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Autore: Stratovella    05/09/2011    2 recensioni
“Reim sentiva il suo cuore battere ad un ritmo impressionante. La paura e la foga della corsa gli pompavano con violenza il sangue al cervello, disorientandolo come mai prima d’allora.
Dopo tanta fatica, giunsero insieme davanti all’uomo che solo in quel momento sembrava riprendere i sensi. Li guardava dal basso con la pupilla tremante. Respirava a fatica e l’odore acre del sangue impregnava l’area circostante da cima a fondo.
Reim lo fissò, imprigionato nello sguardo di quell’unico occhio vermiglio.”
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Reim Lunettes, Sharon Ransworth, Xerxes Break
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Missing Moments of Xerxes and Reim

Fell from the sky

Reim Lunettes era un giovane di nobile famiglia. Suo padre, un uomo austero ed esigente, era un conte.

Il conte Lunettes si presentava come un individuo alto, dai capelli brizzolati sempre, accuratamente, pettinati con la riga da una parte. Chiunque lo conoscesse avrebbe potuto giurare di non averlo mai visto ridere. Lo stesso Reim non riusciva a ricordare una volta in cui aveva visto un sorriso marcare il volto serio di suo padre. D’altra parte, il conte non era certo il tipo che aveva tempo da perdere in cose banali come le risate. La sua carica, il ruolo che ricopriva all’interno della società era la cosa più importante. Non c’era persona nella sua città che non conoscesse il suo nome. Persino i figli dei più poveri mercanti lo riconoscevano quando passava per le vie delle città, portandosi dietro la moglie e i due figli.

La moglie del conte era la figlia di un barone. A differenza del marito, si presentava come una donna dall’animo gentile e premuroso, sebbene avesse una personalità molto debole e succube del consorte. Per di più, la sua debolezza non era solo interiore. La moglie del conte aveva infatti una salute cagionevole e si ammalava molto spesso, lasciando a Ruri, la primogenita, il compito di badare al fratello minore.

Ma Ruri non era esattamente la ragazza più portata a svolgere un simile compito. Il suo carattere duro e da maschiaccio le impediva di essere un buon sostituto della madre, così finiva sempre che Reim preferisse starsene da solo, piuttosto che giocare con la sorella. Accadeva spesso che per scappare dalle grinfie della dispettosa Ruri, Reim girasse da solo per la città, incappando spesso in brutti incontri.

Sì, perché i bambini che non godevano di quella stessa solidità economica detestavano i nobili figli di papà come lui. Li detestavano, perché loro non facevano niente, eppure vivevano nel lusso, senza avere la minima idea di cosa si provasse a soffrire per un pezzo di pane.

E cosa poteva fare il povero Reim di fronte a un’orda di altri ragazzini che ce l’avevano con lui? Quello che aveva sempre fatto, l’unica cosa in cui poteva dirsi bravo: scappare.

Era così, Reim: debole e inerme, e non c’era nessuno che lo incoraggiasse ad essere più forte, perché sua madre era affetta da una malattia, sua sorella non lo capiva e suo padre era assente. E anche quando il conte tornava a casa, quando aveva un attimo di tempo per guardarlo, la situazione non migliorava: gli unici discorsi che uscivano dalla sua bocca, le uniche parole che rivolgeva a quel figlio che nemmeno poteva affermare di conoscere erano parole di sconforto, che colpivano dritte nel suo punto più debole.

 

“Ho un figlio incapace.”

 

Quella frase rimbombava spesso nella testa di Reim. Non aveva importanza dove si trovasse: se stesse cercando di prendere sonno nel suo letto o se stesse scappando da un gruppo di bambini invidiosi non faceva differenza. Quelle parole, quell’idea che suo padre aveva di lui lo tormentava.

E fu così che, volendo evitare di macchiarsi la reputazione per un figlio che non sapeva come fronteggiare il mondo, il conte prese una decisione: all’età di nove anni, Reim venne portato nella tenuta dei Rainsworth, dove la duchessa Cheryl si era assunta il compito di educarlo, assumendolo come servo personale della piccola nipotina, Sharon.

