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Autore: Natalja_Aljona    05/09/2011    2 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Centouno

Nataljetshka - Tutto l'amore che io posso è proprio niente



Parte Prima


-Tu non lo trovi affascinante, Lys?-

Natal'ja smise di tamburellare con le dita sul parapetto della Magna Graecia, voltandosi verso la piccola spartana.

-Chi?-

Dimokratìa alzò gli occhi al cielo, sospirando.

-Sir John!-

La sua tarda interlocutrice sbarrò gli occhi, un poco confusa.

-Ma non è mica Sir! E' soltanto Capitano...-

-E noi non siamo degne di baciargli la polvere delle scarpe, comunque. Ma conoscendoci potremmo pure sputarci, sulle sue belle scarpette. Ad ogni modo è beeellissimo!-

La sua amica russa scrollò le spalle, con un mezzo sorriso.

-E' il padre di George, d'altronde-

-Oh, figuriamoci! Lui è molto più bello di George. E poi guarda che occhi azzurri...-

-Georgie sembrerebbe strabico, con gli occhi azzurri-

Tìa scosse la testa, ridacchiando.

-Georgino ha gli stessi geni di Leonida. Eppure anche Sthàsja ha gli occhi azzurri!-

-Come Cynthia-

-E tu come lo sai?- Dimokratìa pareva sorpresa -E' ad Atene, Cyn-

-Ho visto un suo ritratto, una miniatura. George la tiene tra le pagine dell'Iliade, nel Libro XI, I condottieri feriti-

-Già. E' lui, il condottiere ferito, con Cyn. Le vuole bene, Gee, ma è così difficile, con lei... A me piaceva, Cyn! Assomigliava un po' ad Akhylleus, il mio fratellino. Era gentile...ma la gentilezza serve a poco, a Sparta-

Natal'ja annuì con estrema compostezza.

-Penso di sì-

Dimokratìa notò una scintilla di malinconia oscillare negli occhi della ragazzina russa, ed aggrottò le sopracciglia, pensierosa.

-Che cosa c'è, Lys? Sei sbiancata, e per una della tua carnagione è micidiale-

-Cyn e Gee...Cynthia e George, Geórgos, insomma...-

-I soggetti sono chiari, Lys- sorrise Tìa, a cui i giri di parole non erano mai piaciuti.

-Immagino di sì. Beh, loro...assomigliano tanto a Nataljetshka e Nikolen'ka. Così tanto...-

-Nataljetshka e Nikolen'ka...sono i tuoi scoiattoli, giusto?-

Natal'ja le lanciò uno sguardo un pochino obliquo, trattenendo a stento una risata.

-Cosa ti fa pensare che io abbia degli scoiattoli, Tìa?-

-Non so, i nomi...-

-Sono vezzeggiativi. Alcuni sono un tantino discutibili, certo...ma in Russia si usa così. Io ero Nataljetshka, da piccolissima, e mio cugino Niko -Niko non è un vezzeggiativo russo, e ai tradizionalisti farebbe accapponare la pelle, ma io lo chiamavo così, da piccola, e anche la nonna a Varsavia-, all'anagrafe Nikolaj Vasil'evič Zirovskij, varsaviano fin nelle piante dei piedi e di conseguenza polacco in ogni decimo di sangue -te lo dico perché George credeva che la Polonia fosse una pianta, un rampicante, per la precisione-, da piccolo era detto Nikoluška, ma poiché quando sono nata io doveva fare dodici anni, ed era già grandicello, l'ho sempre sentito chiamare Nikolen'ka. Quindi siamo...eravamo, dovrei dire...-

La ragazza si morse un labbro, sforzandosi di tenere lo sguardo fisso sul quieto movimento dell'Egeo.

-Nataljetshka e Nikolen'ka. A dodici anni ancora da compiere lui è entrato nell'esercito, ed io...io ero a casa con i nonni, la mamma era a lavorare e papà in Inghilterra...sai, allora il nonno stava già male, vedeva i Francesi dappertutto, Napoleone, Kutuzov, il maresciallo Soult, Barclaj, Mack e Weyrother, gli alleati austriaci, e a volte faceva piangere maman. A me diceva "Nataljetshka, dai fuoco al Cremlino!", ed io credevo che scherzasse, e ridevo, ridevo, pensavo che scherzasse e non capivo, non capivo perché la nonna mi guardasse con quella tristezza negli occhi e la mamma piangesse. Lo zio Vasilij, il padre di Kolja...-

Dimokratìa fece un passo indietro, spalancando gli occhioni grigioverdi.

-Kolja?-

-Nikolaj, è sempre lui, è un altro...-

-Verzeggiativo?-

Natal'ja sorrise.

-Vezzeggiativo, veramente-

La piccola Dounas annuì, seriamente impressionata.

-Che popolo assurdo, i Russi! Ma continua, continua!-

-Beh, lo zio Vasilij se n'era andato a ventisette anni, poco dopo la mia nascita, impiccato a Pietroburgo con gli altri Decabristi. Zio Petja -Pëtr Iljodorevič Zirovskij- era morto in guerra che aveva giusto sedici anni. Di lui sapevo solo ch'era biondo ed incosciente, ma con un carattere allegro e un modo di fare un poco strafottente, mi sarebbe piaciuto. "Bello come il sole", lo ricorda Anželi -Anželika Andreevna Valadìna, la nonna-. Di Katjuša -Ekaterina Pavlovna Weisz, la zia-, non parlava mai nessuno. Nikolen'ka, quindi, i genitori non li aveva più, e a volte mi diceva che gli ero rimasta solo io, e sorrideva sempre, nel vedermi, e mi diceva: "Nataljetshka, Nataljetshka, vieni dal tuo cuginetto!", e ridevamo sempre tanto, insieme, lui mi prendeva in braccio, mi tanti bacetti sul naso e diceva che ero la sua piccola Nataljetshka, e che il primo che s'azzardava a tirarmi la treccia, ad alzarmi la gonna, a farmi una pernacchia o ad attribuirmi un commento poco carino, planava ad Ulàn Bàtor, la capitale della Mongolia, con qualche dentino in meno, perché coi loro denti Niko ci avrebbe giocato la tombola natalizia, e avrebbero messo i denti del giudizio, in questo modo-

-Georgie quelli che mancavano di rispetto a Cynthietshka li lasciava in mutande- ricordò malinconicamente Tìa, sorridendo.

