Prologo
Time
Sbatté il polso sottile
contro le porte bloccate dell’ascensore. Doveva salire,
doveva fare in fretta,
all’ultimo piano avevano bisogno di aiuto, e non poteva
fermarsi. Si
girò e corse verso le scale antincendio
del palazzo, non le importava che sarebbe arrivata sfiancata, che era
già
abbastanza esausta, che ci avrebbe messo tantissimo tempo: era
l’unica
possibilità che avevano; quell’incursione era
stata pianificata a lungo,
dovevano portarla a termine, o sarebbero morti. Tutti.
Livello dopo livello
continuava a correre, ma il respiro si faceva sempre più
corto, i polmoni
bruciavano e i polpacci le davano fitte continue e insopportabili,
nonostante
il suo corpo fosse allenato allo sforzo dopo tutti gli anni passati
nella
foresta.
Sedici, diciassette. La testa le pulsava, stava rallentando, ma
sarebbe andata avanti ad ogni costo.
Ventidue,
ventitré, ventiquattro. La meta era sempre più vicina,
tuttavia le forze
la stavano abbandonando.
Ventinove. Un ultimo piano, ancora un piccolo sacrificio.
Mancavano ancora cinque o
sei gradini quando cadde per terra esausta, sbattendo la fronte contro
uno
degli spigoli. Il sangue le bagnò le ciglia. Le sue gambe,
infine, avevano
ceduto; la sua volontà non aveva resistito abbastanza, non
era riuscita a
dominare il suo corpo.
Un urlo. Lo riconosceva,
era l’urlo di lei, la sua odiosa compagna, che, doveva
ammetterlo, aveva un
grande coraggio. Quell’inutile ossicino ricoperto di pelle
stava combattendo
con le unghie e con i denti, mentre lei non faceva altro che stare
lì, in
ginocchio, con la testa appoggiata alla liscia superficie marmorea di
uno
scalino. Alzò improvvisamente la viso: se non riusciva a
farlo per altruismo,
o anche soltanto per salvarsi la pelle, ce l’avrebbe fatta
per orgoglio, e
avrebbe dimostrato che lei non era inferiore a nessuno,
men che meno a quella testa vuota dai capelli scuri.
Si aggrappò alla
ringhiera, salì un gradino dopo l’altro sulle
ginocchia, facendo forza sulle
braccia. E alla fine ce la fece, arrivò in cima. Si rimise
in piedi, mosse
qualche passo un po’ traballante per andare ad aprire la
porta da cui era
venuto il grido.
Vide uno spettacolo
scoraggiante: la ragazza che disprezzava stava lottando con quello che
intuì
fosse il capo dell’Ywis, e il giovane biondo che stava con
lei se la stava
vedendo con un uomo enorme vestito di nero. Entrambi stavano per avere
la
peggio.
Era paralizzata.
Improvvisamente, l’audacia che l’aveva animava era
scivolata via per lasciare il
posto alla paura, viscida e appiccicosa. Ora che era lì, e
che avrebbe potuto
salvare la situazione, era immobile, bloccata dalla sua codardia e
meschinità:
non riusciva a far altro che voltare la testa. Come sempre
d’altronde.
Come quando aveva chiuso
gli occhi mentre la madre sceglieva di morire per salvarla.
Come quando si era girata
invece che aiutare chi le voleva bene e le chiedeva solo un
po’ di pietà, un
po’ di quelle cure che lei conosceva.
Come quando era scappata
via piuttosto che salvare l’unica persona che aveva amato e a
cui una malattia
stava succhiando la vita.
In un momento, l’uomo
–piuttosto giovane, ora che lo vedeva meglio- che le stava
rovinando la vita si
scrollò di dosso l’avversaria, scagliandola
lontano, mentre quella perdeva i
sensi.
Lui si girò, e parlò.
«Ben trovata, Skai. Da quanto tempo … !»
Skai lo guardò; la rabbia
la avvolse, il cuore ebbe un fremito, e una furia cieca
iniziò a scorrerle
ardente nelle vene. Alla fine, lo aveva riconosciuto. Tutto il tempo,
ogni
tormento e dolore che aveva provato erano stati infondati, lui era
lì che la
scrutava con i suoi occhi azzurri come il ghiaccio.
Chiuse gli occhi, mentre i muscoli tremavano; semplicemente, spense la mente. E subito gli fu addosso.