Al contrario di Ruri, un’adolescente scorbutica e viziata, Sharon, una bambina di appena sei anni, si era mostrata subito dolce e amichevole con lui. Immediatamente, dopo che la nonna l’aveva presentata al nuovo arrivato, la piccola Rainsworth lo aveva invitato a bere del thè con le sue bambole. L’espressione di Reim era diventata subito colma di gioia: così piena di felicità, che si mise a piangere. Sharon lo aveva guardato preoccupata, domandandosi la causa di quelle lacrime.

 

Onii-chan… ?”

 

Gli occhi color terra del piccolo Reim continuavano a buttar giù lacrime nel sentirsi chiamare fratello.

 

“Se non ti piacciono le bambole, possiamo cambiare gioco…

 

Di fronte a quel bambino che piangeva, la piccola Rainsworth cominciò a sentire le lacrime premere anche nei suoi occhi. Nella sua infantile visione del mondo, percepiva il pianto degli altri come la sua più grande sofferenza.

 

Whu… Hu… Whuueeeeeeeeeeee!”

 

Scoppiò a piangere con foga, liberando un dolore di cui neanche lei capiva l’origine.

Quel giorno, continuarono a piangere così, calmandosi solo dopo alcuni minuti, quando Shelly, la madre di Sharon, apparve sulla scena, tranquillizzando la figlia con la sua sola presenza.

 

Da quel giorno, dal giorno in cui piansero insieme, Sharon e Reim divennero grandi e inseparabili amici.

 Trascorrevano il tempo giocando nel giardino della grande magione, rincorrendosi per ore ed ore.

 

“Piano bambini, non così forte!”

 

Shelly vigilava sempre su di loro, accertandosi che non si facessero del male.

 

“Oh, e lasciali divertire, Shelly!”

 

La nonna Cheryl invece, cercava di tranquillizzare la figlia affinché non si allarmasse troppo. E infatti, non c’era niente di cui preoccuparsi, perché né Sharon né Reim erano mai stati più felici sapendo di avere al loro fianco un fratellino e una sorellina con cui giocare.

I loro passatempi erano i più vari: a volte trascorrevano del tempo all’interno della villa, giocando con le bambole della piccola Rainsworth o divertendosi a imitare i versi degli animali, cosa che a Sharon piaceva moltissimo. Altre volte invece, correvano all’aperto, fermandosi ogni tanto a raccogliere dei fiori o a sdraiarsi sul prato con lo sguardo rivolto verso il cielo.

 

Nessuno dei due era mai stato più felice prima di quel momento…

 

Poi, due anni dopo, quando Reim aveva undici anni, qualcosa cambiò per sempre la vita di entrambi.

Un giorno, mentre fuori pioveva e l’unico posto dove si poteva stare era la villa, Sharon e Reim decisero di giocare a nascondino, approfittando del gran numero di posti dove potersi nascondere.

 

“Allora Reim, devi contare fino a cento, va bene?”

 

Reim annuì, preparandosi a contare.

 

“Allora uno, due, tre… Via!”

 

Il gioco cominciò e la piccola Rainsworth s’allontanò il più possibile da colui che doveva cercarla, badando a trovare un posto difficile dove nascondersi. Mentre correva alla ricerca di un luogo dove rifugiarsi, si guardava intorno pensando che ci fossero un’infinità di posti dove l’altro avrebbe potuto scovarla.

Improvvisamente, giunta di fronte a delle scale che portavano al piano sotterraneo, Sharon si mise a pensare, ricordandosi di ciò che sua madre aveva più volte aveva raccomandato sia a lei che a Reim.

 

“Mi raccomando, bambini. Quando giocate potete andare ovunque all’interno dei confini della villa, ma non nei sotterranei. Quella è una zona riservata ai membri di Pandora.”

 

La piccola Rainsworth contemplò i gradini che scendevano tuffandosi nel buio, tentata dall’esplorare quel luogo misterioso che le era stato vietato di visitare. Pensò che sarebbe rimasta lì sotto solo per pochi minuti, giusto il tempo che Reim la venisse a cercare. Si guardò intorno, assicurandosi che nessuno la vedesse violare quella raccomandazione. Lentamente e con un po’ di titubanza, cominciò a scendere i gradini sempre più scuri, giungendo al piano inferiore.