-Sembra simpatico, il tuo Niko! Quando arriviamo in Russia me lo presenti?-

Natal'ja ci provò, a rispondere, ci provò.

-Lui è...-

Il mare, Natal'ja.

Ti prego, Nataljetshka, guarda il mare.

Quant'è azzurro, il mare...e brilla, brilla come una stellina d'argento, come quella che c'era dipinta sul soffitto della tua cameretta...una sola, ce n'era, e quella stella era Nikolaj.

Quant'è bello, il mare...ma fa lacrimare gli occhi.

-Avete litigato? Non ti vuole più bene, forse? Posso convincerlo a perdonarti, se vuoi. Sei una ragazza carina, tu...mi dispiace se sei triste. Gee ti vuoi così tanto bene...e sei mia amica, poi!-

Tìa aveva posato una mano sulla spalla di Natal'ja e sorrideva, incoraggiante.

-Mi sorridi, Nataljuška...ops...Nataljetshka?-

Natal'ja le strinse forte la mano, sembrava davvero tornata bambina, la bambina che in fondo era ancora.

Sorrise, piano piano, con un po' di sforzo e il sale del mare negli occhi, il sole chiaro e leggero sui capelli e una manciata d'allegria prestatale dalla sua piccola amica greca.

E trovò la forza di parlare, chissà dove, chissà da quale scala del sole o sospiro di pioggia, chissà come, ma la trovò.

-Non mi perdonerà, Nikolen'ka, ed io non perdonerò lui, mai, mai, mai. E' morto due anni fa, Nikolaj.

C'era una ragazza, Baykla, di cui era innamorato perso. Dopo Fanny Elssler, la ballerina austriaca, un amore che più platonico di così c'era solo quello di Platone stesso, era il suo grande amore.

La voleva sposare, lui, e l'avrebbe fatto, ma poi ha sposato il marmo bianco e il cemento grigio, la lapide chiara con le scritte in latino ed un pugnetto di crisantemi un po' sfioriti, con il gambo spezzato...ucciso da un fantasma, ucciso da chissà chi, su una strada di Liverpool, e negli occhi aveva Varsavia, solo Varsavia, sempre Varsavia...-

Dimokratìa tratteneva il respiro.

C'erano tante cose da dire, cose che avrebbe voluto dire, e sarebbe stato così bello, in quel momento, dire proprio la cosa giusta!

Pensò a George, e a George, in quel momento, forse, sarebbe bastato un bacio.

Ma George, d'altronde, era il suo fidanzato.

Lei non poteva certo mettersi a baciarla!

Eppure le dispiaceva, le dispiaceva davvero.

Le stava simpatica, Natal'ja.

Con le fidanzate di George -e bisognava dire che, nonostante tutto, imbranato, filosofeggiante, impulsivo e "omerico" com'era, non erano state poi molte- aveva sempre avuto un campo d'azione terribilmente limitato.

George, si sapeva, anche -e soprattutto- quando aveva a che fare con argomenti su cui era meno esperto, tirava su le Porte Scee del suo orgoglio e faceva puntualmente di testa sua.

Di Natal'ja, non aveva capito bene come né perché, le aveva permesso di essere amica.

Non era una che si scomponeva tanto all'udire un colpo di pistola, Natal'ja, perché, come lei, in mezzo ai colpi di pistola c'era nata e cresciuta.

Forse, chissà, la banda di Feri Desztor, i forradalmi di cui Natal'ja e George le avevano accennato, erano un po' come i briganti del Taigeto.

-Chi l'ha ucciso?-

La vide sussultare, Tìa.

Ricordò le parole di George, il rancore che aveva visto brillare negli occhi del suo amico nei primi giorni dopo la sua evasione.


Non sono stato io ad uccidere il ragazzo russo, che poi era polacco.

Non sono stato io ad uccidere il ragazzo biondo che maltrattava sua cugina, anche se a volte avrei voluto inchiodarlo al muro e sparargli tutti i colpi che mi rimanevano, per come la trattava.

Avrei fatto l'errore più grande della mia vita, uccidendolo, e io di errori ne ho fatti tanti.

E poi io sono greco, ho tanti di quei precedenti penali che non mi farebbero neanche passare il confine e loro sanno che potrei passarlo lo stesso, volendo, e per questo mi tengono in catene.

Non sono mai stati i pregiudizi di questi infami, le botte e la galera a vita, pure la forca, a farmi male, a farmi paura.

E' trovarsi ogni giorno faccia a faccia con la propria innocenza e sapere che, nonostante ciò che giurano i vigliacchi che hanno in mano il mondo, non l'ho ucciso io!


Era...era lui?

Capì di aver detto tutto, tutto, tutto, Tìa, meno che la cosa giusta.

-Non lo so, chi l'ha ucciso. Non ne aveva, di nemici, in Inghilterra. Non lo so e non me lo chiedo, fa un male che distrugge, questo pensiero.


Eppure ci pensi sempre.

No, non te lo chiedi, forse.

Ma ci pensi, ci pensi fino a star male il doppio, ci pensi fino a schiacciarti il cuore sotto le suole bucate delle scarpe, ci pensi anche inconsciamente.

Me l'aveva detto, George, che a volte nemmeno coi baci, coi sogni, con gli abbracci tanto forti da sfiorare la morte, nemmeno tirando giù gli angeli, strappando le stelle, spaccando la notte e girando un po' il sole, nemmeno a far finta di affogare o a soffocarsi col cuscino, riuscivi a smettere di morirci, di star male e di soffrire, pensando a chi l'aveva ucciso.


