Poche parole prima di
lasciarvi alla lettura.
Questa original sarà composta di 5 capitoli, giacché
essendo il primo esperimento originale in cui mi imbarco, ho evitato di
lanciarmi in trame da mal di testa.
L’argomento non è leggero, motivo per cui il rating è giallo. Non dovrei
trattare nulla in maniera cruda, ma nel caso potrebbe alzarsi ad arancione (non
per il lato erotico, inesistente in tutti e 5 i capitoli).
Nonostante io mi sia documentata un po’ dal vivo e un po’ leggendo sul fenomeno
‘hikikomori’, non è mia intenzione trattarlo con la presunzione di un’esperta
in materia, non avendone le capacità ^^”
Grazie a Yoko per avere la forza di betare con tutto
il casino di virgole che faccio 8D
È
sempre stato così faticoso vivere?
Io non lo so più.
Nella società giapponese il fenomeno degli hikikomori (1) era tanto
diffuso quanto messo a tacere dalle famiglie che ne erano interessate. Colpiva
tutti, chiunque, e lo scambiavano per una malattia: non c’erano soggetti
predisposti ma, alla stregua di mode o tormentoni, gli adolescenti sembravano
particolarmente ‘portati’ a diventarlo.
Quello che non si capiva era che essere hikikomori
non era una malattia, ma portava lentamente ad ammalarsi; ad un certo punto ti
scattava chissà cosa nella testa, e semplicemente ti chiudevi in casa.
Magari all’inizio pensavi che saresti uscito – “solo qualche giorno”, ti dicevi
– e poi quasi non te ne accorgevi, ma alla fine alla realtà non ci tornavi più.
Questo è un hikikomori. Una delle
descrizioni più utilizzate era “individui che si isolano volontariamente dalla
società per periodi lunghi mesi o, a volte, anni”.
Per i genitori un figlio così era un grave colpo alla dignità. Un hikikomori lo si scopre dopo mesi.
Un genitore difficilmente ne parlava, persino con un medico.
I vicini potevano sentire. (2)
Anche
Toru si era detto “è solo per qualche giorno”: prima di accorgersene, erano
passati mesi.
Era iniziata quando aveva sedici anni, alla fine del primo anno di liceo –
nella seconda metà, per essere precisi – provando qualche volta a tornarci, ma
non aveva mai raggiunto il cancello della scuola. Sua madre e suo padre avevano
comunicato alla scuola che si era ammalato; dal loro punto di vista non era
stata totalmente una bugia, e i docenti avevano “capito”.
Toru aveva passato il suo tempo vegetando nella propria stanza: leggeva,
giocava ai videogame, mangiava, dormiva. All’inizio, aveva continuato l’hobby
del modellismo: lo distraeva.
Poi aveva perso interesse anche in quello.
A volte si era resto conto, a pomeriggio inoltrato, di aver passato la giornata
a fissare il soffitto senza muoversi; perdeva il senso della realtà, guardando
il nulla, e il tempo passava. Così.
«Toru» si sentì chiamare da sua madre, e spostò pigramente lo sguardo verso la
porta chiusa della propria stanza. Non aveva la minima voglia di alzarsi dal
letto per aprirla.
«Toru» la voce di sua madre, più vicina, lo chiamò di nuovo e poco dopo la
donna apparve sulla soglia. Si guardarono per un attimo: lui con un’espressione
apatica, lei con lo sguardo di chi prima di aprire la porta aveva sperato di
vedere qualcosa di diverso dal solito, e invece si era ritrovata di fronte lo
stesso scenario di sempre.
Ma, come al solito, sua madre sorrise – Toru pian piano aveva imparato a
riconoscere quella sfumatura di disagio che lei pensava di mascherare bene.
«Sto andando al lavoro, tuo padre è già uscito.» disse, muovendo qualche passo
nella stanza. Toru sapeva che quando lo faceva, era perché pensava o sperava di
instaurare con lui una sorta di contatto che avrebbe automaticamente portato a
chissà quale dialogo.
Lui spostò lo sguardo da lei, portandolo nuovamente al soffitto. Era un modo come
un altro per vanificare i suoi sforzi.
«Come… ti senti, oggi?» tentò lei. Glielo chiedeva
ogni due, tre giorni: abbastanza spesso per ricordargli il suo stato in casa,
ma non troppo spesso da farlo apparire innaturale facendolo sentire sotto
pressione.
«Come al solito.» rispose, quasi da copione. E a quella risposta sua madre
sapeva che il suo tentativo, anche per quel giorno, era andato in fumo.