Toccato il pavimento con i piccoli piedini, Sharon chiuse gli occhi un po’ impaurita da quella zona sconosciuta. Dopo un po’ che se ne stava ferma in quella posizione, riaprì le iridi rosa, scoprendo che quel posto tanto temuto, non era in realtà altro che un normalissimo corridoio, identico agli altri della casa.

Sorrise, cominciando ad addentrarsi sempre di più in quel luogo ignoto.

 

Reim non mi troverà mai qui!”

 

Diceva fra sé e sé, camminando compiaciuta lungo quel pavimento che lentamente stava scoprendo.

Nel frattempo, Reim finiva di contare, stanco e annoiato dal pronunciare quei numeri che gli sembravano infiniti.

 

Novantotto… Novantanove e… CENTO!”

 

Si girò di scatto, guardando l’area intorno a sé.

Sospirò, pensando che non sarebbe stato affatto facile trovare la sua sorellina in un posto grande come quello. Cominciò ad esaminare la cucina, ficcando il naso ovunque, anche negli sportelli dei pensili. Deluso dal non averla trovata lì, s’apprestò a cercarla nell’ampio salotto e poi nelle stanze, arrivando a stancarsi di quel gioco che diventava sempre più lungo e meno divertente.

 

“D’accordo Sharon, hai vinto tu!”

 

Aveva cominciato a urlare, ormai esausto da tutto quel cercare. Ma la bambina non gli rispondeva.

 

“Sharon?”

 

Reim cominciò a pensare che quella fosse tutta una strategia, che la piccola Rainsworth non rispondesse perché troppo impegnata ad arrivare in silenzio alla tana.

 

“Avanti Sharon, non c’è bisogno che vai a fare tana, mi arrendo!”

 

Ma quelle parole non servirono a niente: sembrava davvero che Sharon fosse sparita nel nulla.

Nel frattempo, nei sotterranei della magione, la piccola Rainsworth si guardava intorno, notando qualcosa d’insolito.

 

“Che strano… Non ci sono mobili qui.”

 

Se non aveva un mobile dietro il quale nascondersi, era difficile che Reim, una volta giunto lì sotto, non riuscisse a trovarla: in un luogo ampio e spazioso come quello, chiunque l’avrebbe vista.

Continuava a camminare, cercando il posto che le sembrava più appartato possibile.

Mentre camminava, passò davanti a una grande arcata, notando distrattamente qualcosa di strano. Mentre passava di lì, le sembrò d’intravedere qualcosa al centro della stanza, come un oggetto o qualcosa che comunque interferiva con lo spazio solitamente vuoto di quelle mura fredde.

Indietreggiò, portando lo sguardo su ciò che prima aveva intravisto, ma che ora, vedeva chiaramente.

C’era del sangue per terra. Una pozza larga e ancora fresca di liquido rosso.

Le sue iridi rosa si sgranarono in un’espressione di terrore nel vedere quella scena: un uomo vestito di nero era steso a terra morente, con il volto semicoperto di sangue. Sharon liberò un urlo di spavento, portandosi le mani sulle guance.

 

“… AAAAAAAHHHHH!”

 

Rimase immobile non sapendo cosa fare, finché non riuscì a controllare la propria paura. Prima di tutto, si portò le mani alla bocca, trattenendosi da sola dall’urlare. Poi, quando ebbe recuperato più tranquillità, realizzò che stare ferma in quel punto sarebbe stata solo una perdita di tempo: quell’uomo stava morendo, e sarebbe sicuramente morto se lei non avesse avvertito qualcuno il più presto possibile.

 

A-aspetta qui!”

 

Urlò in lacrime, come per supplicare quell’uomo di rimanere in vita almeno fino al suo ritorno.

Si voltò dall’altra parte, correndo il più rapidamente possibile verso il piano superiore, dove Reim continuava a cercarla.

 

“Sharon?”

 

Il bambino la chiamava ormai da diversi minuti, cominciando a preoccuparsi. Dopo un po’, udì la voce della sua sorellina urlare forte il suo nome.

 

Reim! Reeeeim!”

 

Reim si guardò intorno, non capendo da dove arrivasse quel suono. Dal tono che la piccola aveva, sembrava che fosse accaduto qualcosa di grave.