Tentò di cambiare argomento, Tìa.

Forse era meglio così.

-Ehi, Lys...mi parli dei forradalmi? Sembrano dei ragazzi simpatici, sai...turbolenti, ma simpatici...un po' come quelli di qui!-

Ma la nave era partita, ormai, "qui" era un punto lontano nella costa che si vedeva appena e si stagliava contro il cielo tanto azzurro da far male, tra le braccia dell'Egeo.

Era lontana, la sua Grecia, "qui" non esisteva più.

Fortunatamente si rallegrò, Nataljetshka, a parlare dei buffi, forse un po' violenti, ma in fondo tanto buoni ragazzi di Forradalom.

-Beh...c'è Feri, innanzitutto. Feri lo riconosci senza presentazioni, ce n'è uno solo, come lui. Spacca tutto, il terzogenito dei Desztor. Spacca tutto, e se non stai attenta spacca anche te. Non è cattivo, lui, ma se solo lo dimostrasse! No, io lo so, lo conosco. E' terribile, un drago, un mostro, una carogna, un dannato bastardo -e mi si perdoni il linguaggio- anche se, a pensarci bene, tutti noi forradalmi lo siamo, e in questo suo fratello Csák e Kirill Dolokov lo battono, forse, e ancora di più gli Shtormiani, prima o poi ti parlerò anche di loro.

E' capace di passare sul tuo cadavere e di fregarsene fino all'ultimo. E' un mito, però. Te lo giuro, è straordinario. La Rivoluzione...oh, Feri vive per lei. Avresti dovuto vederlo quattro anni fa davanti al Palazzo d'Inverno, come ha sfidato lo zar, come ha sfidato tutti. E poi per punizione m'ha costretto a tuffarmi nell'Enisej, ch'è il fiume ghiacciato che passa sotto casa, qualche mese fa, e l'ho mandato al diavolo per ogni giorno che mi son scontata la polmonite. E' pure venuto a salutarmi e -parrebbe- a scusarsi, lo sfacciato, lanciandomi un sasso alla finestra, ma deve avermi lanciato le fondamenta del Cremlino, che m'ha buttato giù il vetro e per poco non ci lasciavo la pelle due volte, giuro. Poi io l'adoro, Feri. Sai, mi manca tanto, mi manca anche adesso. A volte l'ammazzerei, e la cosa è meravigliosamente reciproca, ma è il migliore, mio fratello, il mio più grande amico, il terrore della via Rákos.

Poi c'è Jànos, ed è così maledettamente carino, lui, che par quasi un angioletto delle steppe. E magari lo fosse! Quel ragazzino, che pure m'arriva alla fronte, è qualcosa di scandaloso, è una volpe, una dannata volpe, tanto beffardo che ci sarebbe da prenderlo a schiaffi, a volte, ma un amico più sincero di lui, con un tale senso della lealtà e un simile spirito di sacrificio, il rispetto dei legami di sangue e di aria respirata insieme, di nodi del cuore e di promesse intrecciate alla luna, in questo mondo non esiste. E' fantastico, Szöcske, il contrabbandiere di cavallette. E' fantastico ma è da galera. E' da galera, Jànos Desztor, e in galera c'è già stato, lui, e deve ancora fare quindici anni, pensa! Ma a Forradalom si comincia presto, vai in prigione che ancora devi nascere e poi ci fai il callo, per le volte che ti ci mandano per non dar la colpa ai ricchi e per quelle volte che te le meriti tutte, quelle volte che pure l'ergastolo, pure il patibolo, meriteresti, ma all'ergastolo e al patibolo i forradalmi ci sputano sopra, e al diavolo tutto, al diavolo il mondo, quello che ci resta è troppo poco ma a noi basta. E che lo dico a fare, poi, a te che con gli avanzi di galera ci vivi e ci mangi a tavola, e sono la famiglia, per te, per me, 'sti avanzi di galera, e vogliam loro bene più che ai santi senza peccati, il nostro peccato è respirare e respiriamo per rivincita, tutto il resto cosa conta se hai una vita, se non muori?-

Nataljetshka fece una pausa.

Dimokratìa sorrise, sorrise e sorrise ancora.

Le piaceva davvero, quella ragazza. Ragionava nel modo giusto, nel modo giusto per quelle come loro, ragionava come lei.

-Feri e Jànos Desztor, gli ungheresi, capelli neri e occhi di fuoco, i figli della strada, i figli della via Rákos, sono i Capitani, gli idoli indiscussi, gli eroi di Forradalom. Budapest sarebbe fiera di loro, e io lo giuro, un giorno ci ritorneranno-

-Sembrano George e Theo...- commentò Tìa, ridendo.

Natal'ja corrugò la fronte.

-Theo?-

-Theodorakis, mio fratello. Il biondino maschilista e disfattista che par quasi la reincarnazione dell'Atrìde maggiore-

-Certo...- sorrise Nataljetshka, ed entrambe pensavano, in quel momento, "che forza, questa ragazza!", e negli occhi grigioverdi grigiazzurri di Dimokratìa Hélèna Dounas e Natal'ja Eileen Morrison passava la luce tenera e birichina d'un'amicizia che, poi, chissà quanto sarebbe cresciuta, chissà dove sarebbe arrivata.

-Tu lo devi proprio sposare, Gee, e poi lanciare l'Iliade, che il bouquet fa tanto "common place", una delle prime parole in inglese che m'ha insegnato il tuo ragazzo, in testa a Theodorakis, che dice sempre che non si sposerà mai. Non ti fanno prudere le mani, questi ragazzi, quando fanno tanto i duri? Theo di duro ha solo la testa, e un giorno giuro che gliela rompo-

Natal'ja sospirò, tuffando lo sguardo nel blu brillante dello Ionio, a cui l'Egeo aveva giusto giusto ceduto il passo.

