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Autore: Invader_from_Hell    01/03/2004    1 recensioni
Questo è il primo racconto di una serie di racconti che di qui a dun mese chiuderanno definitivamente il mio primo periodo narrativo. Un'esperienza finirà rivelando contorni più definiti sui quali tesserò un'altra serie. Qui si parla dell'inizio della fase finale di qualcosa, di un viaggio che porterà un ragazzo e la sua anima a trovare pace al cospetto dell'amore. Leggere e commentare =)
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima del Viaggio

Prima del Viaggio

 

Primo racconto della battuta finale della prima serie di racconti. Ve ne ho fatte legere di tutti i colori, ma fondamentalmente ho toccato solo un argomento e ho presentato il mio disagio nei suoi lati più perversi. Un filo conduttore ha fino ad ora tenuto insieme racconti diversi come “Farewell” e “Ho sognato di distruggerti”. Un nesso logico c’è sempre stato e immagino che l’avrete individuato nell’amore. Dichiaro di non poterlo confermare. Tuttavia chi prende in mano le redini della propria vita deve fare lo stesso con quelle della sua arte. Ecco quindi che mi appresto a concludere questo periodo creativo, all’insegna del dubbio e dell’illusione, il quale ha risentito di molte novità. Spero che vi siate goduti questi miei 4-5 mesi di vita umana e artistica quanto me li sono goduti io. Non ho la pretesa di avervi fornito capolavori, ma mi sembra opportuno credere di avervi mostrato tante fotografie della mia anima, nel dolore, nela gioia, nell’amore.

Grazie a chi mi ha seguito con entusiasmo, e grazie in particolare ad una poetessa, alla quale dedico tutto quello che scriverò da ora in poi. Se questa serie è stata l’atterraggio del mio aereo ad una consapevolezza, nella prossima prenderò il mio bagaglio e comincerò a visitare la città.

Grazie mille amici.

 

 

“ Prima del viaggio sono sollevato e scaraventato al suolo dalla più sublime delle attese…

… Illuso e prudente ti guardo distante..”

 

-Invader-

 

Spesso mi ero chiesto come sarebbe stata l’ultima frontiera, che aspetto avesse avuto. Ma soprattutto mi ero interrogato riguardo allo stato d’animo con il quale mi sarei presentato al suo cospetto. Adesso che avrei dovuto saperlo, o comunque intravedere la risposta tra l’orizzonte e l’immensa pianura che mi si apriva sotto gli occhi, non ero più così sicuro che il passaggio dell’ultima dogana sarebe stato cosciente e nettamente distinto da tutti gli altri valichi che avevo affrontato in precedenza. Sarebbe stato come passare attraverso un cerchio azzurro sott’acqua, ne avrei percepito la presenza, ma si sarebbe confuso col riflesso azzurro sole dell’acqua, e solo nel caso lo avessi urtato mi sarei reso pienamente conto della sua presenza e del suo ruolo.

Infondo, l’unico dato di rilevante importanza era l’ora di partenza dell’ultimo viaggio, scritta a caratteri rossi e leggermente squadrati sull’agenda dell’anima.

Mi fermai sulla porta del salotto. L’arredamento di quella stanza mi era sempre piaciuto: tra i tanti mobili e i divani, spiccava un divano ad angolo di pelle bianca, molto ampio e comodo. Ricordai di possedere una foto risalente a qualche anno prima, nella quale siedevo con aria vagamente aristocratica, vestito di rosso. Mi tornò in mente il modo in cui mi colpì quella fotografia, quella maledizione rossa seduta su quel cumulo di neve comoda metteva quasi a disagio lo spettatore. Sembrava sangue che gentilmente sgorgando da ferite trascurate si faceva strada nel manto nevoso di un giardino. Provai invidia nei confronti del ragazzo che sedeva con quell’espressione beata e rilassata, quel sorriso privo di qualsiasi soddisfazione comunicava anche ad un occhio poco attento un’enorme senso di riposo e serenità, ma la sua posizione leggermente distesa tradiva l’ombra che andava insinuandosi, la novità che lo stava per sventrare senza incontrare la minima resistenza. Mi sfiorò l’idea di sedermi nuovamente, per sostituire a quel sereno demonio rosso un agitatissimo poeta nero; tuttavia decisi di desistere.

La porta finestra era leggermente aperta, quanto bastava per far entrare un tardo pomeriggio di marzo nelle stanze contigue. Avevo le mani gelide, strinsi i pugni per godere appieno di quel riflesso congelato ma estremamente vivo.

In un momento come quello, poteva sopraggiungere solo la tua immagine, ancora confusa.

Solo lei sarebbe stata capace di cogliermi sul punto di partire, perché era solo lei che stavo cercando di raggiungere, testare, verificare ed infine debellare con tutte le mie forze. Ma non sarebbe stata guerra, si sarebbe trattato di legittima difesa nei cofnronti della bellezza che mi avrebbe aggredito carica di superbia. Non sarebbe stata sola, con lei sis arebbero alleati il peso della quotidianità, l’altrui bellezza e l’abitudine a non essere soddisfatti, solo sicuri, in pace e capaci di concentrarsi.