 

“Sharon! Dove sei!?”

 

Dopo un po’, la giovane Ransworth si palesò ai suoi occhi con un’espressione piangente nel viso.

 

“Sharon!”

 

Reim le afferrò le spalle, cercando di capire cosa fosse accaduto.

 

P-presto Reim! Devi venire, seguimi!”

 

La bambina lo prese per mano, accompagnandolo giù nei sotterranei. Reim fu un po’ spaventato all’idea di scendere lì sotto, perché le raccomandazioni di Shelly erano state chiare e lui non voleva violarle. Ma in quel momento, Sharon stava piangendo e lo aveva supplicato di seguirla il più velocemente possibile.

Arrivarono nel lungo corridoio, correndo verso la stanza dove si trovava l’uomo morente.

 

“E’ qui, presto!”

 

Urlava impaurita la bambina.

 

“E’ steso sul pavimento coperto di sangue, Reim!”

 

Continuava accelerando la corsa.

 

“Per favore, aspetta Sharon-chan!”

 

Reim sentiva il suo cuore battere ad un ritmo impressionante. La paura e la foga della corsa gli pompavano con violenza il sangue al cervello, disorientandolo come mai prima d’allora.

Dopo tanta fatica, giunsero insieme davanti all’uomo che solo in quel momento sembrava riprendere i sensi. Li guardava dal basso con la pupilla tremante. Respirava a fatica e l’odore acre del sangue impregnava l’area circostante da cima a fondo.

Reim lo fissò, imprigionato nello sguardo di quell’unico occhio vermiglio. Era rimasto immobile, paralizzato alla visione di tanto liquido rosso. Sentiva qualcosa di strano, come un brivido che lo percorreva lungo le braccia e le gambe, arrivando a bollire sempre più forte nella sua testa.

Sudava. Sudava freddo, Reim. Ma quello che la sua mente percepiva non era terrore. Per la prima volta, di fronte alla visione di tanto sangue, ci fu qualcosa che prevalse sulle sue debolezze: non c’era un minuto da perdere, doveva fare qualcosa. Reim non aveva paura, perché aveva capito che non c’era tempo di averne.

Resosi conto di non poter soccorrere quell’uomo da solo, prese la sua decisione, facendo in modo che la piccola Sharon s’allontanasse il prima possibile da quella macabra visione.

 

“Presto Sharon! Resto io qui! Corri a chiamare aiuto!”

 

Ma la piccola non riusciva a distogliere lo sguardo dal volto di colui che ansimava morente. Teneva le mani chiuse in due pugni davanti alla bocca, fissandolo con occhi tremanti.

 

“Cosa aspetti, Sharon!”

 

La voce del suo fratellino la fece tornare alla realtà.

 

S-sì!”

 

La piccola Rainsworth corse via da quel luogo, andando a chiamare soccorsi.

Reim era in ginocchio accanto all’uomo disteso e cercava di fare il possibile per aiutarlo. Notò che la maggior parte del sangue gli usciva dall’orbita vuota dell’occhio sinistro che aveva perduto, calando lungo il viso pallido e tuffandosi sul pavimento piastrellato della sala.

 

“Poverino, chissà quanto gli brucia…

 

Per prima cosa, volle accertarsi che quella fosse la sua unica ferita e cominciò a smuovergli i vestiti con le mani, cercando nel suo corpo altri punti impregnati di sangue.

 

“Avete altre ferite?”

 

Domandò, sperando che l’altro fosse cosciente abbastanza da dargli una risposta. Ma le uniche cose che uscivano dalla sua bocca erano ansimi e gemiti repressi di dolore.

Reim non si perse d’animo e continuò a controllare che non avesse lesioni più serie. Il suo cuore batteva sempre più rapidamente, accrescendo l’ansia nel suo animo. Mentre tastava con le giovani mani il tessuto scuro di cui l’altro era vestito, non poté fare a meno di notare quanto quegli abiti fossero inusuali per la sua epoca. Lo stesso mantello plumbeo dal collo ampio che gli copriva le spalle, era qualcosa che Reim aveva visto solo in certi dipinti, risalenti a decenni prima della sua nascita.

 

Il… Passato…

 

Improvvisamente, il giovane udì delle parole giungere deboli e affaticate alle sue orecchie.

