Capitolo
26
Voci di
corridoio
Andrea ha
preferito per un giorno tenere la macchina a riposo. Rinunciare all’ingresso
trionfale con parcheggio di fortuna e tintinnio di chiavi appese alle dita. I
capelli scompigliati dal vento quasi gli intralciano la visuale. Ansando per la
corsa, intercetta la linea numero 8. Che, spaccando il minuto, arriva come una
promessa nell’aria. Preferisce confidare nella buona sorte di incontrare Elena o
Gabriele e condividere la breve boccata d’ossigeno fino a destinazione. È un
pensiero che gli vibra forte nelle vene. E di colpo, nella sua testa, il ronzio
leggero del motore sotto i suoi piedi è una nenia rilassante. Sospira, Andrea.
C’è qualcosa di impercettibilmente diverso – da qualche giorno. Forse perché ha
sempre associato il tragitto in autobus a qualcosa di epidermicamente piacevole;
forse è il momento ideale per lasciar vagare i pensieri senza i freni della
razionalità, fino a destinazione. Ricorda i suoi primi giorni nel labirinto
della città, l’attenzione tesa a memorizzare ogni itinerario, ogni dettaglio.
Camminare là dentro è come camminare sulla luna, in equilibrio precario, qualche
sprazzo azzurro pallido tra il profilo squadrato del finestrino e gli spiragli
luminosi tra un edificio e l’altro. E oggi c’è un sentore di primavera dal
fascino lunare, gravido di indefinite aspettative, come quei sogni fumosi in cui
la quotidianità ha un sapore particolare.
Sorride tra sé,
Andrea, aggrappato al sostegno di metallo; cerca una posizione che gli consenta
di mantenere l’equilibrio, appena in tempo da non trovarsi sbalzato contro il
passeggero seduto a fianco grazie ad una svolta brusca. Stretto tra il proprio
braccio e il fianco destro, al sicuro dagli scossoni, il suo carico eccezionale:
un parallelepipedo di plastica chiuso sul davanti da una rete di
metallo.
Il vento è
cambiato, da quando Gabriele è venuto a raccogliere le sue lacrime dopo il
fattaccio con Riccardi. Da quando ha pensato di condividere con lui un paio di
istanti di intimità, una manciata simbolica – e avrebbero potuto fare l’amore, e
non sarebbe stata la stessa cosa.
Andrea
rabbrividisce mentre si lascia andare contro un supporto di fortuna – lo
schienale del sedile di fronte. Ripensa all’intenso formicolio alla spina
dorsale, quando le labbra di Gabriele si sono strette intorno al suo sesso, a
quel calore insopportabile al basso ventre, al semplice fatto di essere lì,
scoperto e del tutto indifeso di fronte all’uomo che ama disperatamente, e
potrebbe cadere in deliquio seduta stante. Avere un sussulto
improvviso.
Da qualche giorno
gli sembra persino di non sentire le consuete pugnalate verbali, le occhiate di
traverso e il gelo dell’indifferenza. Solo piccoli sbuffi d’aria intorno a lui,
protetto dal suo cono di luce.
Ha persino avuto
fortuna, perché quelle spalle tese, quella schiena addossata al sedile a pochi
passi da lui, quei capelli neri e arruffati, sono deliziosamente
familiari.
Il tentativo di
guadagnare i metri che lo separano da lui è una lotta contro l’ennesima
manovra spericolata del conducente.
E finalmente è lì
– a pochi passi da lui che gli volge
le spalle. La borsa ferma e salda contro il petto e il finestrino aperto che gli
scompiglia i capelli, con quei fottuti pollini vaganti che gli solleticano il
naso, a fatica riesce a ritagliarsi un varco privilegiato, addossato al
vetro.
- Ehi… – gli
sibila a pochi centimetri dall’orecchio, sovrastando il rombo del motore e il
brusio della città.
