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Autore: _Pulse_    01/09/2011    1 recensioni
Nonostante il discorso di Tom fosse stato persino più convincente di quello che aveva fatto alla famiglia di Anto, il papà di Ary scosse il capo, cingendoselo con le mani, e sprofondò ancora di più nella poltrona.
«Non sapete a che cosa andate in contro», disse stancamente. «Rischiate di essere trascinati in quell’inferno anche voi, proprio com’è successo ad Anto».
«Voglio provarci lo stesso», ripeté Tom, stringendo i pugni sulle ginocchia. Aveva gli occhi lucidi, ma non avrebbe pianto.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Tom Kaulitz
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Sogno che è Realtà'
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V

 

«Is there anybody laughing
to kill the pain?
Is there anybody screamin’
the silence away?».

(Zoom into me – Tokio Hotel)

 

Aveva dormito meno della notte prima, preoccupato e allo stesso tempo arrabbiato com’era. Ary non si era mai svegliata, il che voleva dire che non aveva fatto incubi, ma nonostante tutto lui si era svegliato parecchie volte, senza riuscire a riprendere subito sonno, rimanendo ad osservarla dormire in quel modo fin troppo profondo.

L’ultima volta che si era destato dal suo sonno agitato aveva visto che il sole era già sorto e qualche raggio di luce filtrava dalle tende tirate sulle finestre, poi aveva guardato la sveglia sul comodino e si era portato le mani sul viso, sbuffando: era un’ora indecente, fin troppo presto secondo i suoi standard, ma era un’ora da Gustav. Infatti, quando era sceso in cucina, l’aveva già trovato lì, intento a preparare il caffè anche per i propri compagni di band.
Non gli aveva chiesto niente, aveva capito subito che non era giornata e aveva preferito stare in silenzio e sorridergli, proprio come se fosse un giorno normale.

Tom aveva fatto colazione, senza fiatare, e poi l’aveva avvisato che lui sarebbe andato in studio, conscio che avrebbe già trovato David.
Così, era sceso al piano inferiore e, come aveva previsto, aveva trovato il manager che con sorpresa l’aveva accolto e lo aveva fatto iniziare subito a suonare. Proprio ciò che voleva per distrarsi.

Suonare a volte era l’unica cosa che riuscisse a portarlo in un mondo diverso, uno migliore, uno in cui le preoccupazioni e le paure non esistevano; ma insieme ad esse non esistevano altre cose delle quali, seppure fossero spiacevoli, come i problemi con la propria ragazza e il suo pessimo comportamento con il gemello, non poteva e non voleva fare a meno. Per questo, dopo due ore intense di prove e registrazioni, decise di tornare nella vita reale.

«Okay Tom, per oggi va bene così», gli disse David, una volta uscito dalla sala mixer, dandogli una pacca sulla spalla e sorridendogli. «Magari ci vediamo oggi pomeriggio».

«Perché?», chiese lui, alzando un sopracciglio.

«Dobbiamo ricontrollare dei passaggi con il piano. Questione di un minuto», lo rassicurò.

«Uhm, okay».

Lo salutò con un cenno della mano e fece per uscire dalla porta a vetri dello studio, quando la voce del manager lo fece voltare.
«Va tutto bene, Tom?», gli chiese, un po’ incerto.

«Alla grande», stiracchiò un sorriso e poi se ne andò, stringendo gli occhi e respirando profondamente.

Non sapeva assolutamente come si sarebbe comportato di fronte ad Ary, sempre se nel frattempo si era svegliata, visto che quando era uscito dall’appartamento dormiva ancora.
Fece le scale per sminuire la tensione ed entrò nell’appartamento col cuore in gola. Già dall’ingresso, sentì la voce di Anto e quella di Georg che probabilmente stavano parlando con Ary, poiché non udiva risposte orali alle domande che ponevano.

«Ary, vedrai che Tom non è arrabbiato con te», la rassicurò Anto amorevolmente.

«Già, non ha motivo per cui essere arrabbiato», continuò Georg. Peccato che lui non sapesse che Ary aveva preso i sonniferi, anche se era a conoscenza che a Tom non avrebbe fatto piacere.

«Dai, bevi almeno un po’ di latte», la incitò la sua migliore amica e fu allora che Tom si fece vedere, comparendo in salotto.