 

Come… ?”

 

Cercò di spronarlo a farsi capire meglio, invitandolo a ripetere. Ma più che voler formulare una frase di senso compiuto, sembrava che l’altro stesse delirando.

 

Der… La… De-vo…

 

Balbettava qualcosa, sforzandosi di far uscire le parole dalla sua bocca. Reim fissava il suo volto impressionato: non aveva mai visto una persona in quello stato.

 

Ci… Der… La-devo… Aa-aah…!”

 

Dopo quelle frammentarie parole, l’uomo emise un gemito più forte di dolore, strizzando sofferente l’unico occhio che gli rimaneva.

Lenire le sue sofferenze era ciò che in quel momento Reim avrebbe voluto fare più di ogni altra cosa. Tuttavia, per quanto desiderasse aiutarlo, non aveva idea di come comportarsi. Di fronte a quel sangue che sgorgava come un fiume dal suo viso, Reim non aveva l’esperienza necessaria per intervenire sulla sua ferita, e temeva che provando ugualmente a bloccarne il flusso rosso avrebbe peggiorato la situazione.

Sentendosi scoraggiato e impotente di fronte a quella situazione critica, ancora una volta, le parole di suo padre rimbombarono nella sua testa, invadendo di brividi il suo corpo già tremante.

 

“Ho un figlio incapace.”

 

Era così. Dopotutto, il conte non si sbagliava. Aveva un figlio incapace e codardo, che era sempre scappato di fronte alle situazioni difficili per paura di affrontarle. In fondo, era comprensibile se aveva deciso di liberarsene, affidandolo a qualcun altro, disposto ad occuparsi di tale fardello al posto suo.

Reim si portò le mani ai capelli, strizzando gli occhi disperato. Se l’era meritato. Se a un certo punto suo padre lo aveva ripudiato, era perché ciò che aveva sempre affermato sul suo conto era vero. E quella situazione che stava vivendo ne era la chiara dimostrazione.

 

Aa-aaah!”

 

Un altro gemito acuto di dolore lo raggiunse, e Reim si voltò, puntando lo sguardo triste su quello morente dell’uomo che aveva di fronte. Le sue iridi color terra vibravano concentrate sulla palpebra debole dell’altro. Improvvisamente, il giovane si era reso conto di una bruciante verità: se lui soffriva per qualcosa che lo attanagliava nell’animo, l’altro soffriva per la mortale ferita del suo corpo, allontanandosi sempre di più dalla vita. Dunque, che l’opinione che suo padre avesse di lui rispecchiasse o meno la verità, il discorso non cambiava: Reim non era l’unico a soffrire, e c’era qualcuno di fronte a lui in quel momento, che provava un dolore ancora più forte.

Strinse i pugni, raccogliendo tutta la forza che aveva in corpo.

 

“No, io… Non scapperò.”

 

Prese fra le sue giovani mani quella più adulta dell’altro, stringendola intensamente.

 

“Ascoltate, voi non morirete. Sharon manderà presto dei rinforzi, cercate di resistere fino al loro arrivo!”

 

Era vero. Reim non aveva abbastanza esperienza da soccorrere un uomo morente, ma era dotato di un animo buono e altruista. Se da un lato la sua persona peccava nelle cose pratiche, dall’altro lato il giovane poteva vantare uno spirito sensibile e a suo modo dotato di una forza pari a pochi.

 

“Coraggio, fatevi forza…

 

Coraggio e forza. Due parole uscite dalle stesse labbra di chi, prima di quel momento, era convinto di non riuscire neanche a menzionarle.

Il respiro affannoso di colui che agonizzante lo guardava dalla palpebra semichiusa cominciò a placarsi sempre di più. Reim sperò con tutto il suo cuore che quello sconosciuto sopravvivesse. Era insolita la sensazione che provava: era come se una parte del suo cuore fosse sospesa in bilico su un filo, come se la sopravvivenza di quell’uomo simboleggiasse per lui qualcosa di significativo.

 

Reim!”

 

Il giovane si girò, vedendo alcuni membri di Pandora raggiungerlo nella sala. Insieme a loro, anche Shelly Rainsworth era accorsa.