«Capisco. Beh, non c’è fretta. La salute è importante.» rimediò, con un altro
sorriso. Era il modo in cui, solitamente, “batteva in ritirata”.
«Apri un poco le finestre. L’aria fresca ti farà bene.» aggiunse premurosa,
tornando sui propri passi e avviandosi nuovamente verso la soglia: «Il pranzo è
in frigo. Mi raccomando.» concluse senza aspettare una risposta, uscendo e
chiudendosi nuovamente la porta alle spalle.
Portò nuovamente lo sguardo lì, da dove sua madre se ne era andata uscendo,
annoiato. Sbuffò leggermente.
«…che stupidaggine.» pronunciò seccato, girandosi su
un fianco e dando le spalle alla porta.
Perché era iniziata, Toru non se lo ricordava. Ma, se
qualche dottore gli avesse chiesto perché avesse cominciato ad isolarsi, non
era vero che lui non sarebbe stato in grado di spiegarlo. Sapeva cosa c’era;
cosa lo rendesse, secondo sua madre, malato. E probabilmente quello sarebbe
stato il primo passo per “guarire”, quel primo passo che molti nemmeno
facevano.
Non ci riuscivano.
Non che Toru non ci avesse provato… solo, si
arrabbiava quando lo faceva.
Si sentiva stanco, e allora lasciava perdere e si diceva: “domani ce la farò”.
E domani era sempre il giorno dopo, e quello dopo ancora. Si trasformava in una
settimana, un’altra, un mese… “domani” non era mai
arrivato, alla fine.
All’inizio, le chiamate di alcuni suoi compagni lo avevano smosso. Qualche
telefonata, qualche mail di incoraggiamento per una pronta guarigione. Toru
all’inizio rispondeva: era un po’ impersonale, a volte, ma sempre cortese.
Ringraziava.
Ma non era così facile. Quei messaggi lo spronavano a tornare, sì, e qualcosa
sembrava suggerirgli che era tutto a posto, che era bello che i compagni si
preoccupassero per lui e volessero rivederlo presto. Perciò Toru all’inizio si
era fatto forza: le mattine in cui, svegliandosi, gli sembrava di stare un po’
meglio provava ad andare.
Qualche volta, forse un paio, era quasi arrivato in aula. Ma proprio di fronte
alla porta, lì lì per aprire…
si era tirato indietro.
Mancava così poco, solo una mano tesa in avanti per aprire e un passo in più
per entrare… invece, poi, non ce la faceva. Si
sentiva quasi mancare il respiro, oppure sembrava che gli girasse la testa.
Allora si arrendeva. Le prime volte aveva provato ad andare in infermeria,
pensando di stare male per davvero. Poi, una mattina, davanti all’aula un
compagno in ritardo lo aveva visto, e gli aveva parlato.
«Kobayashi-kun, bentornato. Che fai qua fuori?» aveva domandato.
Toru in una parte della sua mente aveva capito che quella frase era stata
pronunciata senza cattiveria, anzi con leggerezza; ma qualcos’altro dentro di
lui, qualcosa di oscuro e disgustoso aveva sopraffatto quella consapevolezza.
Come del fango che inghiotte un gioiello coprendone ogni minimo luccichio.
Quella volta era corso via e, in cortile, la nausea era stata così violenta ed
improvvisa che aveva dato di stomaco lì dove si trovava, cercando di non farsi
vedere per la vergogna e lo spavento, forse.
Da allora, tentativo dopo tentativo, il punto che riusciva a raggiungere prima
di arrendersi e tornare a casa – o dirigersi altrove – era stato sempre più
distante dalla meta: l’aula, l’ingresso, il cortile.
Il cancello.
Alla fine aveva rinunciato, mosso ogni volta da uno scatto di rabbia più
violento quando rientrava in casa; sempre più frustrato, più deluso, più
stanco.
Sfibrato.
Fino a che il suo massimo era diventato rimanere immobile, e respirare
soltanto.
Pian piano, la noia e la rassegnazione l’avevano
completamente inglobato.
Persino sforzarsi di vivere era diventata una fatica enorme. I suoi genitori,
quasi come lui, erano passati dall’incredulità alla confusione. Alla
rassegnazione, però, loro non ci erano arrivati e avevano anzi preso strade
diverse sia dal figlio, che l’uno dall’altra.