Ary era seduta sul divano, con le gambe incrociate e un cuscino stretto al petto, il viso rivolto verso il basso. Al suo fianco c’era Anto, con una tazza di latte fra le mani, e seduto al tavolo c’era Georg, che cercava di appoggiarla nel suo intento. Bill era seduto di fronte all’amico ed osservava la scena in silenzio, pensieroso.
Ary sollevò il viso di scatto, notandolo vicino all’ingresso, e lo guardò profondamente negli occhi, cercando di capire se fosse arrabbiato o meno con lei per quello che aveva fatto.

Quando si era svegliata, sorprendentemente tardi rispetto al solito, non l’aveva trovato accanto a sé e quando era scesa in cucina Gustav le aveva detto che era già andato in studio. Aveva pensato molto e aveva concluso che doveva per forza essere per causa sua se era “scappato” in quel modo e così aveva iniziato a fare i capricci e a rifiutarsi di fare colazione.

Dentro a quegli occhi non vide rabbia, o almeno non le sembrò, ma vide tanta malinconia e forse… delusione? Non ne era certa e Tom non le permise di scavargli dentro ulteriormente, perché distolse lo sguardo e lo posò sulla tazza di latte che Anto teneva fra le mani, indicandola con il dito.

«Perché non vuoi nemmeno bere un po’?», le chiese atono, senza guardarla in faccia.

«Non mi va», gracchiò, mordendosi le labbra.

«Come vuoi», scrollò le spalle. «Anto, lasciala stare».

«Che cosa? Ma… Tom…».

«Ho detto di lasciarla stare. Se non vuole bere non puoi costringerla», ripeté, in modo tale da non ammettere repliche.

«’kay», mormorò Anto e sospirò, lasciando la tazza sul tavolo.

«Ah, come mai sei sparito così presto stamattina?», gli chiese Georg.

«Avevo voglia di suonare, tutto qui», rispose tranquillamente, ma subito dopo si rifugiò in terrazza.

Ary posò lo sguardo su Bill e si accorse che anche lui la stava guardando con l’accenno di un sorriso sulle labbra. Scosse il capo e sollevò le spalle, dicendole silenziosamente di non preoccuparsi, ma lei era più che preoccupata: Tom era arrabbiato con lei e non sapeva minimamente come farsi perdonare.
Fece un respiro profondo e si alzò dal divano. Era ancora in pigiama, ma non se ne preoccupò troppo uscendo in terrazza. Raggiunse Tom e gli avvolse il braccio con le mani, posando la testa su di esso.

Tom non la guardò nemmeno, continuò ad osservare di fronte a sé, corrucciato, e le chiese, atono: «Perché l’hai fatto?».

«Se io avessi dormito tutta la notte, anche tu avresti dormito di più e David non ti avrebbe sgridato ancora…», spiegò a bassa voce.

Lui si girò verso di lei, bruscamente, e le prese il viso fra le mani, facendola indietreggiare fino a toccare il parapetto. Era nero dalla rabbia, eppure Ary non ebbe paura di lui nemmeno per un istante: sapeva che non le avrebbe mai e poi mai fatto del male.

«Ma come hai solo potuto pensare una cosa del genere?! Non me ne fotte un cazzo se David mi sgrida, in questo momento tu sei la cosa più importante e non voglio che tu prenda i sonniferi solo per farmi un piacere, anche perché non me lo fai! Non voglio che tu prenda quella roba, non guarirai mai così, non smetterai mai di fare gli incubi con le tue sole forze se ricorri ai sonniferi!».

«Io non riesco, non ce la faccio con le mie sole forze a non fare gli incubi!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola, chiudendo gli occhi. «Io non voglio più farli, non voglio, non voglio!». Iniziò a singhiozzare e a respirare affannosamente, mentre calde lacrime le rigavano le guance.

«Ary, smettila di urlare», le disse, spaventato, asciugandole il viso. «E smettila anche di piangere, ho capito, basta».

«No, no, tu non capirai mai quello che provo!», urlò ancora, cercando di prenderlo a pugni sul petto, ma lui le bloccò le mani e si avventò sulle sue labbra salate a causa delle lacrime, assaporandole con foga, quasi con violenza.

