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Autore: Iridia    30/08/2011    2 recensioni
La sua anima non era più distesa su uno spartito, racchiusa da un pentagramma, ma era libera. Libera di colorarsi, di cambiare forma come un'onda vulnerabile al vento nel mezzo di un oceano, libera, come non era mai stata prima d'allora.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'acqua scorreva lenta dal lavandino, come se volesse fermarsi a guardarla. Come se volesse capire cosa turbava quei lineamenti delicati, cosa provocava quelle lacrime che sgorgavano da iridi di puro smeraldo.
Sarah fissò la sua immagine senza riconoscersi. C'era qualcosa che non le piaceva nei suoi occhi, qualcosa che contaminava tutto il viso, come un'impronta nella neve uniforme, quella appena caduta, ancora soffice e leggera. Quel qualcosa la irritava, le faceva perdere il controllo, e con esso la fiducia in sé stessa, che ogni volta, ad ogni sguardo, si frammentava in migliaia di schegge appuntite, pronte a ferirla, a sussurrarle sempre le stesse parole. Le parlavano, amplificavano i suoi pensieri più profondi, quegli stessi pensieri che ogni mattina si prometteva di placare, ma che ogni notte scappavano dalla prigione che con fatica ricostruiva all'alba.

Nessuno poteva capire, perché quello che la turbava non era visibile ad occhi estranei. Non era una macchia, non era una cicatrice. Era dentro di lei. Dalle sue pupille arrivava al cervello, nella sua testa, fino a correre lungo i muscoli, per giungere alle dita. Quelle dita affusolate che tutti le invidiavano, che sarebbero state perfette a contatto con il freddo avorio del pianoforte a coda che le avevano comprato. Dita bellissime, musicali, pronte a catturare ogni nota nel momento giusto, accarezzando una melodia incantata per poi disperderla nell'aria come magia. Sì, sarebbe stata perfetta, seduta su uno sgabello di velluto davanti ad una platea nascosta dall'oscurità, a riprodurre accordi, a chiudere gli occhi ondeggiando al cullare del ritmo, come fanno i professionisti. Sì, Sarah Bell, la grande pianista. Suonava bene. Suonava tremendamente bene ai suoi genitori, ai suoi amici, ma nessuno le aveva mai proposto una scelta; doveva andarle bene, punto. Era sempre stata l'unica via, una strada già battuta pronta per essere percorsa, sgombra da qualsiasi indicazione per una meta sconosciuta.

Poi, in una giornata di settembre, tra foglie scarlatte e vento secco, una donna si era avvicinata e con gentilezza infinita l'aveva fatta sedere su una panchina, mentre lei, con un carboncino consumato, muoveva rapida la mano su un foglio bianco, macchiandolo di scura polvere, riproducendo il paesaggio autunnale. Le aveva donato quel disegno, rubandole il cuore. Nessuna musica avrebbe mai potuto darle tale emozione, nessuna nota dipingeva la realtà con tanto amore. Il foglio, ora vecchio e rinchiuso in una cornice, viveva assieme a lei, appeso sopra il letto, come uno scaccia sogni. Era diventato la sua ispirazione.
Per quell'immagine, per quei pochi tratti confusi che la ritraevano avvolta da alberi spogli, seduta su una panchina di legno, Sarah era cambiata.
Le sue dita avevano smesso di accarezzare i tasti ingialliti del pianoforte. Le sue orecchie non volevano più ascoltare. Aveva capito. In quell'istante, mentre la donna dai lunghi capelli bianchi la guardava di sfuggita, come se non volesse consumare la scena, Sarah seppe che la sua vita sarebbe stata diversa.     
Seppe che la sua anima non era più distesa su uno spartito, racchiusa da un pentagramma, ma era libera. Libera di colorarsi, di cambiare forma come un'onda vulnerabile al vento nel mezzo di un oceano, libera, come non era mai stata prima d'allora.
Tuttavia, il candore della carta ancora incontaminata dalla mano umana era una paura. Era il panico, l'ansia che le faceva stringere forte la matita che ancora non aveva toccato il foglio.
Sapeva che ciò che la tradiva erano i suoi occhi, la sua mente, le sue mani, le stesse che non erano in grado di sbagliare nemmeno una nota. Ogni tratto, ogni linea sembrava disporsi nel luogo sbagliato, cambiando la prospettiva, distorcendo la realtà. Si deformavano, come se volessero sottolineare che lei non apparteneva a quel mondo, come se volessero ripeterle ciò che avevano detto i suoi genitori.
Così, la firma di ogni suo disegno era una delusione, una conferma di quell'errore che tutti vedevano in lei. Tutte le notti, tra le lenzuola, l'inquietudine si impadroniva del suo corpo, gettandola a terra per distruggere le sue speranze, pestarne i frammenti e lasciarla senza forze prima di cadere nel sonno.
Riguardare ciò che creava era come guardarsi negli occhi. Come fissare la propria immagine nello specchio e vedere quel talento che mancava, quell'abilità che non era mai stata sua.

Sì bagnò il viso lavando i residui del pianto. In fondo, da quando aveva deciso di dedicarsi all'arte, la sua vita era un eterno combattimento tra una speranza fin troppo timida ed una consapevolezza dolorosa.
Ritornò nella sua camera passando vicino al pianoforte senza nemmeno guardarlo. Respirò a lungo fissando l'inizio di tutto; un quadretto in bianco e nero. Forse prima o poi ce l'avrebbe fatta, forse senza quel pizzico con il quale si nasce non si sarebbe mossa da lì, ma quelle ombre, quelle foglie che sembravano poter volare, e quella figura, così simile a lei, erano le scintille che appiccavano un incendio nel suo cuore. Bruciava dalla voglia di crescere, dalla necessità di trovare il suo vero stile, il tratto con il quale esprimere la sua vera essenza.
Si sedette, tra le dita una matita, sotto gli occhi una pagina bianca.


Musica e disegno, scienza e scrittura... che differenza fa?
   
 
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