 

Shelly-sama…

 

Reim non ebbe il coraggio di guardarla, attanagliato dal senso di colpa per aver ignorato un suo avvertimento. La donna si avvicinò a lui, timorosa che potesse essere rimasto shockato da quella situazione.

 

Reim, guardami… Ti senti bene?”

 

Shelly gli mise una mano sulla guancia, portando il suo viso a guardarla negli occhi. La sua prima preoccupazione non era stata di sgridarlo per quanto accaduto: il suo primo pensiero era volto all’accertarsi che stesse bene.

 

S… S-sì.”

 

Immediatamente, le lacrime cominciarono a riempire gli occhi del giovane e a calargli successivamente lungo il viso. Non si era mai sentito così amato in tutta la sua vita.

 

“Meno male…

 

La donna lo avvolse in un abbraccio, mentre i suoi occhi color terra continuavano a buttare giù lacrime al contempo colme di dolore e felicità.

Nel frattempo, gli uomini in divisa che erano giunti nella sala avevano sollevato da terra il moribondo, che aveva perso nuovamente conoscenza.

Reim li guardò portarlo via con una certa urgenza, e subito si preoccupò per la sua sorte.

 

Shelly-sama… Lui starà bene, non è vero?”

 

La donna portò anche lei lo sguardo verso coloro che si dirigevano al piano superiore. I suoi occhi erano avvolti da un’inquietante ombra d’indecifrabile natura.

 

“Spero di sì.”

 

Quella risposta così secca e neutrale scatenò un brivido di timore nel cuore di Reim, che alzò lo sguardo verso colei che ancora lo teneva avvolto fra le sue braccia, volgendo altrove gli occhi malinconici.

 

***

 

Nei giorni che seguirono l’accaduto, nessun gioco era riuscito a distrarre dalla preoccupazione Sharon e Reim. Ogni tanto, Cheryl aveva provato a coinvolgerli in qualche attività che potesse distrarli dal pensiero dell’uomo che non aveva ancora ripreso conoscenza, ma non c’era stato niente da fare. Mentre la duchessa cercava di parlare d’altro, nel bel mezzo del discorso o Sharon o Reim domandavano sempre la stessa cosa.

 

“Si sveglierà?”

 

Cheryl non sapeva quanto fosse giusto dare ai bambini una risposta di cui non era certa, ma sentiva in fondo al suo cuore qualcosa che le diceva che sarebbe andato tutto bene.

 

“Sì, bambini. Sono sicura che si sveglierà presto.”

 

E fortunatamente, la donna non si sbagliava. Pochi giorni dopo, infatti, Shelly entrò sorridente nella camera di sua figlia per rivelare la buona notizia a lei e al suo fratellino.

 

Bambini… Si è svegliato.”

 

Inizialmente, Sharon e Reim non si resero subito conto di quelle parole. Poi, quando entrambi realizzarono che non si trattava di un sogno, ma della palpabile realtà, subito balzarono in piedi prendendosi le mani a vicenda.

 

“Che bello! Che bello! E’ vivo, è vivo!”

 

Urlava di felicità la piccola Rainsworth, incitando l’altro a saltare come lei aveva cominciato a fare.

 

“Quando possiamo vederlo?”

 

Domando la piccolina.

Shelly sorrise nel vedere sua figlia così felice dopo tanti giorni di cupa tristezza.

 

“Anche adesso.”

 

Affermò la donna.

Felici come mai dopo tanti giorni, Sharon e Reim si fecero condurre nella stanza dove per più di una settimana aveva riposato l’uomo che avevano trovato.

Entrambi colmi di ansia nel cuore, giunsero davanti alla porta aperta della camera, osservandolo già da fuori. Era sdraiato sul letto con la schiena poggiata alla testata e guardava fuori dalla finestra che si trovava alla sua destra. Dalla loro prospettiva, i bambini potevano vedere bene la benda che gli avvolgeva parte del viso, coprendo la buia cavità oculare della sua palpebra vuota.

Sharon entrò lentamente nella stanza, seguita da un Reim che si sentiva stranamente agitato.

