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Autore: Cassandra Morgana    29/08/2011    1 recensioni
Sullo sfondo chiaroscurale di un'Accademia d'Arte Drammatica con troppe maschere da indossare e una posta in gioco che sale, tre ragazzi si incontrano.
Elena vince il proprio mal di vivere grazie a un'amicizia speciale, al ritrovato coraggio di gestire i conflitti e a un forte altruismo; si scontra con Isa, la sua nemesi, voce contraria e complementare che cerca di tessere una storia opposta.
Andrea, ragazzo ambiguo e dalla lingua affilata, vuole recuperare la stima di chi, troppo tardi, si è reso conto di amare.
Gabriele imbroglia la propria depressione fumando spinelli, nutre sentimenti ambivalenti verso Andrea e gioca da burattinaio.
Tra pettegolezzi sussurrati, volontà opposte in rotta di collisione, ambizioni frustrate, gelosie, complotti sotterranei, storie di ordinaria omofobia, dark enigmatici, musicisti irascibili, ex amanti, amicizie inossidabili e amori taciuti, in una storia in cui ognuno vuole far sentire la propria voce, resta solo stabilire chi sia Cleopatra e chi il serpente che le insidia il seno.
[Storia sesta classificata e vincitrice del premio "Stile e scrittura più originale" al contest Chi è normale non ha molta fantasia - La storia più originale su EFP, indetto da Butterphil]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Capitolo 26

Voci di corridoio

 

 

Andrea ha preferito per un giorno tenere la macchina a riposo. Rinunciare all’ingresso trionfale con parcheggio di fortuna e tintinnio di chiavi appese alle dita. I capelli scompigliati dal vento quasi gli intralciano la visuale. Ansando per la corsa, intercetta la linea numero 8. Che, spaccando il minuto, arriva come una promessa nell’aria. Preferisce confidare nella buona sorte di incontrare Elena o Gabriele e condividere la breve boccata d’ossigeno fino a destinazione. È un pensiero che gli vibra forte nelle vene. E di colpo, nella sua testa, il ronzio leggero del motore sotto i suoi piedi è una nenia rilassante. Sospira, Andrea. C’è qualcosa di impercettibilmente diverso – da qualche giorno. Forse perché ha sempre associato il tragitto in autobus a qualcosa di epidermicamente piacevole; forse è il momento ideale per lasciar vagare i pensieri senza i freni della razionalità, fino a destinazione. Ricorda i suoi primi giorni nel labirinto della città, l’attenzione tesa a memorizzare ogni itinerario, ogni dettaglio. Camminare là dentro è come camminare sulla luna, in equilibrio precario, qualche sprazzo azzurro pallido tra il profilo squadrato del finestrino e gli spiragli luminosi tra un edificio e l’altro. E oggi c’è un sentore di primavera dal fascino lunare, gravido di indefinite aspettative, come quei sogni fumosi in cui la quotidianità ha un sapore particolare.

Sorride tra sé, Andrea, aggrappato al sostegno di metallo; cerca una posizione che gli consenta di mantenere l’equilibrio, appena in tempo da non trovarsi sbalzato contro il passeggero seduto a fianco grazie ad una svolta brusca. Stretto tra il proprio braccio e il fianco destro, al sicuro dagli scossoni, il suo carico eccezionale: un parallelepipedo di plastica chiuso sul davanti da una rete di metallo.

Il vento è cambiato, da quando Gabriele è venuto a raccogliere le sue lacrime dopo il fattaccio con Riccardi. Da quando ha pensato di condividere con lui un paio di istanti di intimità, una manciata simbolica – e avrebbero potuto fare l’amore, e non sarebbe stata la stessa cosa.

Andrea rabbrividisce mentre si lascia andare contro un supporto di fortuna – lo schienale del sedile di fronte. Ripensa all’intenso formicolio alla spina dorsale, quando le labbra di Gabriele si sono strette intorno al suo sesso, a quel calore insopportabile al basso ventre, al semplice fatto di essere lì, scoperto e del tutto indifeso di fronte all’uomo che ama disperatamente, e potrebbe cadere in deliquio seduta stante. Avere un sussulto improvviso.

