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Autore: Carlos Ray    27/08/2011    1 recensioni
IN FASE DI REVISIONE
Quattro amici e le loro notti.
Sterminatori.
Lui, Ray Johnson. Un passato nascosto e drammatico, che non vuole svelare.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vengo dall'Inferno'
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Piccola introduzione.
Si tratta di una storia originale, non di una FF in senso stretto. E' però presente un personaggio che è ispirato alla Kikyo di Inuyasha, e che ne porta il nome e condivide altre caratteristiche.
La storia presenta un linguaggio spesso scurrile per necessità narrativa e alcune scene violente: se le parolacce o violenza vi urtano, non procedete. Se cercate una storia semplicemente "macho", non fa per voi. Per quanto il contesto sia d'azione e possa ingannare, si tratta di una storia che vuole essere altro. Drammatica, innanzitutto.
Niente remore sui commenti: il mio obiettivo è crescere, perciò sono interessatissimo a qualunque impressione o appunto. Si chiede però a tutti il mantenimento del rispetto prima di tutto. Grazie a tutti.


Sera tarda.
Los Angeles, California.
L.A. è una città importante ed imponente. Ma di notte suscita emozioni particolari.
E’ una massa informe di luci, tanto luminose per nascondere il marcio, tanto abbaglianti da dare un’aria tetra alle strade, ai vicoli, ai palazzi non bagnati dalla ribalta. Agli spettatori di poco tempo, turisti estivi che giungono già opportunamente farciti di immagini provenienti dai loro televisori, può sembrare magnifica. E per certi aspetti lo é.
Magnifica e mastodontica. Troppo.
Los Angeles di notte a volte ti schiaccia, ti opprime, è qualcosa di troppo grande e troppo distante da poter essere vissuto appieno.
E quando qualcosa ci opprime, non facciamo altro che racchiuderci in luoghi più piccoli. Forse più accoglienti, più familiari, eppure non di rado anche quei luoghi assurgono a presenza ingombrante, e nemmeno ce ne accorgiamo, accecati dalla routine in cui ci inebriamo, offuscando i nostri stessi sensi….luoghi che diventavano una necessità sicura nelle nostre vite.
Ma non era il destino di quel locale.
L’aspetto non era certo rassicurante…l’insegna al neon era difettosa, e gettava un’inquietante luce rossa intermittente nel vicolo sul quale il bar chiamato Blood si affacciava.
Quel locale era quasi sempre pieno, per quanto i clienti regolari fossero pochi.
All’interno, l’ambiente era meno spettrale: c’era una sola, ampia sala che ospitava un discreto numero di tavolini, mentre un lungo bancone in legno massiccio stazionava sul fondo. Le spoglie pareti erano composte da qualcosa che sembrava pietra scura, e che rendeva il posto non molto illuminato.
Anche quella sera, come molte altre, quattro ragazzi erano sul palco. Non si trattava di una semplice band di giovani cullati dal sogno del dorato mondo della musica, a cui era donata la speranza di un ipotetico futuro glorioso come il presente reale mai sarebbe stato.
No, non avevano quel sogno, in realtà. Loro erano i proprietari del locale. Quattro ragazzi con un’attività già avviata, che aggiungevano alle loro giornate quel pizzico di libertà ogni sera, su quel piccolo quadrato di legno che li ospitava, ben visibile da tutti gli angoli di quel vasto bar.
Di fronte a tutti vi era il cantante, Ray Johnson, nel punto più in vista del locale. Tutti lo conoscevano, ma nessuno sapeva niente di lui che non riguardasse la sua musica. Qualche volta imbracciava la chitarra acustica, ed era il principale autore dei testi. Non amava parlare con la clientela, e i pochi che frequentavano il locale più di una volta non ricordavano di averlo mai visto vestito di un colore che non fosse il nero.
Alle sue spalle c’erano gli altri tre ragazzi. Jake il bassista era alla sua sinistra, mentre Max, chitarrista, era sull’altro lato, un po’ più vicino a Ray. Sullo sfondo si stagliava l’imponente figura del batterista nonché autore della musica Robert, che mostrava qualche anno in più dei suoi amici, tutti nati poco più di ventuno anni prima.
The Sage, così si facevano chiamare. Quasi un anno e mezzo prima avevano acquistato il locale, riuscendo a trarvi notevole guadagno. Girava voce abitassero in una bella casa appena fuori Los Angeles.
Il loro affiatamento sul palco era notevole, frutto probabilmente della loro grande amicizia, evidente anche a chi passava casualmente dal Blood per pochi minuti. Per quanto proponessero varie canzoni originali, il loro repertorio includeva molte cover.