La piccola si avvicinò al letto e salì in ginocchio sulla sedia che si trovava accanto a questo. Poggiò le mani sul materasso e guardò sorridente il viso serio di quell’altro. Reim cominciò a preoccuparsi per qualcosa di cui ancora non capiva l’origine: un forte senso di disagio lo aveva colpito, mentre si limitava a rimanere in piedi dietro alla sua sorellina che, nel frattempo, come ogni bambina ingenua e curiosa, cominciò a porre le sue domande.

 

“Ciao! Io sono Sharon e lui è il mio fratellino, Reim!”

 

Gli occhi della bimba erano colmi di gioia e felicità: erano giorni che desiderava parlare con lui.

 

“Tu come ti chiami?”

 

Domandò, ansiosa di sapere il suo nome.

Ma l’altro sembrava non ascoltarla nemmeno: il suo occhio rosso guardava il paesaggio al di là della finestra, colmo di una profonda malinconia.

Vedendo che l’uomo non le rispondeva, Sharon non si perse d’animo e provò a chiedergli altre cose.

 

“Da dove vieni?”

 

Ancora silenzio.

Reim avvertì una brutta sensazione, come se venire lì così presto non fosse stata una buona idea.

 

“Quanti anni hai?”

 

Al contrario, la bambina sembrava non volersi arrendere. Quell’espressione curiosa non smetteva di marcarle il volto.

 

“Ti piacciono le bambol-

 

“Sharon.”

 

Dopo quell’ultima domanda, la piccola venne prontamente interrotta da Reim che, valutata accuratamente la situazione, constatò che fosse il caso di tornare un altro giorno.

Sharon si girò verso il suo fratellino con sguardo interrogativo. Il giovane cercò di spiegarle il motivo per cui l’aveva interrotta.

 

“Non è il caso di fare tutte queste domande… Insomma, si è svegliato da poco, non credo che abbia voglia di mettersi a raccontare tutta la sua vita.”

 

La bambina lo guardò, stupita dalle sue parole.

Reim le tese una mano, per aiutarla a scendere dalla sedia.

 

“Avanti, torniamo un altro giorno.”

 

Ma Sharon non sembrava volersene andare. Aveva aspettato fin troppo quel momento, e ora che era arrivato non aveva intenzione di rinunciarci. Si voltò di nuovo verso lo sconosciuto, volendo accertarsi che ciò che il suo fratellino aveva detto non fosse vero.

 

“Fratellone, è vero che non vuoi parlare con me?”

 

Reim sgranò gli occhi di fronte all’insistenza della sua sorellina, che non si era mai comportata così prima d’allora.

 

“Basta Sharon, non essere insistente.”

 

Ma quando i suoi occhi color terra puntarono quelli rosei di Sharon, il giovane notò qualcosa.

Adesso, l’uomo che fino a un attimo prima volgeva lo sguardo da tutt’altra parte, aveva incontrato i suoi occhi, fissandolo con la sua iride rosso sangue.

Nel vedere l’espressione basita di Reim, anche Sharon tornò a guardare l’uomo alle sue spalle, lasciandosi imprigionare dalla vista di quello stesso occhio.

Ci fu un attimo di silenzio, in cui l’atmosfera si fece gelida e ansiogena. Poi, pian piano, le labbra dello sconosciuto si dischiusero, pronunciando un’unica, semplice frase.

 

“Odio i bambini.”

 

Reim si sentì raggelare dalla testa ai piedi. Quelle poche parole messe insieme avevano attraversato il suo cuore, rompendolo in due parti e sbriciolando quel poco orgoglio che era riuscito ad ottenere una volta saputo che l’uomo che aveva moralmente assistito era vivo.

Deglutì, sentendo il suo cuore pulsare ad un ritmo esagerato. Nel frattempo, l’altro tornò a guardare fuori dalla finestra, privandolo della sua attenzione. Inspirò una grande quantità d’aria, liberando un attimo dopo il pesante sospiro di chi si sente infastidito dalla presenza di qualcuno.

Reim aveva lo sguardo puntato verso il basso. Le sue pupille vibravano incredule e colme di una tristezza di cui neanche lui capiva pienamente il perché. Al contrario, Sharon non aveva mai spostato la sua attenzione dallo sconosciuto: nel suo spirito ingenuo, era convinta che nessuno al mondo potesse essere veramente capace di odiare un bambino. Era così certa di quel suo pensiero, che non credé mai in quelle parole, e lo dimostrò nei giorni successivi.