Ricordò le folli, folli, folli promesse sue e di Gee, ancora da mantenere, e sorrise.

-Farò il possibile, Dim-

-Dim?! Ma tu e George...Dio...tu e quel cretino cretino cretino...ragionate con lo stesso dannatissimo, pigro, onnidormiente, arcidiscutibile neurone!-

La ragazzina russa scrollò le spalle, arrossendo un poco.

-Probabile...-

-Misericordia!- Dimokratìa congiunse le mani a mo' di preghiera, scuotendo vigorosamente la testa -Ma adesso guarda, Natalys, guarda...le vedi, laggiù, le Isole Argo-Saroniche? Si vedono ancora! Quella è Salamina, la Patria di Aiace! Quelle sono le Isole Ioniche e forse quelle sono...Zante, Itaca! La bella Zacinto di Foscolo e la petrosa Itaca di quell'adorabile storditello...-

-Adorabile storditello?-

-Oh, giusto, quello era Gee! Mi ricorda un po' l'itacese, Georgie, pei giorni ch'è stato lontano da Sparta... Ma il nostro amato non ha lo stesso fascino né lo stesso genio, ovvio-

-Certo che le poteva pure lasciare al Telamonio, le armi d'Achille...- sbuffò Alja, che ad Aiace aveva lasciato il cuore pressoché dal primo momento in cui aveva preso in mano l'Iliade.

-Non mi toccare Ulissuccio, Nataljetshka!-

-E tu non mi toccare Georgino!-

Il pinguino più giovane lanciò uno sguardo un po' obliquo alla piccola greca, che scoppiò a ridere senza contegno.

-Figuuurati...-

Pensarono a George, Alja e Tìa, pensarono all'Ulisse che s'era lasciato incantare da una sirena col nome di una Rivoluzionaria e aveva chiamato il suo primogenito Aiace -Paul Aiace Jean-Voltaire, per amor di precisione- e la sua migliore amica Dimokratìa...pensarono a George, ch'era l'antieroe migliore del mondo.

Pensarono che entrambe gli volevano davvero tanto bene, in modo diverso, certo, ma ugualmente forte, nonostante tutte le volte che l'avevano -e l'avrebbero, naturalmente- mandato al diavolo.

-E tu, Dim, devi sposare Feri. Davvero, ti piacerà da morire! Devi solo imparare a prenderlo dalla parte giusta -che, contrariamente a quello che potresti pensare in un primo momento, non è la collottola, per scaraventarlo nell'Enisej-, e non prenderlo a pugni e a sputi quando vorresti...-

Tìa le rivolse uno sguardo furbetto.

-Sarà...-

-E poi devi conoscere Akakij, il mio Akakij, quella testa calda d'un ussaro-giornalista...è bello, lui, ma più che bello è diabolico. Oh, ma lo conoscerai! E poi...insomma, Akakij è...beh, ormai è ufficiale...-

L'allegria negli occhi di Nataljetshka, a quelle parole, morì.

-George non mi racconta i fatti tuoi, Lys- la rassicurò Tìa, inclinando leggermente il capino di bimba un po' ingenua ma, questo era sicuro, dannatamente sincera.

La ragazzina alzò lo sguardo grigiazzurro sull'amica più piccola, accennando un mezzo sorriso un poco più timido del consueto.

-Non sai che Akakij è il padre di mia sorella?-

-So che non è figlia di Harold d'Inghilterra-

Natal'ja sorrise di quel buffo appellativo.

-Beh, la mamma si è innamorata di Akakij, le cose stanno così. E' bella, la mia mamma, con i suoi capelli lunghi, biondi biondi, la sua treccia un po' scomposta ed il sorriso tenero e buffo, da ragazzina. Ha ventisette anni, solo ventisette anni, e Akakij ne ha ventitré, ma sembra più grande di lei, a volte. Altre volte sembra proprio un bambino, ed io sento come una stretta al cuore...ma si amano, è giusto così. Anche papà è bello, sai, con i capelli chiari e gli occhi azzurri azzurri...ha un sorriso sempre un po' perso, papà, e un'aria così distratta... E' tanto ingenuo, lui, e se gli altri non lo amano abbastanza dà la colpa a sé...a volte lo prenderei a schiaffi, papà, sempre così bambino, con i suoi quasi ventotto anni che non dimostra neanche a scherzare...ne dimostra quattordici, lui, l'età che aveva quando sono nata io...è un eterno bambino, ma io lo sono più di lui, e a volte mi sento come se non avessi il diritto di esserlo, a volte mi sento piccola così...-

Tìa spiò con gli occhioni luccicanti il mare che si estendeva intorno alla nave di John Arthur Gibson.

Sorrise.

-Abbiamo entrambe una famiglia disastrata, Lys-

-Anche tu...-

La malinconia splendeva negli occhi di Dimokratìa, e Natal'ja le scompigliò i capelli, guardandola con una manciata di buffo, sincero affetto nel sorriso.

-Quanto amore ho lasciato nelle mani di una madre che mi guarda e che mi dice: "non sei come lei", Dio lo sa, Nataljetshka. Ma se lei fosse ancora viva, non sarebbe certo merito suo! E se l'avessi conosciuta, forse non l'avrei odiata così tanto-

C'era qualcosa di strano, nei begli occhi della piccola Dounas.

Un segreto malcelato nel costante sguardo tenero e vivace della ragazzina, pesante come piombo in mani troppo fragili.