Ary non capì subito quello che stava succedendo, lo realizzò soltanto quando sentì la lingua di Tom farsi spazio nella sua bocca e lottare con la sua. Non l’aveva mai baciata in quel modo, ne era certa, e la sensazione che provò non fu piacevole.

Aveva ancora i polsi stretti dalle sue mani e iniziavano a farle male, non poteva usare quelle per scostarlo da sé, per questo mugugnò e provò ad allontanarsi da lui con il viso, ma quando parve riuscirci, non fece nemmeno in tempo a riprendere fiato che lui le aveva preso di nuovo il volto fra le mani e le aveva rificcato la lingua in bocca. Quella volta le mani le aveva libere e lo spintonò con tutta la forza che aveva, ma la sua forza non era abbastanza, era un moscerino in confronto a lui, e dovette sforzarsi non poco per allontanare il suo viso e prendere l’aria necessaria per gridare: «Basta, Tom!».

Il chitarrista si allontanò di qualche passo, incredulo. Guardò la propria piccola respirare affannosamente, con gli occhi sgranati, gonfi ed arrossati, che, appoggiata anche con una mano al parapetto, lo stava osservando terrorizzata. Solo allora realizzò quello che aveva fatto e si chiese come aveva potuto fare una cosa del genere, tanto da spaventarla in quel modo, tanto da farle pronunciare il suo nome. Aveva immaginato che la prima volta che lo avrebbe chiamato lo avrebbe fatto piano, sorridendo, con gli occhi pieni d’amore, invece lui gliel’aveva fatto gridare con la paura negli occhi e un’espressione di pura preoccupazione sul viso.

Sentì una mano posarsi sulla sua spalla ed allontanarlo da lei, si voltò e vide Bill, con gli occhi lucidi. Non riuscì a sostenere il suo sguardo ed infatti abbassò gli occhi, scappando all’interno e correndo in camera sua, dove si chiuse per riflettere e magari piangere un po’.

 

«Ary, vuoi disegnare?», le domandò Anto, accarezzandole i capelli sulla schiena. La sua risposta fu negativa, come tutte le altre che aveva dato ad ogni proposta della migliore amica, che nonostante tutto non si era ancora arresa.

«C’è qualcosa che vorresti fare, a parte stare qui sdraiata sul divano?». Si portò le mani sui fianchi, guardandola: era stesa a pancia in giù sul già citato divano, con un cuscino sotto e uno sopra la testa, in modo da attutire ogni suono.

«No», mugugnò ancora una volta.

Si trovava in quello stato da quando Tom si era comportato in quel modo e si era rinchiuso nella sua stanza. Non voleva parlare con nessuno, non voleva fare niente e, soprattutto, non voleva nemmeno essere lì, perché stare lì senza Tom accanto le sembrava una perdita di tempo, nonostante ci fossero Anto, Bill, Georg e Gustav che tentavano in tutti i modi di tirarla su di morale.
Non riusciva ancora a capire perché Tom si fosse comportato così, non riusciva a capire tante cose, ma una l’aveva capita, e bene: da quando lei era lì non aveva fatto altro che causare problemi. Lei era il problema.

«Dai Anto, lasciala stare. Se vorrà fare qualcosa ce lo dirà», disse Bill con tono arrendevole.

Ary ringraziò il cielo per averle donato un amico così, anche se non se lo meritava per niente. Qualche secondo dopo, però, sentì due mani sollevarle i polpacci e poi riappoggiarli su qualcosa di più duro ed… ossuto, era il termine adatto. Sollevò il viso, arrossato a causa del calore che si era costretta a sopportare stando in quella posizione, e guardò Bill, seduto lì affianco; le sue gambe erano esattamente sulle sue, come se fosse normale, e ad Ary non provocò alcuna reazione strana, in effetti. Era il suo migliore amico, infondo…

Si tirò su di scatto e Bill si spaventò, perché presuppose che fosse stata colpa sua, ma, al contrario di ciò che si aspettava, Ary si girò e posò il capo sulle sue gambe, rannicchiando le gambe al petto. In più, gli prese una mano e la posò sul proprio capo, invitandolo ad accarezzarle i capelli.