Suo padre si era lasciato completamente sopraffare dalla negazione. In alcun
modo aveva accettato anche solo la remota possibilità che suo figlio fosse
diventato un hikikomori – l’unica
volta che lo aveva detto, non era nemmeno stato in grado di pronunciare la
parola per intero, come se la sola idea gli risultasse inconcepibile ed
irreale.
Sua madre, invece, viveva in una costante indecisione tra la scelta di seguire
il marito verso una negazione – sebbene meno categorica e per certi versi più
‘comprensiva’, più ‘da mamma’ – o se lasciarsi andare al più totale sconforto
per tutti i tentativi che non portavano a nulla, e la deludevano giorno dopo
giorno, lasciando morire la speranza di rivedere suo figlio uscire e andare da
qualche parte.
Infine, si era arrivati ad una specie di situazione dalla quale nessuno dei tre
era più riuscito ad uscire, quasi impossibilitati a districarsi da fili di
pensieri mai detti e parole di cui poi si erano pentiti.
Toru non aveva più nemmeno tentato di andare a scuola, o di mettere piede fuori
di casa.
Suo padre si era dato anima e corpo a qualsiasi cosa lo tenesse lontano da casa
il più a lungo possibile.
Sua madre continuava a parlargli; si rivolgevano sempre le stesse frasi, come
poco prima. Lei nella speranza che prima o poi quella routine cambiasse,
smettendo di somigliare più ad un copione imparato a memoria che ad una
conversazione, lui credendo che le bastasse quello per lasciarlo in pace.
Le sue giornate erano diventate noiose, tanto quanto non avrebbe mai potuto
sopportare una volta; si svegliava ad un orario qualsiasi – tardi o presto, a
seconda di quando andava a dormire – mangiava e si lavava quasi fosse un
fastidio. Poi tornava in camera, e ingannava il tempo come capitava, o in base
all’umore.
Nient’altro. Mai niente di diverso.
Erano giornate completamente prive di significato.
Era come non essere affatto vivi.
Quando avevano suonato alla porta, con un sopracciglio alzato aveva guardato
l’orario dalla sveglia: troppo presto per sua madre – ci sarebbero volute altre
tre ore come minimo, perché tornasse – e perciò ancor meno probabile che si
trattasse di suo padre.
Toru pensò immediatamente ad un vicino. I Matsuda, la
casa a fianco alla loro, avevano due bambini delle elementari. Era capitato che
giocando in giardino, una pallina da baseball finisse nel loro.
La moglie del signor Izawa invece – che abitava di
fronte – spesso passava da sua madre per parlare di argomenti leggeri, cose da
‘donne di casa’.
Sbuffò quando capì che sarebbe toccato a lui accogliere chiunque fosse.
Si alzò pigramente, recuperando dalla scrivania la mascherina che normalmente
si utilizzava per il raffreddore. I suoi si erano assicurati di ricordargli
costantemente cosa dire nel caso qualcuno andasse a fargli visita e loro –
sfortunatamente – non ci fossero.
Si trascinò fino alla porta, mascherina ben tirata su e l’aspetto accettabile.
Indossò le pantofole e aprì.
Se non avesse ricordato la divisa della sua scuola nonostante fosse assente da
molto, avrebbe pensato ad un fastidioso errore di indirizzo o simili. Di fronte
a lui si trovava in quel momento una ragazza sconosciuta – sperò che non fosse
della sua classe, perché non riconoscerla avrebbe portato più problemi che
altro.
Non spiccava particolarmente per l’aspetto, cosa che rendeva improbabile
poterla riconoscere da qualcosa di specifico: i capelli scurissimi erano
ordinati, un taglio corto e pratico. Gli occhi avevano uno sguardo attento e
vivo, e complessivamente l’espressione di lei gli dava l’idea di una ragazza
nella norma. Non che lui fosse mai stato granché nell’intuire l’indole altrui,
e l’isolamento di certo non lo aveva reso più acuto.
«Kobayashi-kun, giusto?» chiese lei, il tono cortese ed allegro.
Toru fu ulteriormente confuso dalla sfumatura interrogativa di lei, ma si
limitò ad annuire appena.
Lei chinò leggermente il capo: «Noi non ci siamo mai visti a scuola» esordì «sono
Ichikawa Kaoru, terza sezione del secondo anno. Piacere di conoscerti.» si
presentò senza particolari incertezze nella voce.
Toru si aspettava che qualcosa di quelle parole gli smuovesse un qualche
ricordo, anche vago; quando però gli fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto,
ricambiò il gesto dell’altra, sulla difensiva: «Kobayashi Toru. Piacere mio.»
si sforzò almeno.