Suona un po’
sfacciato – ma ormai la frittata è servita, e può solo proseguire in quella
direzione. Suona sfacciato come il gesto di piegarsi su di lui, circondargli le
spalle e imprimersi sulle labbra la consistenza leggermente ruvida della sua
mascella.
Gabriele si volta
di scatto, distolto da ciò che sembra un sogno ad occhi aperti, e l’immersione
totale nell’apatia del viaggio si spezza.
- Andrea…! Potevi
essere solo tu.
Una vena
leggermente acida nella voce, quel retrogusto amaro che ha sempre adorato – e
rientra a pieno titolo nell’elenco di quelle cose che non gli dirà
mai.
- Che ci fai qui?
– incalza Gabriele, gettandogli un’occhiata distratta dietro gli occhiali da
sole.
Andrea ridacchia
e gli sfiora la nuca – forse sta osando troppo, forse qualche impiccione di
passaggio è lì che lo osserva di soppiatto e registra ogni movimento, così che
entro poche ore vi sia nuova linfa al Pettegolezzo della giornata. Ma dopo che
le labbra di Gabriele si sono stampate su di lui, sarebbe ipocrita classificare
il gesto sotto la voce “mediamente imbarazzante” – e il solo pensiero basta a
incendiargli le gote.
- Viaggio, no?
Cerco di arrivare puntuale a lezione – Andrea solleva un sopracciglio –
Esattamente come te.
Gabriele si
stringe nelle spalle. Chissà come prenderà l’idea di trascinarselo attaccato
alle costole fino al capolinea…
- Non sapevo che
avessi lezione di pomeriggio.
Se no avrei
evitato di prendere questo dannato autobus. È così?
Le palpebre di
Gabriele si assottigliano in una piega indagatrice.
- Non ora –
sussurra Andrea, vago – Scendo un attimo alla Casa dello studente. Devo mettere
questo carico al sicuro. Se vuoi,
però, dopo posso farti compagnia… – ammicca.
Gabriele
annuisce, non troppo entusiasta all’idea di tirarselo dietro fino a sera,
incollato addosso a mo’ un francobollo. Ma neanche dispiaciuto. E la luce che
gli vibra in fondo alle pupille crea un contrasto delizioso con la piega
scettica delle labbra.
Andrea distoglie
lo sguardo appena in tempo da non risultare ossessivo. Gabriele non lo ammetterà
mai, eppure lui ci metterebbe la mano sul fuoco, che in fondo questo è tutto ciò
che desidera – o che desiderava un tempo. Essere corteggiato da
vicino.
L’altra nota
positiva è che non sembra fumato: ha gli occhi perfettamente lucidi e se ne sta
sulla difensiva, perché non ha altre barriere da opporre se non mostrarsi
scostante. Mediamente acido.
- Non mi chiedi
nemmeno… – azzarda Andrea, sollevando davanti a sé il trasportino color lavanda
appeso al polso a mo’ di sporta.
Evita per
miracolo un paio di scossoni, mantenendo un impeccabile equilibrio dentro il
mostro metallico dall’andatura instabile.
- Andre, mi leggi
nel pensiero…? – Gabriele sorride appena, fissandolo dritto negli
occhi.
E si alza in
piedi.
- Vieni, siediti
al mio posto. Non ho paura per te, quanto per quel povero gatto… Che hai
combinato, stavolta?
- Ho seguito il
consiglio di Elena – Andrea scuote le ciglia, enigmatico.
È la mia musa,
l’artefice del mio destino: come posso dirle di no, quando mi apre gli
occhi?
Andrea si lascia
andare contro il sedile, la gabbietta stretta contro il cuore in un inconscio
istinto di protezione.
- Volevi fargli
prendere un po’ d’aria? – Gabriele solleva un
sopracciglio.