Bill sospirò, accontentandola. «Scricciolo… che cos’hai? È per Tom? Sono sicuro che lui non voleva “aggredirti” in quel modo, è che è strano per lui… deve ancora abituarsi a questa situazione, è stressato, non voleva che tu prendessi i sonniferi e inoltre gli manchi… anche se fa finta di niente, gli manchi tantissimo».

Ary si girò per poterlo guardare negli occhi. «Ma io sono qui», mormorò, confusa.

«Gli manchi nel senso prettamente fisico», le spiegò, ridacchiando alla sua reazione imbarazzata: aveva il volto paonazzo e si mordicchiava le labbra. «Insomma, è pur sempre un uomo, capiscilo», scrollò le spalle, divertito.

«Perché non me l’ha detto chiaro e tondo, invece di infilarmi la lingua in gola?», domandò, un po’ spazientita.

Bill, spiazzato da quel quesito, boccheggiò alla ricerca di aiuto, che sicuramente non trovò in Anto, che si rifugiò con il naso in una rivista trovata per caso sul tavolino.
«Beh, magari pensava che avresti potuto reagire male… io non ne ho idea, mi dispiace», balbettò.

Ary piombò di nuovo nel suo stato di semi-mutismo e le cadde l’occhio sul tatuaggio che Bill aveva sull’avambraccio: Freiheit ‘89. Lo sfiorò con la punta delle dita, facendogli probabilmente il solletico perché aveva arricciato le labbra come se volesse trattenere una risata, e poi lo guardò negli occhi, pronta a parlare di nuovo e di tutt’altro argomento.

«Mi piace», gli disse.

«Anche a me», ridacchiò.

«Anche io ne voglio uno».

Sorpreso, si trovò ancora a boccheggiare e quella volta li incontrò gli occhi di Anto, stupefatti quanto i suoi. «Sul serio?», le chiese. Ary annuì con un cenno del capo, tornando ad accarezzare l’inchiostro nero sulla pelle chiara di Bill.

«No. No, Bill, non ci pensare nemmeno», sbottò Anto, facendola spaventare.

Alzò lo sguardo e notò che Anto e Bill si stavano guardando negli occhi proprio come quando lei faceva delle richieste silenziose. Chissà cosa si stavano dicendo… era così curiosa! Ma non fece in tempo a chiedere delucidazioni, che Bill disse:

«Dai, Anto, non può succedere nulla di male!».

«Nulla di male? Suo padre vi ha concesso non so come di farla venire qui e tu vorresti persino farle fare un tatuaggio?! Sei pazzo!».

«Può darsi, ma non vedo che cosa ci sia di tanto sbagliato in un tatuaggio. Uno piccolo… piccolissimo!», le fece gli occhioni dolci, sfarfallando le ciglia, e Anto sospirò, disperata, massaggiandosi le tempie.

«Ti prego», la supplicò continuando con la sua tecnica speciale, che fece sorridere Ary.

«Ah, ti odio!», mugugnò, sbattendo le mani sul tavolo.

«Oh, anche io!», rispose gioioso, alzandosi dal divano di scatto per prenderla fra le braccia e baciarla con travolgimento sulle labbra, anche se lei cercava di spostarsi, reprimendo una risata.

«No, Bill, tu non puoi abbindolarmi in questo modo!», gli disse, minacciosa, ma non sembrava affatto una minaccia, quella.

«Invece sì, posso», le sussurrò e Anto si sciolse fra le sue braccia, lasciandosi baciare e contraccambiando.

Ary rimase ancora una volta ad osservarli, ma dovette distogliere lo sguardo per non piangere: adesso non poteva più andare da Tom per fare la stessa cosa.

«Okay, allora noi andiamo!», squittì il frontman felice come una pasqua, lasciando con un palmo di naso la propria ragazza e prendendo per il polso Ary, trascinandosela dietro.

«Non state via troppo, tornate per cena», gli raccomandò Anto, con tono materno.

«Sì mamma, a dopo!», ridacchiò divertito e, dopo aver preso la propria borsa nera con le borchie ed essersi infilato un cappellino grigio sulla testa e un paio di occhiali da sole per non farsi riconoscere, uscì fuori dall’appartamento trascinandosi dietro l’amica.

«Ary si fa il suo primo tatuaggio, Ary si fa il suo primo tatuaggio», continuò a canticchiare in ascensore e raggiungendo la propria Audi bianca nei garage sotterranei. Ary non poté far altro che osservarlo con un sorrisino sulle labbra, felice di star rendendo qualcun altro felice, oltre se stessa.