Sorrisi con una serenità che mi sorprese. La sorpresa scomparve non appena mi resi conto che quello era senza alcun dubbio il sorriso del condannato a morte al quale viene concessa l’ultima sigaretta prima dell’esecuzione. Ne inspira anche il filtro poiché è sicuro che dopo quella non ne verranno di nuove e più gustose, né di più nocive e cancerogene. Potrà così concedersi l’ebbrezza del  male, del filtro di tutta la sporcizia, nutrendo la vana speranza che ne escano vapori al cianuro. Morirà col sorriso di chi ha stretto la mano al diavolo e gli ha fatto i più sentiti complimenti per il suo operato. Ti avrei esalato un’ultima volta, prima di deragliare.

Il giardino non mi soddisfaceva, bello, plastico, ma non abbastanza ampio ed aperto da farmi scorgere un cielo come si deve.

Non appena il mio naso fu fuori dalla porta fui letteralmente invaso dall’odore inconfodibile del mio quartiere, un angolo di paradiso nella giudecca. Intravedevo le malebolge ovunque guardassi. Come stelle incendiate respiravano affannate, lanciando grida disperate di eterna sofferenza. La gioia di chi ha vissuto una vita degna di questo nome.

 

“… Ho notato che non usi più un interlocutore generico quando parli d’amore…”

- Gal -

 

Quando si diventa capaci di stare ore a fissare la propria anima senza emettere suono alcuno e senza rivolgerle la parola, si diventa capaci di mentirle, poiché le si toglie la memoria della nostra voce e dei nostri occhi che un tempo erano smepre sinceri. È come rubare la carta geografica ad un esploratore: potrebbe essere capace di tracciarla nuovamente, ma ne ha la voglia?

Io e la mia anima eravamo forse nel nostro periodo più silenzioso e privo di confronto quando si veniva a presentare il grande destabilizzatore.

Io non avevo la minima voglia di lasciarlo entrare impunemente, ero intenzionato a fargli pagare molto caro il suo ardire, avrebbe dovuto meritarsi la mia obbedienza. Di fatto, gli ero già fedele.

La mia anima si ostinava al silenzio, fermamente decisa a non aiutarmi, strenuamente indifferente alla mia sorte che non avrebbe condizionato più la sua.

 

Camminavo con la vista annebbiata in un prato troppo rigoglioso e dai fiori troppo belli, con un tramonto troppo insanguinato, quasi capace di suscitare l’invidia dell’alba, la quale notoriamente si ritiene di gran lunga superiore a tutti i momenti della giornata senza averli mai visti.

Accanto a me una poetessa e la mia anima che mi teneva per mano. Pioggia gemmea e preziosa imperlava tutto. Una visione di atroce malvagità, nella quale gli uccellini dall’alto della loro bellezza cinguettavano il Trillo del Diavolo, l’unica testimonianza del connubio tra uomo e demonio. D’improvviso l’anima mi strattonava e mi indicava due figure che si facevano vicine. La vista annebbiata non me ne lasciava intravedere il volto.

“ Li vedi?!” mi urlava l’anima indemoniata, liberandosi di me e fluttuando verso uno di loro.

Si librava nell’aria e restava in piedi davanti a lui. L’altro spariva ucciso forse da un aulico verso della poetessa.

“ Hai visto cosa hai combinato?” mi gridava poi la mia proiezione mentre osservava atterrita il volto del sopravvissuto.

“ No, non lo vedo.. cosa posso fare?” rispondevo ingozzandomi di lacrime. Mi accasciavo al suolo col preciso intento di farmi compatire.

Veniva vicina. Portava il ragazzo con sé. Ricordo i suoi artigli e i suoi occhi che inniettavano sangue nella più candida delle anime mentre mi sventolava sotto il naso quel volto annebbiato. Non lo vedevo.

“ NON VUOI GUARDARLO PERCHé HAI PAURA DI VEDERLO!” tuonava poi tagliandomi di netto la carotide. Prima di svegliarmi, ricordavo che il sangue aveva reso visibile quel volto. Ancora però non riusicvo ad attribuirlo.

Per molto attribuii quella tempesta ad una persona che ancora non avevo mai incontrato in vita mia e che sarebbe venuta da me in tempi piuttosto brevi.

Altri avvenimenti mi fecero comprendere che il volto del sogno poteva appartenere solo a persone da me conosciute, forse troppo e forse troppo poco.

 

Non avevo voglia di dormire, ma pensai di salire in camera mia.

Il bagaglio era pronto nella valigia e nel cuore. Non mi sarebbe servito molto. Avrei solo dovuto riappacificarmi con la mi anima e riprendere una serio dialogo con quell’amica offesa. Ma per questo ci sarebbe stato tutto il tempo di questo mondo.

Uscii in terrazza. Due nuvole si combattevano per assicurarsi la supremazia del tramonto, mentre il cielo riluceva di rosso, il vento mi scompigliava l’ultimo ciuffo ribelle, e mi godevo pienamente tutta la mia bellezza in quella fatidica vigilia.

 

 

 

 

 

  
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