-Lei chi è, Tìa?-

-Eris Dounas, mia sorella. Mia sorella! Troppo santa, troppo bella, troppo in alto, troppo divina e idealizzata, per esser mia sorella! Mia sorella che non ha compiuto un anno, mia sorella che avrebbe avuto un anno in più di Theodorakis, se l'avesse avuta in gloria il cielo, se l'avesse avuta in gloria mia madre! Ma mia madre ce l'ha nel cuore, ce l'ha ancora dentro, ed io non sono lei! Sai, forse... Forse è per questo che detesto tanto la Medea. Medea ha ucciso i suoi figli e mia madre ha ucciso Eris. E' matta, la mamma, crede di star bene ma io lo so, io lo so... E poi c'è Theodorakis che ha paura di vivere, che ama come un matto ma non ha nemmeno il coraggio di pronunciare il nome di quella donna...e Akhylleus che vorrebbe andare lontano, lontano da qui, e non ce la fa, non ce la fa più...e papà che uccide la mamma in ogni sguardo, la distrugge col sorriso e mette tutto sotto i piedi, come il giorno in cui l'ha sposata...e poi ci sono gli Zemekis, le ragazze di Leonida, le sorelle di Anasthàsja, e poi...poi c'è Geórgos. Ci sono Dei che non esistono più che vengono a dirmi che, in qualche modo, ce la farò-

-E tu che hai troppo coraggio, tu...-

Pareva incantata, Natal'ja, incantata, stordita, stregata, dal mare, dal cielo, dal mondo, da quella Tìa che le somigliava maledettamente, eppure era tutto così assurdo, così assurdo e senza senso e, purtroppo, vero...

-C'è che la speranza quelle come noi se la devono inventare, Tìa...ma ce la faremo, questo sì-

Tirò giù dal cielo un pugnetto di luce, Natal'ja, e si fermò a guardarlo, a capire, a sorridere sapendo che per una volta, forse, non avrebbe renderne conto a nessuno.

-Sai...io qualche cosa l'ho capita, altre le devo imparare ancora. Mi voleva un bene dell'anima, Kolja, ma non lo sapeva dire. Tornava dall'esercito e mi guardava con quegli occhi vuoti, vuoti, vuoti...occhi chiari d'acqua dolce, occhi di lago da specchiarcisi dentro e sentir più male che con la spada nel cuore, occhi di vetro e cocci in mille e più frantumi da tagliarsi e sanguinare, occhi d'azzurro di collina, grigi del fumo delle fabbriche e del cielo della sera, occhi di rose di fiamme e di fiori invernali, dove il fuoco non brucia ma uccide, dove il fuoco è di ghiaccio, quando il sole si spegne e scompare, quando il sole rimane a Varsavia...quando il sogno comincia a svanire. Stava ogni giorno più male, e se non fossi riuscita a salire fino al cielo e riportargli quel sole, sarei stata più male di lui. Se lo dimenticava troppo spesso, Kolja, ch'ero solo una bambina, la sua Nataljetshka, per quanto bene mi volesse e gli volessi, e per ogni suo sguardo ci morivo, perché ero tutta la sua speranza, io, e mi sarebbe bastato un attimo, un passo troppo ardito, per deludere le sue aspettative, per non esserne all'altezza, per non valerne più la pena... E per questo ci stavamo male entrambi, lui lo sapeva e non poteva fare altrimenti, e se un giorno m'avesse presa a schiaffi, se avesse gridato al vento tanti insulti da far piangere il cielo, forse sarebbe stato meglio, meglio di quello sguardo vuoto e di quelle troppe domande, meglio di quelle sue pretese silenziose che scavavano nelle mani tutto quello che potevo dare e che non bastava mai, meglio di quella sofferenza implicita in ogni carezza che strappava la pelle, in ogni sorriso che lacerava le labbra, tirato giù da chissà dove, rubato a chissà chi. E mille passi scalzi a logorar le strade e masticare asfalto e spezzarsi la schiena per verste e verste, a conquistare steppe che la più vissuta delle trojke, la migliore teljega non raggiungeva ancora, a grattar risposte dalla testa bionda della luna, metterle in ordine e buttar giù tutto con un calcio e una lacrima amara...ne avevamo, noi, di forza da cercare e non trovare e candele accese da consumare coi calli delle dita, fino ad impazzire... E poi non lo so, lui non ce la faceva più, lui non ce l'ha fatta più. Lui non c'era più, lui non c'è più, e non l'ha rivista, Varsavia, non c'è tornato più...e una volta ci son tornata io, nella casa di Varsavia, a piangere e spezzare piante per entrare nel giardino abbandonato, a calciar sassi e scavalcare la ringhiera, nella stanza in subaffitto a chissà quale studente polacco o pover uomo, a chissà quale ragazzo forse un po' più fortunato di lui, e ci voleva così poco! Ci son tornata, io, nelle gallerie da attraversare per vedere un po' di luce, ma sotto il cuore della neve non batteva più il suo... Ed io ci vado ancora, a cercare il suo cuore, quando non riesco dormire, davanti alla sua tomba, e mi addormento al cimitero, a volte, con le sue mani che non mi trovano più, che non mi tengono più...con quegli occhi che a volte gli avrei detto: "piangi, se vuoi, ma non guardarmi così!". Occhi che non cercano più, adesso, la carezza biancazzurra, il manto del cielo di Varsavia... Non c'è più tornato, Niko, in Polonia, ma ci son tornata io per lui, ci tornerei io per lui, spero di poterci tornare io per lui...lui che sta con me anche in quelle notti eterne al cimitero, e mi sorride e mi difende e non ho più paura, ma se mi guarda con quegli occhi io non ce la faccio più...-

Dimokratìa soppesò la situazione con quieta comprensione ed infantile e al contempo consapevole tenerezza.

-Eravate così belli, tu e tuo cugino! Eravate tutto quanto, e poi è finita così male...-

-Ma poteva finire diversamente, poi, Tìa?-

Era la prima volta, forse, che Natal'ja si dimostrava così arrendevole, così rassegnata all'evidenza dei fatti più terribili e già successi, inevitabili e ancora brucianti di sangue in una memoria troppo viva e ormai impossibile da ingannare.