- Non è mio…
Cioè, veramente lo è. Da oggi – Andrea tenta di modellare le labbra nel sorriso
il più attraente che gli riesca – Dicevo… Elena. Il suo consiglio, in pratica, è
di convogliare la mia “energia in eccesso” in qualcosa di buono, di costruttivo,
anziché starmene lì col coltello tra i denti a meditare vendetta… Testuali
parole. Quindi, eccoci qui. Lui si chiama Oscar – socchiude le palpebre sotto un
raggio di sole improvviso, e a partire da quell’istante ogni attenzione è per la
macchietta bianca che si agita e protende le zampine, ingaggiando una singolare
lotta contro la rete metallica.
Forse il micio è
così carino che riuscirà nel miracolo di addolcire il signor Sarcasmo da quattro
soldi.
- L’hai trovato
vicino a casa? – Gabriele corruga la fronte, aggrappato al sostegno del
bus.
- Non proprio…
Oh, è una lunga storia. Non molto
simpatica – forse sarebbe il momento di tacere, ma la vocina dentro la sua testa
diventa sempre più debole – Hai presente la scorsa settimana, quando mi sono
ubriacato?
Brutta storia. Andrea
sente le guance andare a fuoco, ma ormai la lingua ha fatto la sua parte,
ficcandolo nel solito vicolo cieco. E ripresentandogli davanti agli occhi la
moviola di un’immane figura di merda.
- Come
dimenticarlo…! – Gabriele scuote le spalle.
Per poco non si
piega in due nel soffocare una cavolo di risata idiota. E se la situazione non
fosse così ad alto coefficiente d’imbarazzo, ci sarebbe da rifilargli una
gomitata tra le costole.
- Ecco… La sera
prima. Quella cazzo di Opel rossa, l’ho tamponata perché questo briccone qua si
è tuffato in mezzo alla strada – prosegue Andrea, accennando con gli occhi al
piccolo imbucato che sembra aver trovato nelle dita di Gabriele l’appendice
ideale su cui rifarsi zanne e artigli.
- Tu sei
completamente scemo! – Gabriele scuote la testa – Non per aver preso un gattino…
Per tutto il resto.
- Avevo bevuto un
po’. Sì, anche quella sera, contento?
– Andrea vorrebbe improvvisamente diventare piccolo - più piccolo di Oscar che
anela la libertà.
Si stringe il
trasportino contro il petto come uno scudo, tentativo disperato di spostare il
baricentro del discorso sull’urgenza di allontanare il cucciolo di tigre dal suo
pasto a base di dita umane.
- Ah, ecco…! –
Gabriele annuisce, sarcastico.
Non aggiunge
altro, perché l’ha capito anche lui, che a furia di punzecchiarsi a vicenda,
finirebbero solo per incartarsi in discorsi privi di sbocco. Ragazzo
intelligente.
A lui, per quanto
lo riguarda, è bastata l’infelice prospettiva di tirare Oscar sotto le ruote,
per abbandonare da qui in avanti ogni velleità di mettersi al volante dopo un
certo numero di birre. E meno male che c’era Elena con lui
…
- Senti, l’ho
portato adesso dal veterinario – prosegue Andrea – Scendo alla prossima. Lo
sistemo provvisorio in camera mia e per un po’ cerco di tenere alla larga i
rompipalle. Vieni con me? – scuote le ciglia.
Gabriele annuisce
senza entusiasmo. Preferisce perdersi nell’estatica contemplazione del micino
che si lecca le zampe, piuttosto che nei suoi occhi
supplicanti.
Il peggio è che
non riesce a dargli torto…
- Okay, quindi
scendiamo alla prossima… – conclude Andrea al suo posto, allacciandosi i bottoni
della giacca, con quella vocina impertinente nella testa a ripetergli che, di
nuovo, lo sta tirando in una delle sue trovate da folle.
Poi, tutto accade
troppo in fretta per rendersene conto.
Ha distolto lo
sguardo, il tempo di seppellire la faccia in un fazzoletto di carta e starnutire
con sentimento – mentre Gabriele prenotava la fermata e barcollava verso
l’uscita. Poi è stato tutto uno stridio di freni e un tonfo di borse rotolate a
terra e membra attorcigliate, con qualche distinto “ouch!” di
sottofondo.