Da qualche giorno gli sembra persino di non sentire le consuete pugnalate verbali, le occhiate di traverso e il gelo dell’indifferenza. Solo piccoli sbuffi d’aria intorno a lui, protetto dal suo cono di luce.

Ha persino avuto fortuna, perché quelle spalle tese, quella schiena addossata al sedile a pochi passi da lui, quei capelli neri e arruffati, sono deliziosamente familiari.

Il tentativo di guadagnare i metri che lo separano da lui è una lotta contro l’ennesima manovra spericolata del conducente.

E finalmente è lì – a pochi passi da lui che gli volge le spalle. La borsa ferma e salda contro il petto e il finestrino aperto che gli scompiglia i capelli, con quei fottuti pollini vaganti che gli solleticano il naso, a fatica riesce a ritagliarsi un varco privilegiato, addossato al vetro.

- Ehi… – gli sibila a pochi centimetri dall’orecchio, sovrastando il rombo del motore e il brusio della città.

Suona un po’ sfacciato – ma ormai la frittata è servita, e può solo proseguire in quella direzione. Suona sfacciato come il gesto di piegarsi su di lui, circondargli le spalle e imprimersi sulle labbra la consistenza leggermente ruvida della sua mascella.

Gabriele si volta di scatto, distolto da ciò che sembra un sogno ad occhi aperti, e l’immersione totale nell’apatia del viaggio si spezza.

- Andrea…! Potevi essere solo tu.

Una vena leggermente acida nella voce, quel retrogusto amaro che ha sempre adorato – e rientra a pieno titolo nell’elenco di quelle cose che non gli dirà mai.

- Che ci fai qui? – incalza Gabriele, gettandogli un’occhiata distratta dietro gli occhiali da sole.

Andrea ridacchia e gli sfiora la nuca – forse sta osando troppo, forse qualche impiccione di passaggio è lì che lo osserva di soppiatto e registra ogni movimento, così che entro poche ore vi sia nuova linfa al Pettegolezzo della giornata. Ma dopo che le labbra di Gabriele si sono stampate su di lui, sarebbe ipocrita classificare il gesto sotto la voce “mediamente imbarazzante” – e il solo pensiero basta a incendiargli le gote.

- Viaggio, no? Cerco di arrivare puntuale a lezione – Andrea solleva un sopracciglio – Esattamente come te.

Gabriele si stringe nelle spalle. Chissà come prenderà l’idea di trascinarselo attaccato alle costole fino al capolinea…

- Non sapevo che avessi lezione di pomeriggio.

Se no avrei evitato di prendere questo dannato autobus. È così?

Le palpebre di Gabriele si assottigliano in una piega indagatrice.

- Non ora – sussurra Andrea, vago – Scendo un attimo alla Casa dello studente. Devo mettere questo carico al sicuro. Se vuoi, però, dopo posso farti compagnia… – ammicca.

Gabriele annuisce, non troppo entusiasta all’idea di tirarselo dietro fino a sera, incollato addosso a mo’ un francobollo. Ma neanche dispiaciuto. E la luce che gli vibra in fondo alle pupille crea un contrasto delizioso con la piega scettica delle labbra.

Andrea distoglie lo sguardo appena in tempo da non risultare ossessivo. Gabriele non lo ammetterà mai, eppure lui ci metterebbe la mano sul fuoco, che in fondo questo è tutto ciò che desidera – o che desiderava un tempo. Essere corteggiato da vicino.

L’altra nota positiva è che non sembra fumato: ha gli occhi perfettamente lucidi e se ne sta sulla difensiva, perché non ha altre barriere da opporre se non mostrarsi scostante. Mediamente acido.

- Non mi chiedi nemmeno… – azzarda Andrea, sollevando davanti a sé il trasportino color lavanda appeso al polso a mo’ di sporta.

Evita per miracolo un paio di scossoni, mantenendo un impeccabile equilibrio dentro il mostro metallico dall’andatura instabile.