Sì, perché nelle mattine che seguirono, Sharon tornò a fargli visita tutti i giorni. Ogni volta, portava con sé un piccolo vassoio con del thè caldo e un po’ di biscottini.

 

“Buon giorno, fratellone!”

 

Esclamava sorridente, senza mai ricevere risposta.

 

“Ti ho portato la colazione anche oggi!”

 

Appoggiava il vassoio sul suo comodino, poi si sedeva accanto a lui, cominciando ogni volta un monologo diverso.

 

“Stanotte ho fatto un sogno bellissimo, c’eri anche tu!”

 

Raccontò una volta, portandosi l’indice alle labbra con un’espressione confusa.

 

Però… Non mi ricordo cosa facevi.”

 

E poi, successe qualcosa di inaspettato. L’uomo si girò verso di lei, guardando prima i suoi occhi, poi il vassoio che le aveva portato. Sharon si sentiva in bilico su un filo. Le sue iridi rosee puntavano il viso di colui che aveva di fronte, nella trepidante attesa di una qualsiasi parola.

 

Grazie…

 

Quell’affermazione così breve, eppure così piena di significato le cambiò la giornata. I suoi occhi divennero lucidi dall’emozione e le sue manine strinsero forte le lenzuola del letto.

 

P-prego!”

 

Non volle aggiungere altro, per non rovinare la bellezza di quel momento tanto agognato. Si limitò soltanto a guardarlo, mentre beveva con calma il thè che gli aveva portato.

Fu solo dopo un po’ di tempo che, sorridendo felice, la bambina disse qualcos’altro.

 

“Sembra che ti piaccia! Domani te ne porto dell’altro, ora devo andare!”

 

Fece un balzo, saltando giù dalla sedia, e uscì dalla stanza.

L’uomo la seguì con lo sguardo, rimanendo serio e silenzioso.

 

Il tempo trascorse, e nel corso di quelle giornate Reim non aveva mai fatto visita al nuovo arrivato. Dopo le parole che aveva pronunciato l’ultima volta che si erano visti, non aveva più avuto il coraggio di avvicinarsi a lui. Ancora una volta, si era sentito rifiutato da qualcuno.

Tuttavia, un giorno, mentre era sdraiato sul prato insieme a Sharon, Shelly venne incontro a loro, salutandoli sorridente.

 

“Mamma!”

 

La piccola Sharon si era subito alzata in piedi con l’intento di abbracciare la madre. Tuttavia, qualcosa bloccò le sue intenzioni. Shelly non era sola. Accanto a lei c’era lui, l’uomo caduto dal cielo.

La piccola sorrise felice, mentre Reim aveva alzato lo sguardo verso i nuovi arrivati, spostando successivamente gli occhi da un’altra parte, intimidito dalla presenza di colui che non vedeva da settimane.

 

“Passeggiavamo in giardino, e abbiamo pensato di farvi un saluto.”

 

Disse la donna.

 

“Non è così, Xerxes?”

 

Proseguì poi, voltandosi verso l’uomo che aveva accanto.

Lui si limitò ad annuire, evitando d’incrociare il suo sguardo.

Nel frattempo, Sharon si portò le mani alle guance, guardandolo colma di gioia.

 

Xerxes? E’ questo il tuo nome?”

 

Domandò, ricevendo in risposta solo un cenno di capo, che confermava la veridicità di quell’affermazione.

Sharon sorrise felice, cercando di coinvolgere anche Reim, che aveva guardato la scena seduto sull’erba.

 

“Hai sentito, Reim? Adesso sappiamo il suo nome! Non è più queltipostranocheodiaibambini come lo chiami tu!”

 

Dopo quelle parole, Reim sentì i suoi arti paralizzati e divenne subito paonazzo, mentre Xerxes lo guardava con aria interdetta.

Pian piano, da quel momento, le cose iniziarono lentamente cambiare. Giorno dopo giorno, Sharon e Reim cercavano di coinvolgere Xerxes nei loro giochi, rendendolo parte di quello che ormai non era più un duo, ma un trio di fratelli che si volevano bene e che sarebbero cresciuti insieme.

  
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