Il piccolo Oscar
ha colto il momento per protestare con un miagolio acuto.
Andrea scuote le
palpebre, stordito. Si strofina distrattamente la punta del naso e maledice
l’inchiodata del conducente. La prima referenza del disastro in corso è
un’istantanea del fondoschiena perfetto di Gabriele, con il suo illustre
proprietario che tenta di rimettersi in piedi spazzolandosi i jeans. E una
sagoma vagamente umana spalmata sotto di lui.
- Oddio, scusami,
scusami, scusami! – è tutto ciò che riesce a biascicare l’incidentato alla cosa appena investita sulla sua
traiettoria, la quale al momento giace spalmata a terra.
Andrea si sistema
il trasportino sotto il braccio e si solleva in punta di piedi. Le porte del
mostro di metallo si spalancano sotto i suoi occhi con un cigolio sinistro.
Gabriele gli artiglia un braccio e si risolleva in piedi.
- Si può sapere
cosa diavolo hai fatto?
- Giocavo
a prenotarti la fermata – gli sibila Gabriele con un’occhiataccia, l’altra mano
impegnata a massaggiarsi la fronte – Poi ho avuto una visione mistica e ho
pensato di trovarmi ai campionati di salto in lungo…
Andrea spalanca
gli occhi.
- Oh, cazzo…! – è
tutto ciò che le sue labbra riescono a mettere insieme.
È bastata
un’occhiata sommaria oltre le spalle di Gabriele. Sulla cosa che si rialza come se fosse senza
peso, con un tintinnio di ferraglia. Un nodo allo stomaco e il sangue che, di
colpo, prende a rombargli fastidiosamente nelle tempie.
Tranquillo,
Andrea: è il solito karma malefico.
* *
*
- Cosa si mangia
a cena, stasera? – Federico Riccardi occhieggia beffardo verso di
lei.
Poi ci ripensa e
si affretta a rivolgere altrove il suo sorrisetto storto, speculare a quello di
Alberti. I due si fissano per qualche secondo e scoppiano a ridere come
imbecilli.
Isa solleva gli
occhi al cielo, le gambe distese lungo la balaustra di marmo all’ingresso.
Solleva la sigaretta e aspira una voluttuosa boccata. L’alternativa è tutta lì.
Forse c’è anche l’opzione “tagliarsi le vene”.
Pensare che
Andrea l’aveva quasi convinta a
smettere di fumare – cosa che, del resto, non sembra essergli riuscita nemmeno
con Loria.
- Oggi insalata
di finocchi. Interi campi di finocchi – Alberti annuisce, la faccia atteggiata
in un sorriso stiracchiato come una concessione al nipotino di quattro anni la
mattina di Natale.
Isa serra le
labbra intorno alla sigaretta accesa e incrocia le braccia sul petto. Da
Riccardi si aspetta questo e ben altri saggi di fine ironia, ma non da
Alessandro, che è e rimane un ragazzo munito di cervello. Si chiede che senso
abbia, da parte sua, ribadire la sua leadership prestandosi a ogni genere di
pagliacciata. Sospira. Forse è il suo modo di radunare intorno a sé il gregge:
parlare il suo linguaggio.
- Oh, ma tu non
hai sentito la novità… – le sibila Riccardi.
Isa arriccia il
naso, un senso di repulsione che le serpeggia in fondo alla gola. Perché, quando
sogghigna in quel modo, Riccardi le fa pensare a un imprenditore in crisi di
mezza età che assiste a uno spettacolino erotico.
E poi fa una cosa
che – Isa si osserva intorno orripilata, come a cercar testimoni – resterà negli
annali delle cose da dimenticare o da ricordare come blanda attenuante a un
omicidio: allunga una mano e gliela posa sul ginocchio.
Isa dirige il suo
sorriso verso Alberti – un sorriso che odora disgustosamente di plastilina, ma
non può fare altro. Perché no, c’è troppa gente in giro, e piantargli il tacco
nell’occhio non sarebbe elegante.