- Andre, mi leggi nel pensiero…? – Gabriele sorride appena, fissandolo dritto negli occhi.

E si alza in piedi.

- Vieni, siediti al mio posto. Non ho paura per te, quanto per quel povero gatto… Che hai combinato, stavolta?

- Ho seguito il consiglio di Elena – Andrea scuote le ciglia, enigmatico.

È la mia musa, l’artefice del mio destino: come posso dirle di no, quando mi apre gli occhi?

Andrea si lascia andare contro il sedile, la gabbietta stretta contro il cuore in un inconscio istinto di protezione.

- Volevi fargli prendere un po’ d’aria? – Gabriele solleva un sopracciglio.

- Non è mio… Cioè, veramente lo è. Da oggi – Andrea tenta di modellare le labbra nel sorriso il più attraente che gli riesca – Dicevo… Elena. Il suo consiglio, in pratica, è di convogliare la mia “energia in eccesso” in qualcosa di buono, di costruttivo, anziché starmene lì col coltello tra i denti a meditare vendetta… Testuali parole. Quindi, eccoci qui. Lui si chiama Oscar – socchiude le palpebre sotto un raggio di sole improvviso, e a partire da quell’istante ogni attenzione è per la macchietta bianca che si agita e protende le zampine, ingaggiando una singolare lotta contro la rete metallica.

Forse il micio è così carino che riuscirà nel miracolo di addolcire il signor Sarcasmo da quattro soldi.

- L’hai trovato vicino a casa? – Gabriele corruga la fronte, aggrappato al sostegno del bus.

- Non proprio… Oh, è una lunga storia. Non molto simpatica – forse sarebbe il momento di tacere, ma la vocina dentro la sua testa diventa sempre più debole – Hai presente la scorsa settimana, quando mi sono ubriacato?

Brutta storia. Andrea sente le guance andare a fuoco, ma ormai la lingua ha fatto la sua parte, ficcandolo nel solito vicolo cieco. E ripresentandogli davanti agli occhi la moviola di un’immane figura di merda.

- Come dimenticarlo…! – Gabriele scuote le spalle.

Per poco non si piega in due nel soffocare una cavolo di risata idiota. E se la situazione non fosse così ad alto coefficiente d’imbarazzo, ci sarebbe da rifilargli una gomitata tra le costole.

- Ecco… La sera prima. Quella cazzo di Opel rossa, l’ho tamponata perché questo briccone qua si è tuffato in mezzo alla strada – prosegue Andrea, accennando con gli occhi al piccolo imbucato che sembra aver trovato nelle dita di Gabriele l’appendice ideale su cui rifarsi zanne e artigli.

- Tu sei completamente scemo! – Gabriele scuote la testa – Non per aver preso un gattino… Per tutto il resto.

- Avevo bevuto un po’. Sì, anche quella sera, contento? – Andrea vorrebbe improvvisamente diventare piccolo - più piccolo di Oscar che anela la libertà.

Si stringe il trasportino contro il petto come uno scudo, tentativo disperato di spostare il baricentro del discorso sull’urgenza di allontanare il cucciolo di tigre dal suo pasto a base di dita umane.

- Ah, ecco…! – Gabriele annuisce, sarcastico.

Non aggiunge altro, perché l’ha capito anche lui, che a furia di punzecchiarsi a vicenda, finirebbero solo per incartarsi in discorsi privi di sbocco. Ragazzo intelligente.

A lui, per quanto lo riguarda, è bastata l’infelice prospettiva di tirare Oscar sotto le ruote, per abbandonare da qui in avanti ogni velleità di mettersi al volante dopo un certo numero di birre. E meno male che c’era Elena con lui …

- Senti, l’ho portato adesso dal veterinario – prosegue Andrea – Scendo alla prossima. Lo sistemo provvisorio in camera mia e per un po’ cerco di tenere alla larga i rompipalle. Vieni con me? – scuote le ciglia.

Gabriele annuisce senza entusiasmo. Preferisce perdersi nell’estatica contemplazione del micino che si lecca le zampe, piuttosto che nei suoi occhi supplicanti.