Essere scortese avrebbe significato dare ai suoi genitori un motivo in più per
interrompere la calma piatta della sua esistenza nell’ultimo periodo, e questo
non rientrava nei suoi piani. Perciò, nonostante non morisse dalla voglia di
vedere qualcuno né di parlarci, si mosse lateralmente per lasciarle spazio in
caso volesse entrare.
Lei lo fece, ringraziando, e Toru dovette cercare di ricordare come rivolgersi
a qualcuno in maniera adeguata. Kaoru non parve farci troppo caso.
«Hai detto ‘non ci conosciamo’, quindi… » lasciò
cadere la frase, perché dubitava seriamente che chiedere “perciò che ci fai a
casa mia” fosse molto cortese. Alla ragazza, tuttavia, parve un’incertezza
assolutamente lecita, la sua.
«Siamo in classe insieme, per la verità, ma il primo anno non era così.» chiarì
e Toru finalmente capì quanto bastava: lui aveva lasciato la scuola prima che,
con il secondo anno, cambiassero le classi (3). Ovvio che non si
ricordasse di lei.
«Al momento sono una dei rappresentanti di classe.» riprese «Dal momento che
sono quella dei due che abita più vicina, ho pensato di passare di persona.»
proseguì, facendo una pausa probabilmente con la convinzione che Toru potesse
stancarsi troppo dal momento che anche a lei – come a tutti gli altri –
dovevano aver spiegato che era ‘malato’.
Toru non disse nulla, e la vide allungare verso di lui una mano che teneva una
busta di carta rigida. Lui spostò lo sguardo da lei alla busta, tornando poi
nuovamente sulla ragazza.
«Cos’è?» chiese quasi sulla difensiva. Kaoru sembrò non notarlo, o non darci
peso: «Appunti. Studiare sui libri sicuramente permette di stare in pari con il
programma, ma con degli appunti le cose poche chiare che chiederesti a lezione
sono più semplici. Ho pensato di portarteli, sono miei e dell’altro
rappresentante, Takase-kun.» concluse la sua spiegazione.
Toru rimase in silenzio, limitandosi ad osservarla senza risponderle. Il primo
pensiero fu che, vista la parlantina, non era difficile credere che fosse una
capoclasse.
Poi pensò che o era poco intelligente, o con poco senso pratico, oppure molto
poco simile alle ragazze normali. Ben poche delle sue coetanee sarebbero
entrate in casa di un ragazzo e, all’apparente assenza dei suoi genitori – il
che voleva dire essere soli con il ragazzo in questione – sarebbero rimaste
senza fare domande. Molte avrebbero assicurato di avere un impegno e si
sarebbero congedate.
Non che poi a Toru importasse davvero: non aveva il minimo interesse per Kaoru
o chi per lei.
Decise tuttavia che accettare gli appunti, nonostante il dubbio che gli
sarebbero davvero serviti, fosse la cosa migliore da fare per evitarsi altri
problemi. Prese quindi la busta dalla mano di lei, occhieggiandone il contenuto
senza reale interesse.
«Sono fotocopie degli originali, perciò puoi tenerli tutto il tempo che vuoi.»
assicurò lei, fiduciosa.
Toru si chiese se, a quel punto, lei si aspettasse che qualcuno – lui – le
offrisse il thé.
Sperò vivamente di no.
«Va bene.» rispose almeno, e la vide inclinare appena il capo lateralmente,
come incuriosita da qualcosa a cui diede voce in breve: «Devi essere davvero
stanco. Hai la voce un po’ bassa, Kobayashi-kun.» osservò senza alcun
significato nascosto o insinuazioni.
Tuttavia, Toru ne fu colpito. Negativamente.
Sentì la sensazione ormai familiare di quando, anche per una sciocchezza, si
irritava finendo col prendersela con un qualsiasi oggetto della sua stanza.
Certo che era stanco, certo che lo era.
Stanco di tutto, di sua madre e delle sue aspettative, della sua speranza che
un giorno svegliandosi avrebbe scoperto che tutto era tornato come prima. Di
suo padre e del suo non saper fare affatto il padre; della scuola e di non
riuscire più ad andarci, del soffitto che fissava, del cibo che mangiava, del
tempo a volte troppo lento ed altre troppo veloce.