Salì in auto, accanto a Bill, e rimase in silenzio a guardare fuori dal finestrino Amburgo e la strada che scorreva sotto le ruote, fino a quando proprio lui non la distrasse dal flusso dei propri pensieri.

«Ehi, Ary», la chiamò. «Come mai vuoi farti un tatuaggio? Nel senso, hai già qualcosa di preciso in mente?».

Ary ci pensò su e sorrise, ma preferì soltanto annuire. Non voleva dirgli che cos’aveva in mente, voleva che fosse una sorpresa anche per lui. Forse lo rese un po’ deluso, ma era certa che dopo avrebbe capito.

«Hai paura?», le chiese allora, rimanendo concentrato sulla strada.

«Dovrei averne?», rispose, accigliata.

«Beh, io ho avuto paura la prima volta che mi sono fatto un tatuaggio», le confidò. «È normale».

Ci pensò su e, in effetti, un po’ di paura ce l’aveva. Soprattutto, aveva paura di sentire l’ago incidere per sempre la sua pelle, ma era certa di poter sopportare.

«Fa male?», gli domandò comunque.

«Un pochino. Ma ne vale la pena», le sorrise affettuosamente e Ary ricambiò, sentendosi subito sollevata. E poi, avrebbe avuto lui al suo fianco, non era sola.

Bill parcheggiò l’auto nel parcheggio proprio di fronte ad un negozio di tatuaggi e scese; Ary lo seguì a ruota e gli prese la mano, stringendosi l’altro braccio al petto mentre attraversavano la strada sulle strisce pedonali.

Bill si guardò in giro, come se volesse accertarsi che non ci fosse nessuno a guardarli, e poi disse: «Ecco, siamo arrivati.» Le aprì la porta e la fece entrare per prima.

Era un ambiente molto colorato, le pareti erano pitturate con colori molto vivaci e su di esse erano appesi tantissimi riquadri che mostravano disegni di possibili tatuaggi, tutti bellissimi. C’era una stanza principale, con un bancone, un tavolino e un piccolo divanetto su cui attendere il proprio turno; e accanto al bancone c’era l’entrata ad un’altra stanza, protetta da una tendina di perline rosse.

La loro entrata nel negozio era stata annunciata da un campanellino, appeso al soffitto, che aveva attirato l’attenzione di un ragazzo abbastanza giovane, moro e con due occhi blu da togliere il fiato; aveva le braccia completamente tatuate e da sotto la maglietta si scorgevano dei disegni tribali che continuavano anche sul collo, fino a dietro la nuca. Ary immaginò che il tatuaggio si estendesse su tutto il petto e anche su tutta la schiena e non le piacque molto.

«Bill!», lo salutò sorpreso, alzandosi dal bancone su cui sembrava stesse facendo qualche schizzo. «Che ci fai tu qui, non hai in programma nessun nuovo tatuaggio!».

«Ciao Jim», lo salutò, un po’ imbarazzato, portandosi una mano sul collo. «Non ti preoccupare, il tatuaggio non è per me», accennò alla ragazza al suo fianco, che teneva per mano. «So che avrei dovuto chiamare comunque, ma non era previsto e… dimmi che hai un buco, adesso. Per favore».

Jim sospirò, poi allargò un sorriso. «Tu e la tua amica siete molto fortunati, sai? Mi ha appena chiamato un cliente che dovevo avere adesso, dicendomi che a causa di un imprevisto non può venire. Quindi… sì Bill, ho un buco, adesso».

«Oh, sì», esultò moderatamente, sorridendo raggiante ad Ary.
«Ah, quasi dimenticavo di fare le presentazioni!», esclamò. «Ary, ti presento Jim, l’autore di tutti i miei tatuaggi; Jim, ti presento Arianna, la mia migliore amica».

A quella descrizione di sé, Ary sentì quel calore invaderle il petto e riscaldarla, mentre sorrideva felice.

«Oh, piacere di conoscerti», disse Jim, avvicinandosi e porgendole la mano.

«Piacere mio», rispose, un po’ incerta, ricambiando la stretta.

«Bene, quindi sei tu che devi fare il tatuaggio…», disse, passandosi una mano intorno al mento. «È il primo?».