Il peggio è che non riesce a dargli torto…

- Okay, quindi scendiamo alla prossima… – conclude Andrea al suo posto, allacciandosi i bottoni della giacca, con quella vocina impertinente nella testa a ripetergli che, di nuovo, lo sta tirando in una delle sue trovate da folle.

Poi, tutto accade troppo in fretta per rendersene conto.

Ha distolto lo sguardo, il tempo di seppellire la faccia in un fazzoletto di carta e starnutire con sentimento – mentre Gabriele prenotava la fermata e barcollava verso l’uscita. Poi è stato tutto uno stridio di freni e un tonfo di borse rotolate a terra e membra attorcigliate, con qualche distinto “ouch!” di sottofondo.

Il piccolo Oscar ha colto il momento per protestare con un miagolio acuto.

Andrea scuote le palpebre, stordito. Si strofina distrattamente la punta del naso e maledice l’inchiodata del conducente. La prima referenza del disastro in corso è un’istantanea del fondoschiena perfetto di Gabriele, con il suo illustre proprietario che tenta di rimettersi in piedi spazzolandosi i jeans. E una sagoma vagamente umana spalmata sotto di lui.

- Oddio, scusami, scusami, scusami! – è tutto ciò che riesce a biascicare l’incidentato alla cosa appena investita sulla sua traiettoria, la quale al momento giace spalmata a terra.

Andrea si sistema il trasportino sotto il braccio e si solleva in punta di piedi. Le porte del mostro di metallo si spalancano sotto i suoi occhi con un cigolio sinistro. Gabriele gli artiglia un braccio e si risolleva in piedi.

- Si può sapere cosa diavolo hai fatto?

- Giocavo a prenotarti la fermata – gli sibila Gabriele con un’occhiataccia, l’altra mano impegnata a massaggiarsi la fronte – Poi ho avuto una visione mistica e ho pensato di trovarmi ai campionati di salto in lungo…

Andrea spalanca gli occhi.

- Oh, cazzo…! – è tutto ciò che le sue labbra riescono a mettere insieme.

È bastata un’occhiata sommaria oltre le spalle di Gabriele. Sulla cosa che si rialza come se fosse senza peso, con un tintinnio di ferraglia. Un nodo allo stomaco e il sangue che, di colpo, prende a rombargli fastidiosamente nelle tempie.

Tranquillo, Andrea: è il solito karma malefico.

 

* * *

 

- Cosa si mangia a cena, stasera? – Federico Riccardi occhieggia beffardo verso di lei.

Poi ci ripensa e si affretta a rivolgere altrove il suo sorrisetto storto, speculare a quello di Alberti. I due si fissano per qualche secondo e scoppiano a ridere come imbecilli.

Isa solleva gli occhi al cielo, le gambe distese lungo la balaustra di marmo all’ingresso. Solleva la sigaretta e aspira una voluttuosa boccata. L’alternativa è tutta lì. Forse c’è anche l’opzione “tagliarsi le vene”.

Pensare che Andrea l’aveva quasi convinta a smettere di fumare – cosa che, del resto, non sembra essergli riuscita nemmeno con Loria.

- Oggi insalata di finocchi. Interi campi di finocchi – Alberti annuisce, la faccia atteggiata in un sorriso stiracchiato come una concessione al nipotino di quattro anni la mattina di Natale.

Isa serra le labbra intorno alla sigaretta accesa e incrocia le braccia sul petto. Da Riccardi si aspetta questo e ben altri saggi di fine ironia, ma non da Alessandro, che è e rimane un ragazzo munito di cervello. Si chiede che senso abbia, da parte sua, ribadire la sua leadership prestandosi a ogni genere di pagliacciata. Sospira. Forse è il suo modo di radunare intorno a sé il gregge: parlare il suo linguaggio.

- Oh, ma tu non hai sentito la novità… – le sibila Riccardi.

Isa arriccia il naso, un senso di repulsione che le serpeggia in fondo alla gola. Perché, quando sogghigna in quel modo, Riccardi le fa pensare a un imprenditore in crisi di mezza età che assiste a uno spettacolino erotico.