Non la so, la
novità. Illuminami, signor Babbeo. O tu che te ne stai lì a
guardare.
- Sono due –
Alberti giunge in suo soccorso, flemmatico, appena in tempo da stornare il
cataclisma – Due grandi
notizie.
- Cominciate da
quella buona – cincischia Isa, annoiata, sottraendosi agli artigli di Riccardi
con uno strattone e un’occhiata inceneritrice.
- Non ce n’è una
buona. Sono orribili tutte e due – precisa Riccardi.
- Iniziate dalla
peggiore – Isa china lo sguardo, mentre si riannoda il foulard intorno al
collo.
Non c’è motivo
per doversi fingere interessata all’ennesima puttanata.
- D’accordo.
Fuori la peggiore – Riccardi distoglie lo sguardo come a misurare l’attesa –
Tutto iniziò questo pomeriggio, dopo pranzo. Però, scusate, io proprio non ce la
faccio, mi fa troppo schifo… Scusami, Alessandro – e sorride, mieloso,
ricordandosi di colpo della sua presenza – A te. Ti cedo la patata bollente.
Anche se di patate non c’è
l’ombra.
- Eh? –
Alessandro finge di cadere dalle nuvole – Oddio, quale delle due? Qual è la
peggiore?
Isa trasale.
Costretta a rimangiarsi una risatina isterica e a chiedersi se Alessandro finga
di essere stupido o cerchi di creare aspettative. Non dev’essere facile
camuffare la noia.
- Oh, quella! –
aguzza le antenne – La scoperta dell’acqua calda!
Attende. Qualche
secondo denso d’attesa, come prima di un annuncio di vitale importanza. Le iridi
ruotano verso il cielo come ad abbracciare l’intero spazio intorno a loro. Evita
il suo sguardo e dischiude le labbra.
Alle sue spalle,
Riccardi finge di cacciarsi due dita in gola.
- Derossi e
Nicoletti si sono baciati sull’autobus – sentenzia.
Prima mazzata,
precisa e impietosa come quella manciata di parole veloci che si accavallano le
une sulle altre, scandite con voce indifferente.
- Secondo Giulia
e Federico, quei due stanno insieme…
Isa sente la
saliva azzerarsi. La morsa di gelo allo stomaco di chi preferirebbe trovarsi da
qualunque altra parte tranne nel luogo in cui ha deciso di parcheggiarsi. Non
vede la sigaretta fumata a metà rotolarle giù dalle dita in seguito a uno
scatto. Non sente la tensione che sale. Tutto ciò che le riesce è maciullare
sotto la scarpa quel che resta del cilindretto fumante e calciarlo
via.
Respira. Vorrebbe
che ci fosse il tempo di razionalizzare la scoperta – almeno vedere quanto vi
sia di vero. Ma sa anche che di lì a poco Riccardi sparerà inevitabilmente le
sue conclusioni. Rischiando la soppressione a sangue
freddo.
Nicoletti e
Derossi. Il fighetto-popolare-sotuttoio-primo della classe e il tossicomane
arrivista, il belloccio finto tonto che tonto non è.
Il suo miglior
amico e il serpente a sonagli, la persona che più di tutte gli abbia mai fatto
cadere le palle a terra – testuali parole, biascicate da Andrea una lontana sera
al bar, di fronte ad un aperitivo: non lo
reggo più, è come un calcio nei denti, lui e i suoi vittimismi, le frasi a metà,
le rispostine acide. È sempre scazzato… E Dio sa a che diavolo alludesse. E
Derossi che non faceva nulla per nascondere che lo odiava a
morte.
Riccardi sa
sempre scegliere con maestria il momento in cui versare sale sulla ferita –
trattenuto appena da Alberti che, poveretto, ce la mette tutta per evitare
incidenti diplomatici.
- Buono,
Federico… E dai, ho detto qualcosa di male? Qualcosa che già non sapevate? –
Alessandro si gratta il pizzetto, soprappensiero – Stanno a casa loro, eh. Non
mordono, non pungono, non sono contagiosi.