-C'era Baykla, c'era Baykla, ma a volte Baykla non bastava, lui tornava dalla guerra e mi guardava così male, ferito più negli occhi che nei dolori della carne, e chi lo teneva a bada, quel demonio ch'era diventato, quell'angelo in catene, quando distruggeva tutto con le mani che tremavano, chi lo fermava più...a volte solo io. Adesso lo so, lui stava male davvero. Stava male e a volte non riusciva nemmeno a parlare, balbettava parole tremanti e tremava tutto, batteva i denti, ma non pel freddo, non pel freddo! Tremava, lui, ma per l'animo suo, ch'era tormentato più del grigio, più del buio delle grotte, delle carceri, del bagno penale, del campo di rose dietro l'accampamento degli ussari quando scendeva il telo della sera, quando cadeva il vento forte dei Carpazi, più di quando i venti feroci del mare strappavano i vestiti e contro lo Stau delle montagne non resisteva più nessuno... Era un'anima persa, Nikolaj, ed io non l'ho capito mai...credevo di poterlo tirare su, credevo di poter vincere io...e lui crollava ed io cadevo giù con lui, ma io mi sbucciavo le ginocchia e basta, lui si strappava il cuore e piangeva l'anima, ed io non l'ho saputo guarire mai...-

-Ce l'hai messa tutta, tu, ma non era abbastanza. Era qualcosa di folle, di morboso, il nodo che lo legava al mondo, a te, alla vita... E quella Baykla, se l'ha saputa amare come un santo, come un uomo, come in un sogno, con quanto ancora aveva di sano, con quanto ancora lo teneva su e poi s'è spezzato il filo...spezzate le corde del suo pianoforte la sua voce s'è persa nel cielo...ascoltala ancora, puoi sentirla, tu-

Cominciava a capire, Dimokratìa.

Cominciava a capire che il sorriso che amava il suo caro Geórgos, brandelli di quel cuore che il suo amico aveva toccato con le dita, venivano dalle mani d'un ragazzo polacco che neanche dal cielo l'aveva lasciata, la sua cuginetta troppo buona ed incapace di salvarlo, capiva che Nataljetshka e Nikolen'ka non erano morti mai, non per davvero, e non sarebbero morti ancora, non finché Atlante teneva sulle spalle il cielo, non finché il mondo viveva, girava e cambiava, non finché sarebbero vissuti loro, con quei dubbi e le speranze un po' più forti ogni giorno che cadeva sulla terra e si girava il calendario col senno di poi e qualcosa da cambiare tra la gente, tra l'erba e il mare, da giurare, da guardare, da aspettare e non morire, credere, credere e non morire...non finché si sarebbero illusi di farcela, di arrivare un po' più in là, di salire un po' più su, di fare un passo avanti e di riuscirci, ad arrivare alla fine e bruciare i rimpianti col sole della fine più accecante, un poco cortese, santa e pietosa anche in quel mondo che gentile con loro non l'era stato mai.

Ed era logorante, atroce, forse, il male che s'erano fatti Nataljetshka e Nikolen'ka, il bene che s'erano voluti in tutti quegli anni, dall'inizio alla fine, fine ch'era arrivata troppo presto, consumando il cuore, consumando i legami e tutta la vita ch'era passata, ma era giusto così.

-Nataljetshka, forse tutti abbiamo il nostro Nikolen'ka da salvare, ma nessuno l'ha fatto come te. Anche se poi hai dovuto lasciarlo andare....giù. Nessuno l'ha fatto come te-

Era una Tìa straordinariamente filosofica e profonda, quella che aveva parlato, quella che ora stringeva la mano di Natal'ja e sorrideva al mare con i capelli al vento e il cielo intorno e dentro al cuore, una Tìa che tutta la speranza d'una vita se l'era inventata.

Era una Tìa che Nikolaj non l'aveva conosciuto, ma che la sua parte l'aveva fatta.

-E come te...-

-Io non l'ho conosciuto, Nikolaj- sorrise la ragazzina, sincera e ridente come sempre, in quel mondo.

-Ma hai conosciuto sua cugina-

Si guardò nelle mani, Nataljetshka, la sua mano che stringeva quella di Tìa e quella bagnata di sole, appoggiata e distesa sul parapetto della Magna Graecia, e capì che quello che c'era dentro, ora bastava.



Parte Seconda


-Misericordia! Ma quanto pesa questa Crisotemi?- tuonò una voce dal forte accento ungherese, tagliando il fitto gelo mattutino di Krasnojarsk.

-Crisotemi era una delle figlie di Clittie e Zio Aga, cocco- precisò Jànos Desztor, schioccando le dita.

-Climene, Criseide...-

-Climene era una ninfa, Criseide la schiava di Agamennone e, mi par quasi ridicolo precisarlo, la figlia di Crise-

-Castore?!- gridò Feri -codesta era l'identità del ragazzo della città dei ponti che implorava misericordia-, esasperato.

-Pel cielo, fratello, quello era un pugile spartano!-

Il suo monumentale e mezzo stordito interlocutore sgranò gli occhi, come fulminato.

-Ma tu come fai a...-

-Provaci tu, a rimanere chiuso in una sottospecie di scantinato-catacomba con Natalys per due ore e ben quattordici minuti! I quattordici minuti sono stati micidiali, in effetti- rammentò il povero ragazzo, ancora sconvolto al ricordo.

-Misericordia...-

-L'hai già detto!-

-Senti, perché non lo tieni un po' tu, il mostriciattolo di Akakij e Julen'ka?-

-Cristo divino!- si sentì gridare tutt'un tratto da un punto imprecisato della strada.

-Sempre sia lodato!- esclamarono in coro i due fratelli ungheresi, accennando un breve inchino.

-Buffoni! Pericoli pubblici! Lasciate immediatamente la mia Clitemnestra!-

Jànos alzò gli occhi al chiaro cielo di maggio, sulle labbra acceso un mozzicone di sorriso.