E poi fa una cosa che – Isa si osserva intorno orripilata, come a cercar testimoni – resterà negli annali delle cose da dimenticare o da ricordare come blanda attenuante a un omicidio: allunga una mano e gliela posa sul ginocchio.

Isa dirige il suo sorriso verso Alberti – un sorriso che odora disgustosamente di plastilina, ma non può fare altro. Perché no, c’è troppa gente in giro, e piantargli il tacco nell’occhio non sarebbe elegante.

Non la so, la novità. Illuminami, signor Babbeo. O tu che te ne stai lì a guardare.

- Sono due – Alberti giunge in suo soccorso, flemmatico, appena in tempo da stornare il cataclisma – Due grandi notizie.

- Cominciate da quella buona – cincischia Isa, annoiata, sottraendosi agli artigli di Riccardi con uno strattone e un’occhiata inceneritrice.

- Non ce n’è una buona. Sono orribili tutte e due – precisa Riccardi.

- Iniziate dalla peggiore – Isa china lo sguardo, mentre si riannoda il foulard intorno al collo.

Non c’è motivo per doversi fingere interessata all’ennesima puttanata.

- D’accordo. Fuori la peggiore – Riccardi distoglie lo sguardo come a misurare l’attesa – Tutto iniziò questo pomeriggio, dopo pranzo. Però, scusate, io proprio non ce la faccio, mi fa troppo schifo… Scusami, Alessandro – e sorride, mieloso, ricordandosi di colpo della sua presenza – A te. Ti cedo la patata bollente. Anche se di patate non c’è l’ombra.

- Eh? – Alessandro finge di cadere dalle nuvole – Oddio, quale delle due? Qual è la peggiore?

Isa trasale. Costretta a rimangiarsi una risatina isterica e a chiedersi se Alessandro finga di essere stupido o cerchi di creare aspettative. Non dev’essere facile camuffare la noia.

- Oh, quella! – aguzza le antenne – La scoperta dell’acqua calda!

Attende. Qualche secondo denso d’attesa, come prima di un annuncio di vitale importanza. Le iridi ruotano verso il cielo come ad abbracciare l’intero spazio intorno a loro. Evita il suo sguardo e dischiude le labbra.

Alle sue spalle, Riccardi finge di cacciarsi due dita in gola.

- Derossi e Nicoletti si sono baciati sull’autobus – sentenzia.

Prima mazzata, precisa e impietosa come quella manciata di parole veloci che si accavallano le une sulle altre, scandite con voce indifferente.

- Secondo Giulia e Federico, quei due stanno insieme…

Isa sente la saliva azzerarsi. La morsa di gelo allo stomaco di chi preferirebbe trovarsi da qualunque altra parte tranne nel luogo in cui ha deciso di parcheggiarsi. Non vede la sigaretta fumata a metà rotolarle giù dalle dita in seguito a uno scatto. Non sente la tensione che sale. Tutto ciò che le riesce è maciullare sotto la scarpa quel che resta del cilindretto fumante e calciarlo via.

Respira. Vorrebbe che ci fosse il tempo di razionalizzare la scoperta – almeno vedere quanto vi sia di vero. Ma sa anche che di lì a poco Riccardi sparerà inevitabilmente le sue conclusioni. Rischiando la soppressione a sangue freddo.

Nicoletti e Derossi. Il fighetto-popolare-sotuttoio-primo della classe e il tossicomane arrivista, il belloccio finto tonto che tonto non è.

Il suo miglior amico e il serpente a sonagli, la persona che più di tutte gli abbia mai fatto cadere le palle a terra – testuali parole, biascicate da Andrea una lontana sera al bar, di fronte ad un aperitivo: non lo reggo più, è come un calcio nei denti, lui e i suoi vittimismi, le frasi a metà, le rispostine acide. È sempre scazzato… E Dio sa a che diavolo alludesse. E Derossi che non faceva nulla per nascondere che lo odiava a morte.

Riccardi sa sempre scegliere con maestria il momento in cui versare sale sulla ferita – trattenuto appena da Alberti che, poveretto, ce la mette tutta per evitare incidenti diplomatici.