«Sì», rispose Bill al posto suo, annuendo.

Lo sguardo di Jim, nonostante avesse risposto il cantante, non si spostò dagli occhi di Ary. «E avevi già qualche idea, qualche cosa in particolare che volevi?».

«Sì», rispose quella volta Ary, sentendosi al centro dell’attenzione: sia Bill che Jim la guardavano curiosi. «Una… una lettera», spiegò.

Bill corrugò la fronte, chiedendosi quale lettera volesse farsi tatuare l’amica, visto che aveva diverse opzioni.

«Precisamente, quale lettera?», domandò Jim.

«La D», mormorò e Bill capì tutto: gli sembrò persino la lettera più ovvia che volesse.

«La D… Sì, non c’è problema», disse entusiasta Jim. «Forza, vieni con me, ti faccio vedere qualche schizzo e se non ti piacciono te ne creo uno nuovo».

Ary seguì Jim, ma tornò indietro subito dopo per raccattare Bill che era rimasto lì fermo impalato, accanto al divanetto.

 

Quella lettera bruciava sulla pelle come bruciava il suo ricordo nel cuore, solo che nel secondo caso non aveva una dose massiccia di crema idratante e uno strato di pellicola trasparente con i quali proteggere la ferita. Ma era felice e soddisfatta del suo nuovo tatuaggio, non poteva essere più felice di così.
Aveva tanta voglia di farlo vedere ad Anto e a Tom: per la prima, era quasi sicura che non avrebbe fatto molte storie, ma per il secondo… non era nemmeno sicura che lo vedesse, quella sera, figurarsi se poteva sperare che gli piacesse.

Entrarono nell’appartamento ancora mano nella mano, come erano rimasti anche mentre Jim aveva graffiato la spalla di Ary con l’ago. In salotto trovarono Gustav e Georg, che guardavano la tv; Anto era in cucina, che incominciava a preparare la cena.

«Dov’è Tom?», Bill le rubò le parole di bocca.

«È andato ancora in studio», rispose Anto, senza sollevare gli occhi dai pomodori che stava tagliando.

«Gli hai detto qualcosa del tatuaggio?».

«No, non gli ho detto nulla», sospirò.

«Io vado da lui», mormorò Ary, animata da chissà quale coraggio, ed indietreggiando uscì dalla cucina, per poi correre fuori dall’appartamento fino allo studio di registrazione.

La porta della sala mixer era socchiusa, l’aprì quel poco che le permetteva di sbirciare all’interno e quando vide che non c’era nessuno ci si infilò dentro. Rimase ad osservare tutti i tastini e le levette colorate di fronte a lei, ma venne ben presto distratta da qualcosa di fronte a lei. Alzò lo sguardo e oltre il vetro che le permetteva di vedere, ma di non essere vista dall’interno della sala insonorizzata, scorse Tom e David: il primo era seduto al pianoforte e stava suonando, il secondo era appoggiato con le braccia al ripiano lucido dello strumento e lo stava osservando con attenzione. Ricordava qual'era il tasto che permetteva di sentire che cosa succedeva dall’altra parte del vetro scuro, anche di comunicare da una stanza all’altra se necessario, e lo schiacciò, curiosa.
I suoi timpani vennero subito accarezzati da una melodia un po’ malinconica, ma bellissima. Si sarebbe persino commossa, se fosse durata un po’ di più, ma purtroppo David lo interruppe e gli consigliò di fare qualche modifica.

«Okay, la rifaccio da capo», disse Tom, ma David non glielo permise: gli posò una mano sulla spalla e lo guardò paterno, con una luce negli occhi che Ary non gli aveva mai visto.

«Va tutto bene, Tom?», gli domandò.

«Sì», sgranò leggermente gli occhi. «Mi hai fatto la stessa domanda stamattina e ti ho detto…».

«Spero che tu smetta di mentire», gli sorrise in modo lieve.

«Mentire? Io… io non mento, sto bene», ridacchiò.

«Non è vero, te lo leggo in faccia che non stai bene. Si tratta di Ary?».

A quella domanda il cuore della diretta interessata fece una capriola. Si portò una mano sul petto, sentendolo battere velocemente, e si mordicchiò le labbra nell’attesa di una risposta.