- Tranquilli, il
cazzo! Ringrazino che non c’ero io, dentro quel benedetto autobus, o sarebbero
volati fuori a calci nel culo! – Riccardi solleva gli occhi al cielo, e ogni
volta Isa stenta a capire se reciti un pessimo copione o se davvero la viva come
una minaccia personale, perché anche stavolta sembra così vicino all’esplosione
da non poter trattenere qualche colata di acido.
Il punto è che a
Riccardi la cosa non lo tocca di striscio – tranne per la sua bizzarra
ossessione secondo cui l’esistenza di un solo ragazzo gay sulla faccia della
terra rappresenterebbe una concreta minaccia per le sue chiappe, o chissà
cos’altro. Lui e Andrea non sono mai stati amici, non hanno mai avuto nulla in
comune.
Tocca a lei,
stavolta, agguantare il ferro per il manico rovente. Perché Nicoletti era il suo miglior amico, e ora le sue azioni,
dalla prima all’ultima, sembrano uno snervante ribadire punto per punto, una
rassegna completa di tutto ciò che una volta non avrebbe fatto manco sotto
tortura. Come se ogni suo respiro fosse studiato ad arte per sembrare un
dispetto compiaciuto a chi una volta riteneva amico: una farsa crudele con il
capovolgimento totale e irreversibile del vecchio Andrea. E questa, in fondo,
era anche prevedibile.
- E… quindi? –
Isa si osserva le unghie, ma il tamburellare nervoso del piede contro lo scalino
tradisce il suo nervosismo.
- E quindi
niente, a parte che fanno schifo ai sorci. Stop, fine del
discorso.
Ha detto la sua,
Riccardi: un muro di fronte ad ogni obiezione. E se non sapesse che è un pirla,
Isa penserebbe che veder scorrere il sangue lo diverta – Pensavo che ci tenessi
a saperlo.
- Secondo te può
fregarmene qualcosa di chi si porta a letto Andrea? – è la risposta, glaciale –
Se Andrea pensa di farmi un dispetto o si sente figo a limonare con gente che
una volta gli stava sulle palle, è un problema suo. Banalità per attirare
l’attenzione – conclude, lapidaria.
- Già, come
andare a letto con gli uomini e vantarsene in giro… Patetico! – Riccardi
sogghigna, malizioso.
E sposta i suoi
occhietti beffardi su Alberti.
- Nicoletti e
Derossi! Insalata di finocchi, caro mio – ridacchia – Secondo te, dei due, chi è
quello che fotte?
- Per favore, non
farmici pensare…! – Alberti storce il naso – Dai, chi se ne frega, alla fine?
Saranno anche cazzi loro.
Un taglio netto.
Isa tenterebbe di pestargli un piede, se non apprezzasse quel tentativo
disperato di insabbiare la questione, di uccidere ogni spunto per sommare fango
al fango.
- Scommetto
quello che vuoi che la femmina la fa Nicoletti – gli sibila Riccardi,
velenoso.
- Perché ha i
capelli lunghi e sembra una ragazzina? Nah, troppo scontato… – gli fa eco
Alberti.
- Forse non hai
tutti i torti… – gli occhi di Riccardi si illuminano – Non saprei. Nicoletti è
una checca isterica, ma anche Derossi, voglio dire, mi sembra troppo moscio per
prendere l’iniziativa. Secondo me ha una gran voglia di cetriolini sott’olio… –
sussurra, concludendo il monologo con un gesto osceno.
Isa deglutisce a
fatica – momento cruciale in cui tutto ciò che desidera è vomitare sui jeans
buoni di Riccardi.
- Va bene, va
bene! – Riccardi mette le mani avanti – Vi lascio il vostro dubbio amletico e,
con permesso, me ne vado a lezione – biascica, un secondo prima di
volatilizzarsi oltre la porta a vetri.
Resta solo
Alberti. L’indecifrabile.