- Buono, Federico… E dai, ho detto qualcosa di male? Qualcosa che già non sapevate? – Alessandro si gratta il pizzetto, soprappensiero – Stanno a casa loro, eh. Non mordono, non pungono, non sono contagiosi.

- Tranquilli, il cazzo! Ringrazino che non c’ero io, dentro quel benedetto autobus, o sarebbero volati fuori a calci nel culo! – Riccardi solleva gli occhi al cielo, e ogni volta Isa stenta a capire se reciti un pessimo copione o se davvero la viva come una minaccia personale, perché anche stavolta sembra così vicino all’esplosione da non poter trattenere qualche colata di acido.

Il punto è che a Riccardi la cosa non lo tocca di striscio – tranne per la sua bizzarra ossessione secondo cui l’esistenza di un solo ragazzo gay sulla faccia della terra rappresenterebbe una concreta minaccia per le sue chiappe, o chissà cos’altro. Lui e Andrea non sono mai stati amici, non hanno mai avuto nulla in comune.

Tocca a lei, stavolta, agguantare il ferro per il manico rovente. Perché Nicoletti era il suo miglior amico, e ora le sue azioni, dalla prima all’ultima, sembrano uno snervante ribadire punto per punto, una rassegna completa di tutto ciò che una volta non avrebbe fatto manco sotto tortura. Come se ogni suo respiro fosse studiato ad arte per sembrare un dispetto compiaciuto a chi una volta riteneva amico: una farsa crudele con il capovolgimento totale e irreversibile del vecchio Andrea. E questa, in fondo, era anche prevedibile.

- E… quindi? – Isa si osserva le unghie, ma il tamburellare nervoso del piede contro lo scalino tradisce il suo nervosismo.

- E quindi niente, a parte che fanno schifo ai sorci. Stop, fine del discorso.

Ha detto la sua, Riccardi: un muro di fronte ad ogni obiezione. E se non sapesse che è un pirla, Isa penserebbe che veder scorrere il sangue lo diverta – Pensavo che ci tenessi a saperlo.

- Secondo te può fregarmene qualcosa di chi si porta a letto Andrea? – è la risposta, glaciale – Se Andrea pensa di farmi un dispetto o si sente figo a limonare con gente che una volta gli stava sulle palle, è un problema suo. Banalità per attirare l’attenzione – conclude, lapidaria.

- Già, come andare a letto con gli uomini e vantarsene in giro… Patetico! – Riccardi sogghigna, malizioso.

E sposta i suoi occhietti beffardi su Alberti.

- Nicoletti e Derossi! Insalata di finocchi, caro mio – ridacchia – Secondo te, dei due, chi è quello che fotte?

- Per favore, non farmici pensare…! – Alberti storce il naso – Dai, chi se ne frega, alla fine? Saranno anche cazzi loro.

Un taglio netto. Isa tenterebbe di pestargli un piede, se non apprezzasse quel tentativo disperato di insabbiare la questione, di uccidere ogni spunto per sommare fango al fango.

- Scommetto quello che vuoi che la femmina la fa Nicoletti – gli sibila Riccardi, velenoso.

- Perché ha i capelli lunghi e sembra una ragazzina? Nah, troppo scontato… – gli fa eco Alberti.

- Forse non hai tutti i torti… – gli occhi di Riccardi si illuminano – Non saprei. Nicoletti è una checca isterica, ma anche Derossi, voglio dire, mi sembra troppo moscio per prendere l’iniziativa. Secondo me ha una gran voglia di cetriolini sott’olio… – sussurra, concludendo il monologo con un gesto osceno.

Isa deglutisce a fatica – momento cruciale in cui tutto ciò che desidera è vomitare sui jeans buoni di Riccardi.

- Va bene, va bene! – Riccardi mette le mani avanti – Vi lascio il vostro dubbio amletico e, con permesso, me ne vado a lezione – biascica, un secondo prima di volatilizzarsi oltre la porta a vetri.

Resta solo Alberti. L’indecifrabile.

 

 

   
 
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