Spesso Ray chiudeva con un brano lento, per raffreddare la clientela quando era scatenata e soddisfatta della performance dei ragazzi. Quella sera invece sentiva che i suoi spettatori avessero bisogno di una maggior energia: chiuse perciò con uno dei suoi pezzi originali più vivaci, messo in musica da Robert, “My Enemy is inside me”,guadagnandosi la sonora approvazione del pubblico alla chiusura del pezzo.
“Grazie a tutti! Spero di rivedervi domani sera, apertura alle sei di sera, come al solito.” gridò il frontman Ray Johnson, per poi fare un cenno distratto al barista. “Ora, signori, mi dispiace ma dobbiamo chiudere.”
I ragazzi riposero i loro strumenti in un minuscolo sgabuzzino a fianco del palco, quasi impossibile da notare se non da pochi metri di distanza. Robert si attardò per smontare la batteria.
Ray invece si diresse verso Mick, il barista.
“Allora, domani pomeriggio Max viene per darti una mano a mettere a posto tutto.”
Il barista annuì.
“Ora vai pure, chiudiamo noi.” gli disse Ray, per poi tornare verso i ragazzi. La sala ormai era vuota.
“Robert, cazzo, rimetti via quel pacchetto.” esclamò con una punta di veemenza Ray, vedendo l’amico estrarre qualcosa dalla tasca della giacca. “Perché ti ostini a fumarci in faccia? Lo sai che devi uscire per farlo.”
“Eddai, Raymond.” si lamentò Rob, uscendo dallo sgabuzzino insieme agli altri.
“Se mi chiami ancora così ti rompo una chitarra in testa.”
“Spiritoso!” ribatté Robert, notevolmente più alto degli amici, cercando con complicità lo sguardo di Max, che gli era accanto. Ma il ragazzo dai folti capelli neri regolarmente rifiutava con sdegno di calarsi nell’ormai immancabile battibecco tra Ray e Rob. Proprio quest'ultimo che era il meno giovane del gruppo, pensava…
“Quanti?” chiese il primo chitarrista a nessuno in particolare.
“Ne ho notati tre che erano qui insieme.” rispose Jake. Stranamente il ragazzo, che di norma era ben più attivo, era rimasto in silenzio fino ad allora, accarezzandosi nervosamente la nuova frangetta calata sulla fronte.
“Si, ho capito di quali parli, devono essere i soliti tre novellini che non si degnano nemmeno di non farsi notare.” intervenne Ray. “Me ne occupo io, poi vi raggiungo a casa.”
“Vuoi prendere la mia moto?” gli chiese Jake.
“No, te la lascio volentieri. Vediamo se a forza di andare alle tue solite velocità ti sfracelli finalmente il cranio.”
“Lo sai che è impossibile. Sono troppo bravo. O se preferisci, ho un culo madornale.” sorrise il ragazzo, smettendo finalmente di giocherellare con i propri capelli.
“Oh, a proposito, domani usciamo. Voglio presentarti un'amica di Johanna.” fece Robert rivolto al cantante, aggiungendo una strizzatina d'occhio.
“Mmm…”
“Dalla tua faccia non sembri molto convinto. Se vuoi vado io al posto tuo...” disse Jake.
“Eddai, sei un bastardo! Il nostro Ray è da un bel pezzo che non ha una ragazza fissa.” protestò Robert, fintamente indignato.
“Invoco il diritto di anzianità!” esclamò Ray.
“A proposito, da quanto...?” chiese Jake.
“Se contiamo solo le relazioni fisse?” lo interruppe il frontman. “Da quando ero in Giappone.”
“Mi arrendo, avete vinto.” sbadigliò Jake.
“Fottetevi e andatevene. Vi raggiungo io tra qualche ora, ho detto.”
“Okay.”
I ragazzi quindi uscirono, non prima di aver preso le loro cose. Anche Ray prese le sue fedelissime compagne di vita. Beretta e Katana.
 
“Sentito come suonano?”
“Già, mi piacciono quei tipi.”
“A me non tanto, penso che prima o poi me ne occuperò. In effetti ho proprio sete di quei quattro bastardi.”
Tre ragazzi, ubriachi, chiacchieravano attraversando un vicolo. Non si preoccupavano di non fare baccano: non c’era nessuno in quella buia e stretta via. O almeno così credevano, fino a quando udirono una voce alle spalle che li sorprese.
“A chi hai dato del bastardo?”
I tre si voltarono.
Un’occhiata veloce rivelò un giovane ragazzo interamente vestito di nero. Il giovane venne loro incontro, sfilandosi i Ray-Ban scuri e destinandoli ad una tasca della sua giacca nera che, aperta, rivelava una magliette con sottili e lucide rifiniture di un colore indefinito, più ombroso dell’argento. Anche i suoi occhi avevano un colore non del tutto delineato: era un curioso guazzabuglio tra il grigio, l’azzurro ed il verde. I capelli potevano sembrare castani, ma in realtà erano diversi, più chiari. Non era particolarmente alto, non arrivava al metro e ottanta, ma era slanciato ed atletico.
