Di polvere, di cenere ~
C’è del
fumo nella capanna, o forse è solo che gli occhi della ragazza sono
pieni di lacrime.
L’uomo è
stravaccato in una poltrona sfondata. Dorme a bocca aperta; un filo di saliva
gli sgocciola fin sul petto, oscillando al ritmo del respiro appesantito. Ha
indosso un ammasso di cenci dai quali la carne sembra voler fuggire. Dal
braccio piegato pende una mano sudata, le unghie scheggiate e sporche; lo
scintillio polveroso dell’anello non basta a migliorarne l’aspetto.
Ha le gambe divaricate, l’una curva sotto la poltrona, l’altra su
un bracciolo.
Al piede, sudicio di
terra e fango, una vecchia ciabatta di legno appesa all’alluce dondola,
dondola, dondola.
Gli occhi della ragazza
si riempiono di quella vista, seguono quell’unico movimento in una sorta
di religiosa attesa. L’uomo davanti a lei è inerme; il sonno
è la più grande debolezza che esista, in grado di rendere
vulnerabile la più pericolosa delle creature... In certi casi è l’unico
momento in cui anche chi è sveglio
smette di urlare.
Sono soli. Soltanto un
rumore di ferro contro legno, lama su rami secchi, proviene dal di là di
una finestrella rotta. L’uomo dorme. E la ragazza tiene in mano una
bacchetta.
La ciabatta dondola,
dondola, dondola.
Le sue palpebre non si
chiudono un istante, soggiogate dalla tempesta che quell’ipnosi
silenziosa le scatena dentro. La bacchetta trema nella sua mano; è
puntata sul petto dell’uomo, che sembra così debole, così
debole... Basterebbe poco. Basterebbero due parole – vedere una vita
spegnersi e riscattarne un’altra con la morte.
La ciabatta dondola,
dondola...
Ma lei è debole; lui
glielo dice spesso, e ha ragione, ha sempre ragione. La leggerezza di quel
bastoncino impazzito che stringe tra le dita la colpisce all’improvviso,
al punto da farla sussultare, battere le palpebre.
... dondola.
Uccidere un mostro
addormentato richiede più coraggio di quanto si immagini. Uccidere un
padre ne richiede ancora di più.
La ciabatta cade. Il
rumore assorda la ragazza come un tuono.
Orvoloson Gaunt
si sveglia. Grugnisce, apre gli occhi, la
vede. L’attesa è finita; della tempesta non resta che cenere.
« Che hai
intenzione di fare con quella cosa, lurida Maganò?
»
Tra loro cala un velo
intessuto d’odio e stanchezza; e non è la pentola sul fuoco a
urlare più forte, e non è quello schiaffo la cosa che fa
più male.
C’è del
fumo nella capanna, o forse è solo che gli occhi di Merope sono pieni di
lacrime.
III classificata nel
contest Ricordati di noi indetto da _Mirtilla_94
Grammatica: 9.8/10
Stile e forma: 9.5/10
IC e caratterizzazione personaggi: 10/10
Originalità: 15/15
Gradimento personale: 5/5
Punti bonus: 1/3
Tot: 50.3/53
Ti ho dovuto togliere quella miseria al punteggio di grammatica perché
hai messo una “e” dopo la virgola, ma mi piangeva il cuore farlo,
perché per il resto è perfetta. Ho tolto quell'altra miseria
anche allo stile perché sono una maledetta isterica capricciosa, e penso
che ci siano due parole un po' fuori posto: “stravaccato” suona
male, un po' troppo da “coatto”, e “sgocciola”...ecco,
io avrei scritto “gocciola”. Sono una rompipalle, che ci vuoi fare!
Ti ho tolto poco, però, perché sono consapevole che sono solo
fisime mentali mie.
E veniamo ora alla parte interessante: sono rimasta incantata da questa storia.
Non so proprio cosa dire, non ci sono parole. Merope è perfettamente
caratterizzata, è proprio lei, in più hai uno stile meraviglioso,
ricco, scorrevole...un uso magistrale degli aggettivi. Descrizioni fantastiche
e dettagliate. E poi, anche nell'originalità meriti il massimo! Non
avevo mai letto storie in cui Merope pensava di uccidere il padre!
In sintesi...complimentoni! *si
inchina*