-Se la lascio si rompe, trésòr- commentò serafico Szöcske, mentre il maggiore dei Desztor presenti si limitò a sgranare gli occhi per la seconda volta in quella giornata, mormorando: "ah, ecco come si chiamava la piccola!".

Nel frattempo, una figurina esile esile con una folta chioma di capelli biondi e due occhi grandi e chiari aveva preso a trotterellare nei paraggi, con un'allegria che i due mezzi criminali di Budapest ed il povero padre siberiano faticavano ad interpretare.

Era Isaakij Keresztely, venuto a vantare la sua ennesima vittoria.

-Cinque kopeki che dava di matto!- esclamò, venale come pochi, parandosi davanti a Jànos ed indicando Akakij.

Il minore dei Desztor spalancò gli occhioni scuri, scuotendo piano la testa.

-Questo ragazzino è un demonio...-

-Roba dell'altro mondo!- commentò meno civilmente Feri, che dal piccolo Keresztely preferiva tenersi cordialmente a distanza.

-E cosa ci compreresti, con questi cinque kopeki, sentiamo?- domandò con sincera curiosità Szöcske, frugandosi in tasca alla ricerca degli spiccioli che il piccolo praghese era venuto a riscuotere.

-Oh, ma non saprei...-

Jànos posò cinque monetine sonanti sul palmo teso di Isaakij, che si richiuse subito dopo.

Gli occhi del ceco scintillarono, ed anche Feri s'accorse che c'era qualcosa che non andava, o che "andava troppo", a giudicare dallo sguardo di Keresztely, ma preferì tacere e stare a vedere.

-Un pezzo di croccante, penso- si corresse il ragazzino, baldanzoso.

Il più giovane degli ungheresi sorrise, divertito.

-Oh, bella! Addirittura un pezzo di croccante! Ma non ci arrivi, Isaakij, mi sa...-

Il diabolico praghese gli strizzo l'occhio, sfoderando il più inquietante dei suoi sorrisi.

-Ci arrivo, fidati-

-Certo che ci arriva, batjuška- confermò Feri, annuendo vigorosamente -Gli hai dato cinque piatak, pollastro!-

Cinque piatak, ovvero venticinque kopeki.

Szöcske sbiancò come un cubetto di burro dei Carpazi.

-Cristo divino...-

-Sempre sia lodato!- esclamarono in coro Feri ed Akakij, levandosi il cappello.

Jànos alzò gli occhi al cielo, con un lungo sospiro.

-Mi mancano, i miei cari, vecchi fiorini ungheresi...-

Clitemnestra, tra le braccia di Akakij, emise una risatina lieve lieve, proprio come un soffio di vento.

Jànos si voltò verso la bimba, indispettito.

-Io. Non. Faccio. Commenti.-



Parte Terza



Liverpool, Contea di Merseyside, Great Britain, 17 Maggio 1838


My sweet Julie,

Nevica, a Liverpool.

Avevo sette sterline, sette, rimastemi dalla somma ricevuta dal Conte di Kent per quel bravo sparviero che lui stesso era venuto a cercarmi per la battuta di caccia che si prepara in quel di Dartford.

Queste sterline erano sette, sette, quali alle lettere del vostro nome.

Le ho gettate nella neve, quelle sette sterline, mentre costeggiavo il Mersey, perché la neve m'ha ricordato il vostro visino caro e un poco timido stagliarsi tenero nella luce fioca della candela, la sera del nostro matrimonio.

Avevate i guantini della cresima sulle vostre manine sottili, l'abito della festa e calzati gli stivaletti bianchi dell'estate, quel giorno.

Le ho gettate nella neve, quelle sette sterline, perché i soldi me li possono anche portare via tutti, se voi mancate alle mie sere.

Io vi adoro, Julie, come contemplo il vostro ritratto ad olio e pastelli chiari, le ombre a carboncino ed il sorriso che pare aver vita.

Avete i capelli legati, in quell'immaginetta dolce alla mia memoria, e oggi?

E come vive, oggi, quel nostro uccellino, ch'era appena quindicenne quando l'ebbi tra le mani, e ora sogno e accarezzo ogni minuto col pensiero?

Ama qualcuno, sa com'è amare, e non s'è ancora arresa al pregiudizio, alla prepotenza di chi, in questo mondo, fa i suoi prigionieri, vincitori di guerre impari, questo me lo giurate?

Nevica, a Liverpool.

Nevica, sugli occhi chiari che carezzavate con le mani lievi lievi, nevica sui capelli biondi che scompigliavate la mattina, nevica forte su queste terre che vi hanno vista mia moglie, ed è un bel mondo, quello su cui nevica, perché voi, anche se lontana miglia e verste, siete con me.


Harold Jean-Jacques Morrison



Krasnojarsk, Kraj di Krasnojarsk, Russia Siberiana, 27 Maggio 1838


Carissimo Harold,

Io vi voglio bene e vi rispetto, lo sapete.


Rispetto.

Questa parola le face male.

Gli voglio bene e lo rispetto, lui lo sa.

Lui non lo sa.

Io...


Lacrime di sabbia sottile sulla carta da lettere delle grandi occasioni, sabbia negli occhi.


Io vi ho tradito.


Condannate la mia viltà, condannate la verità.

Non lo farete, ed io soffrirò del vostro perdono, soffrirò del vostro sorriso triste, soffrirò della stanchezza che non vi potrò più allietare, soffrirò del vostro cercare il lume della filosofia anche in questo strazio al cuore.

Soffrirò del tenace, tenero amore che mi prese da ragazzina, l'amore per i vostri occhi stanchi e per il vostro non saper condannare.

Soffrirò per nostra figlia, la nostra bionda e ridente Nataljetshka -e Dio solo sa quanto mi si stringe il cuore ad usare ancora per lei il nom di quand'era piccola, il nome di quando voi la chiamavate Linny, il nome di quando non avevo dubbi, dubbi sul mio amore!-, che conosce i miei peccati e non ha saputo resistere, e non potendo coprirli con gli occhi del cielo, è andata a farsi consumare il cuore, a farsi guarire dalle carezze del giovane greco che ama senza matrimonio, abbassandosi al livello di una donnaccia come me.