Era stanco di essere considerato ‘malato’ dai vicini, di esserlo davvero per
suoi genitori, di convincersene lui stesso. Stanco della rabbia improvvisa e
dell’apatia che in sottofondo gli rendeva tutto difficile, mostrava tutto come
privo di interesse.
Era stanco di stare ‘dentro’, stanco che ci fosse un ‘fuori’.
Certo che la sua voce era bassa, visto che non parlava quasi più con nessuno da
mesi! Certo che era stufo!
Ed ora cosa voleva per averlo notato? Un premio? Dei complimenti?!
«Sì. Sono stanco. Quindi perché non vai a casa?» la incalzò senza nemmeno più
il tentativo di essere cortese, nella voce.
Chi se ne fregava, se diceva a qualcuno che era stato maleducato, che l’aveva
cacciata via.
Chi se ne fregava se i suoi genitori poi se ne vergognavano.
Spostò finalmente lo sguardo su di lei, proprio mentre la sua mano lasciava
andare la busta con gli appunti che cadde a terra, pur senza rovesciarsi ma
limitandosi a ribaltarsi su un lato.
«Grazie per la visita, ma non serve più. E sei sola nella casa di un ragazzo,
quale ragazza ci rimarrebbe? Non sai che è sconveniente? Allora va via e torna
a casa tua.» la cacciò, il tono ancora roco ma più irritato. Quasi la spinse
lui stesso ad uscire, senza nemmeno ascoltare cosa lei avesse tentato di
replicare.
Era stanco di stare ad ascoltare.
Era stanco persino di respirare.
Quando aveva sentito Kaoru allontanarsi da casa sua, Toru si era lasciato scivolare
lì a terra, lanciando la mascherina contro il muro e ignorando il suo afflosciarsi
sul pavimento. Alla fine era rimasto quasi due ore lì, sdraiato nell’ingresso a
guardare un soffitto diverso dal solito della sua stanza – ma non per questo
meno monotono.
Era stato solo allo squillare del telefono, non troppo distante da dove si
trovava lui, che aveva portato lo sguardo su un punto diverso.
Con lentezza ed indolenza si era alzato, fregandosene che potesse smettere di
suonare mentre lui vi si avvicinava. Aveva quindi alzato la cornetta e
pronunciato un meccanico ed impersonale: «Pronto, casa Kobayashi.»
La risposta dall’altra parte non era arrivata subito, quasi – per assurdo – il
suo interlocutore non si fosse proprio aspettato che qualcuno parlasse o
alzasse il ricevitore.
«Uhm… sono Hayaka Sakura.» si identificò infine una
voce femminile.
Un’amica di sua madre, pensò, nonostante sembrasse piuttosto giovane.
«Mia madre non c’è. Vuole lasciare un messaggio?» chiese, allungando già la
mano verso il blocchetto apposito lì nei pressi. Bloccò il movimento a metà
strada, quando dall’altra parte colse un silenzio fatto principalmente di
esitazione.
«No, io… non ho chiamato per questo.» ammise la
ragazza.
Confuso, Toru tacque, senza immaginare cosa potesse volere se non si trattava
di un’amica di sua madre. Poi, per un solo attimo, un’idea gli balenò in testa
facendolo trasalire. Non poteva essere davvero…
«Io ho preso un numero dall’elenco e ho chiamato.» sentì dire, e sbatté un paio
di volte le palpebre. Cos’era, uno scherzo telefonico?
«Volevo solo, uhm… parlare. Spero di non aver
disturbato, e—» Toru calò impietosamente la cornetta sull’apparecchio, senza
alcun preavviso, interrompendo bruscamente la chiamata.
Chi diamine chiamava cercando un numero a caso sull’elenco del telefono?!
Volevo
solo, uhm… parlare.
Anche ore dopo, quelle parole risuonavano nella sua mente a metà fra un’accusa
e una richiesta che chiunque avrebbe potuto esaudire meglio di lui.
Solo qualche nota di testo.
1, hikikomori: dal giapponese,
letteralmente ‘isolarsi, stare in disparte’
2, I vicini potevano sentire: questa
frase mi è stata detta da una persona esistente, una studentessa giapponese con
cui ho avuto modo di parlare. In Giappone, si tiene moltissimo alle apparenze,
anche e soprattutto nell’ambito del vicinato.
3, cambio di classi: in Giappone si
tende, tra il primo e il secondo anno, a cambiare le classi rimescolandone gli
alunni. In terzo, poi, si tende invece a mantenere la classe formata al secondo
anno.
La frase in apertura è del manga “Sangen Tonari no Tooi Hito”.