Fu Axel il primo a
guardare altrove. Non riusciva più a vedere Roxas
e i suoi amici, né la pista. I suoi occhi erano persi nella storia di Demyx.
«Io non sono uno psicologo, non so
definire cosa mi sia successo. Diciamo che, quando ho rivisto la mia vita e mi
sono trovato davanti all’eventualità di rinnegarla una volta per
tutte, ho aperto gli occhi. Forse è come hai detto tu: la luce della
ragione.» Di nuovo l’eco di quel sorriso sconfitto.
«Chissà.»
Cadde il silenzio. La pausa si protrasse. Axel cercò una domanda per romperla, ma appena
iniziò a parlare, le parole gli sembrarono inutili e senza senso.
«Lui sapeva...?»
Demyx gli venne
miracolosamente in aiuto.
«Se sapeva chi era lei?» Sospirò
ancora. «Non ne ho idea. Ci sono cose che non saprò mai. Come non
riuscirò mai a capire perché si sia lasciato prendere così
facilmente.»
Axel scosse la testa. Aveva
una sua teoria precisa al riguardo; avrebbe potuto esporgliela... Ma Demyx aveva ragione, rifletté concentrandosi su Roxas – che in quel momento scivolava più
deciso sullo skateboard di Olette, tanto spontaneo da
far credere che quella tavola fosse sempre stata la sua. C’erano davvero cose che nessuno avrebbe mai
potuto dire con assoluta certezza di poter capire.
«Perché non mi hai messo in
mezzo?»
La domanda si era posta da sola, senza che lui
se ne rendesse conto.
Tanto valeva aspettare una risposta.
Demyx rimase in silenzio per
un po’. Poi, ai margini del suo campo visivo, scrollò le spalle.
«Tu non c’entravi niente, con noi.
Magari tu non te ne accorgevi, ma io sì. Ero come te...
all’inizio.»
Axel lo guardò di
nuovo. Stava ancora assimilando le sue parole quando lo vide allontanare la
schiena dal tronco dell’acero.
«Devo andare.» La sua voce era
tornata leggera, pratica. «Stavo giusto andando a trovare Xion. Ora che la sua famiglia adottiva si è
trasferita da queste parti, ci tengo a recuperare tutto il tempo
perduto.» Cominciò a scendere dal ramo. «Magari ci si
rivede, pivellino.»
In silenzio, Axel lo
osservò saltare a terra. Quando l’altro sollevò lo sguardo,
gli indirizzò un sorrisetto.
«Fammi un favore. Porta a tua sorella i
saluti di Axel Hibana.»
Demyx ricambiò il
sorriso. «D’accordo.»
Si allontanò attraverso il parco, verso
il sentiero asfaltato che ne usciva, una delle tante linee conosciute o meno
che correvano in quel fulcro di vite normali e su cui qualcosa era iniziato e
finito.
Axel si voltò di
nuovo e lasciò scivolare la gamba, fino a tornare cavalcioni sul ramo.
Fissò gli Hawk Runners.
Invece di ripercorrere la ‘lunga e assurda’ storia di Demyx, lasciò che la canzone che poco prima gli
aveva sentito cantare gli affiorasse alle labbra.
«... There is more than meets the eye, I see
the soul that is inside...»
«Mia
sorella si chiama Xion...»
Assurdo. Davvero
assurdo.
Sulla pista davanti alla fila di alberi, Roxas impennò la tavola.
«I’m with the skater boy; I
said: see you later, boy, I’ll be back stage after the show.» Assieme alle parole, gli sfuggì un sorriso. «I’ll be at a studio
singing the song we wrote about a girl you used to know...»
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Visto
che aveva un senso, la storia della ragazzina? ^^
La
canzoncina canticchiata prima da Demyx e poi da Axel è, naturalmente, Skater boy di Avril Lavigne.
...
Io sono sicura che nel prossimo capitolo mi odierete. *scappa*
Aya ~