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Autore: VittorioMass    24/08/2011    1 recensioni
Avete viaggiato a lungo, siete giunti in una terra sconosciuta, avete assecondato l'amore di una donna perché lo voleva vostra madre. Poi capite che dovete ripartire senza indugio e senza una parola verso quella donna che avete in qualche modo ingannato. Come vi sentireste? Perciò non mi piaceva questo brano della grandissima opera di Virgilio. Questa è una lettera che Enea indirizza a Didone poco prima della fuga precipitosa verso l'Italia.
Poesia epica di 68 endecasillabi sciolti.
Genere: Drammatico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Parche, tremende signore fatali,
più nere del guardo di Morte, dite:
che cosa debbo fare, pio Enea,
qual è il fato mio, deh, parlate!"
Sì pregavo il destino illacrimabile,
sì el rispondea con verbi duri:
"Italia, Italia, Italia è la terra,
di Dardano la patria conquistare
dovrai, lottando coraggioso e pio".
Lucente Didone, grande regina
io debbo veleggiar per l'alto mare,
giunger a Vesperia, casa paterna,
e là far Troia nuova e più forte
d'Ilio, che cadde al fuoco e all'inganno.
Tu m'offristi di restar con te, dolce,
di regnar con te a Cartago eccelsa.
Or tu vedi invece che non può Troia
divider con alcuno il suo dominio.
Non da qua, non da qua i Teucri gloriosi
partiron navigando verso Oriente,
questa non è patria, non è la casa
degli antenati antichi dei Troiani.
Non con l'inganno, con le ferree armi,
non per Cupido, per il grave Marte
passerà la rifondazione d'Ilio,
non l'amore di regina, ma l'arme
di principe eroico che vincerà
la mano degli dei e del pio Enea.
Così è il fato, così è il volere
delle tre figure nere, mortali.
In verità neanche il pie' posar
dovevo su queste coste, poichè
Giunone bianco braccio non volea
e contra me tempesta scatenò,
forse più aspra e dura anche di quella
che, rimembri, ululava quando noi
in quella grotta fredda ci sposammo,
a cor lieve, senza pensar che cosa
nefasta fosse; fuori il fortunale
gridava agli immortali il peccato.
Era la procella lite divina,
le dee per te e per me lottavan dure,
e Venere Citerea, madre mia,
Giunone, braccio bianco, dea tua,
facevan strida acute tra le nubi,
chè Giuno, bianco braccio, aveva visto
la tua fine e della città per me.
Lo volle il fato e non si può andar contro:
chi siamo noi, creature sulla Terra,
per contrastar colui a cui Giove
ubbidisce servante a capo chino?
Tu m'ami, a causa mia il tuo voto
sciogliesti, scellerata azione umana,
per renderci insieme re potenti.
Ma giuro, ciò non è per farti male,
ma devo pur chiarire questo fatto:
che fu mia madre a farti innamorare
di me, che obbedii al suo comando
pur non provando certo grande ardore.
Infatti è scritto dalle nere Parche
che i figli miei saranno dei nemici
pei figli tuoi che non saranno miei:
e su Cartago il sale alfin cadrà.
Sii pia e non opporti a ciò che viene
filato e intrecciato dalle due prime
e che la terza infine taglierà.
Or vado, sii felice Dido cara,
sempre ti guidino i numi beati.
  
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