L’espressione sul suo volto andava oltre la sicurezza: era sfrontatamente ironica, di sfida, beffarda. E sembrava che quei ragazzi conoscessero quell’espressione.
“Ehi, tu sei il frontman del gruppo di quel locale...” disse uno dei ragazzi, perplesso.
“Già.” confermò lui. “Sbaglio o vi ho sentito dire che avete sete di me e dei miei amici?”
“Ah, ma non penso tu sappia cosa intendo.”
“Oh, fidati, lo so meglio di te.” esclamò Ray.
Il ragazzo, sicuro, li fissava ad uno ad uno.
“Credete di essere potenti? Siete solo degli ubriachi spacconi coi denti più lunghi del normale. Normalissima, fottutissima routine.”
I tre giovani si guardarono, sorridendo.
“Ragazzi, penso che dobbiamo chiudergli la bocca.” disse uno di loro.
“Già, hai ragione.” approvò un altro, evidenziando i propri canini innaturalmente lunghi.
I tre lo attaccarono in contemporanea, affidandosi alla superiorità numerica. Ma sfortunatamente non avevano a che fare con un impaurito passante.
Ray respinse l’attacco, sgusciando via di lato e trovandosi vicino ad uno di loro, che colpì violentemente con due calci in successione, al petto e al collo.
Il primo avversario andò al suolo, e Ray non attese, aggredendo i due rimasti con sorprendente rapidità, quasi senza permettere una loro reazione.
Atterrato il secondo con una serie di pugni al capo, l’ultimo fu afferrato per il braccio dal frontman, che gli slogò la spalla per poi colpirlo in faccia con un calcio.
Ma il primo dei tre ragazzi si era rialzato, avventandosi su Ray, che lo imprigionò in una presa al collo, forzandolo fino a sentire l’osso spezzarsi.
Ray lasciò cadere il corpo a terra, sfruttando gli attimi di tregua per afferrare un lungo oggetto legato al proprio fianco, una sorta di involucro nero.
Ma il ragazzo, pur avendo il collo spezzato, si rialzò.
“Non serve a niente, sai?” disse sorridendo, mentre gli altri due si rialzavano.
“Certo che lo so. Per farvi fuori...” Ray in un attimo aveva tagliato in due il nemico, che bruciò all’istante, riducendosi in cenere.
Aveva tirato fuori la sua katana, lucida e letale.
“...basta solo colpirvi al cuore.”
La stessa sorte toccò agli altri due.
Non c'era bisogno di niente di particolarmente elaborato: né argento, né paletti di frassino. Per far fuori i vampiri bastava tagliare il loro cuore o trapassarlo con un proiettile.
E di quegli esseri non rimaneva che una manciata di polvere.
Il ragazzo guardò il cielo: il buio non riusciva a nascondere la minaccia di una forte pioggia. Ray sorrise senz’allegria. Abbassò il capo verso ciò che era rimasto di quei tre insignificanti sconosciuti. Volti che non avrebbe ricordato.
Avevano cercato qualcosa che non spettava a loro: la sua vita.
Girò i tacchi, incamminandosi verso un’altra strada, un altro percorso, altre prede. Quei tre disgraziati sarebbero diventati polvere bagnata, per poi fare un ultimo breve viaggio attraverso un tombino e mescolarsi all’acqua di fogna. Era una prospettiva penosa e indegna, ma il ragazzo sembrava totalmente indifferente a tutto ciò.
L'indifferenza era l'unica via per andare avanti.
Gridare spacconate era l'unico modo per sovrastare il grido di dolore della sua anima oppressa da ciò che doveva fare.
Ray Johnson se ne andò via rinfoderando la sua spada, pensando solo a trovarne altri esemplari.
Prede….
La sua vita non sarebbe mai stata presa da nessuno di loro. Perché solo una persona aveva il diritto di averla, ed era molto lontana da quel luogo.
“Normalissima, fottutissima routine.”  
 
NOTE: Si, l’ho pesantemente modificato. Grazie davvero a Elena, che con molta pazienza mi ha fatto notare le mie (madornali, a mio parere) distrazioni. Avere una lettrice come te mi rende felice, perché comprendi e mi fai comprendere. Solo così posso migliorarmi, come ti ho detto molte volte. E quindi ci sta una bella “nota di merito”, anche perchè l'immagine della polvere bagnata che scivola tristemente via scomparendo in uno squallido tombino è un suo parto.
  
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