«Ary… Ary non c’entra niente. Cioè, sì, c’entra, ma sono io… sono io che continuo a sbagliare con lei e mi sento praticamente inutile; vorrei aiutarla, vorrei fare qualcosa che possa aiutarla davvero, ma… non ci riesco».

Ary spense il collegamento con l’altra stanza, chiudendo gli occhi, ed uscì dalla sala mixer per bussare a quella adiacente, quella in cui avrebbe incrociato, finalmente, gli occhi di Tom senza nulla a dividerli.
Non aspettò alcuna risposta, aprì semplicemente la porta e trovò gli occhi di David e quelli di Tom ad osservarla, incuriositi e spiazzati.

Accennò un sorriso. «Ciao, David».

«C-Ciao», ricambiò il manager. Gettò un’occhiata a Tom e si allontanò dal pianoforte, mormorando: «Vi lascio soli», con un sorriso incerto sulle labbra.

Si chiuse la porta alle spalle e Ary concentrò la propria attenzione sul chitarrista, che la stava guardando ancora come se fosse un’aliena. Represse una risata, abbassando il viso, e fece qualche passo verso di lui. Si mise seduta al suo fianco, rivolta verso i tasti bianchi e neri del piano, e li accarezzò con le dita.

Tom la stava ancora fissando e non capiva perché si trovasse lì; non aveva previsto di vederla fino all’ora di cena e ora era proprio al suo fianco, di fronte al pianoforte. Non sapeva che fare, nemmeno che dire se non fosse stato che le doveva ancora delle scuse. Aprì la bocca per farlo, ma Ary sorrise soprappensiero e prima che lui potesse fiatare disse:

«Se anche ti avessi risposto, quando mi chiamavi, probabilmente non ti avrei detto nulla».

Tom corrugò la fronte, confuso. Solo dopo qualche secondo collegò che stava rispondendo alla domanda che le aveva posto la sera prima e alla quale non aveva fatto in tempo a rispondere a causa dei sonniferi.

«Io… non mi ricordo bene come ho vissuto quelle due settimane, so solo che era tutto buio, che non avevo nemmeno la forza di parlare, di alzarmi dal letto; avevo solo la forza per gridare e piangere nel bel mezzo della notte, quando facevo quegli orribili incubi». Chiuse gli occhi, con una smorfia sul viso. «Quando voi due siete ricomparsi, tu e Bill, io… È come se prima di avervi rivisto avessi vissuto in completo blackout e quando ho rivisto i tuoi occhi, è tornata la luce. Non me ne spiego il motivo, forse perché infondo lo so troppo bene: mi siete mancati, mi sei mancato e…», voltò il viso verso di lui e, nonostante fosse arrossita e avesse gli occhi lucidi, gli prese il viso fra le mani per guardarlo ancora più intensamente negli occhi. «E ti amo».

Tom sospirò e chiuse gli occhi, posando la fronte sulla sua. «Mi dispiace, mi dispiace tanto», mormorò. «Mi dispiace per stamattina, per ieri, per averti lasciata sola proprio in quel momento… per tutto».

Ary rise debolmente, ma fu ossigeno puro per suoi polmoni.
«Non importa per stamattina, Bill mi ha spiegato la situazione». Rise più forte, divertita da chissà che cosa, e gli strinse le braccia intorno al collo. «E non ti preoccupare… ormai è passato, adesso sto meglio».

«Piccola…». La strinse forte, affondando il viso nei suoi capelli, contro il suo collo, e respirò profondamente il suo profumo.

«Sai, ho fatto una pazzia», gli sussurrò, stando ancora stretta fra le sue braccia.

Tom sobbalzò: l’aveva detto in un modo così dolce… che se anche avesse fatto la pazzia più pazza del mondo, non sarebbe mai riuscito ad essere arrabbiato con lei. Nemmeno per un istante.
«Quale?», le chiese.

«Ho fatto un tatuaggio».

 

«BILL, QUANDO SUO PADRE MI CHIEDERà QUAL è IL MIO ULTIMO DESIDERIO, GLI RISPONDERò CHE TU DOVRAI MORIRE CON ME!».

Bill, udendo le grida di Tom provenienti addirittura da fuori l’appartamento, si girò lentamente verso Anto e scoppiarono a ridere insieme.

   
 
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