Soffrirò per il mio aver buttato all'aria tutto, e adesso negherete, adesso piangerete scuotendo la testa e mi bacerete le mani, e ad avervi dinnanzi a me in questo istante io vi convincerei che non mento, a strappare via dal muro il mio ritratto, dal vostro cuore il mio nome, ma soffrirò, io, per non avervi amato mai abbastanza.


Julyeta Iljodorevna Zirovskaja


-Cosa scrivi, Julen'ka?-

Julyeta chinò il capo, respirando piano la carta della lettera che stringeva tra le mani.

Scrivo le parole che non posso dire.

Scrivo le parole che, tanto, non avrò mai il coraggio di dire.

Questo avrebbe voluto rispondere Julyeta ad Akakij, ma non lo fece, non lo fece.

Lo guardò, sorrise.

-Ha importanza?-

Akakij scrollò le spalle, ricambiando il sorriso dolcemente.

-Se non ne ha per te...-

Per me ne ha troppa, d'importanza, e quest'importanza scava il cuore, ma non te lo dirò, tu non lo saprai, tu non soffrirai...

-Va bene così-

Era allegro, Akakij, quel giorno.

-Se va bene per te, Julen'ka, è tutto a posto-

-E' tutto a posto...- ripeté la ragazza, annuendo, facendo violenza su se stessa per convincere una convinzione che non aveva.

-E Stacey?-

-Stacey?-

-Era un nome che piaceva molto...a Nataša-

Ad Harold.

Il giovane Ul'janov aggrottò la fronte, pensieroso.

-Beh...Clitemnestra, Stacey... Come soprannome è carino, no?-

Julyeta pensò ad alta voce.

-Clittie, Mnestra, Mnestry, Clitjuška, Clitemnestrjetshka...Stacey. E' così che il Capitano Gibson chiama sua moglie, Anasthàsja-

Il ragazzo spalancò gli occhi, drizzando immediatamente le orecchie.

-Gibson...quel Gibson? Ma è pure sposato?-

-Certo, da sedici anni, ormai-

Akakij sussultò, visibilmente colpito.

-In che caspita di situazione è andata a cacciarsi Aljuška?-

-In nessun genere di situazione, Akakijuša- replicò la Zirovskaja, sorridendo dell'ingenuità del ragazzo -Il Capitano John Arthur Gibson è il padre di Brian George, il pervaja ljubov' di Nataljetshka-

Il giovane ussaro-giornalista parve rianimarsi.

-In questo caso è tutto a posto- si disse, illuminandosi.

Julyeta sorrise con infinita tenerezza.

-E' tutto a posto. Io, te, Natie...e Stacey-

-Adesso sì che è tutto a posto-

Forse sì, Akakij.

Forse durerà un attimo, ma è tutto a posto.

Brucia quell'attimo, la fiamma è lenta a morire.

Per adesso è tutto a posto.




Note


La città dei ponti: Budapest.

Teljega: basso carro tipicamente russo.

Piatak: Moneta corrispondente a cinque kopeki.

Batjuška (russo) : Letteralmente, piccolo padre. Appellativo dato durante la conversazione a qualsiasi individuo di sesso maschile.

Pervaja ljubov' (russo) : Primo amore, anche titolo di un racconto di Ivan Sergeevič Turgenev, ma poiché quest'ultimo è stato pubblicato solo nel 1860, nel capitolo il termine assume solo il suo significato letterale.

Mersey: Fiume su cui sorge Liverpool.

Merseyside: Contea inglese della quale Liverpool è il capoluogo.

Kraj di Krasnojarsk: Letteralmente, Territorio di Krasnojarsk. La Russia è infatti divisa in Kraj, Oblast' e Repubbliche. Krasnojarsk è il capoluogo dell'omonimo Kraj.

Tutto l'amore che io posso è proprio niente: Con tutto l'amore che posso, Claudio Baglioni. Una citazione che m'è parsa fin dal primo momento la precisa sintesi, la frase chiave di questo capitolo.



Dunque dunque...da dove cominciare?
Che dire di questo capitolo scritto interamente tra Messina e Siracusa e finito di ricopiare or ora dal quaderno, postato esattamente un giorno dopo il mio quattordicesimo compleanno?

Che dire di questo capitolo influenzato dalla sconvolgente lettura del mitico Delitto e Castigo, libro che non ha fatto che aumentare il mio già grande amore per quel dannato genio di Fëdor Michajlovič Dostoevskij?

Nataljetshka è un vezzeggiativo russo che adoro, e mi è sembrato terribilmente perfetto per la piccola Natal'ja.

Questo capitolo...è lungo, questo capitolo, ma tengo tantissimo ad ogni sua parola.

Tanto lungo e pingue che ho dovuto dividerlo in tre parti -in realtà sarebbero stati due capitoli, ma non aggiorno da una settimana!-: Dimokratìa e Natal'ja sul ponte della Magna Graecia, le loro storie, la loro infanzia e, soprattutto, soprattutto, Nikolaj.

Ho parlato tantissimo di Nikolaj in questo capitolo, ne ho parlato come non avevo fatto in nessun altro capitolo, penso.

Questo Nikolaj...questo Nikolaj è il Nikolaj già malato, il Nikolaj Vasil'evič Zirovskij che abbiamo conosciuto all'inizio della storia, il Nikolaj più sconvolto e sofferente della storia.

E Nataljetshka e Nikolen'ka...è strano, il rapporto tra i due cugini, quel loro affetto immenso, è davvero difficile da spiegare, ma spero di averne dato un'idea soddisfacente in questo capitolo, perché sono due dei personaggi che mi stanno più a cuore, Nataljetshka e Nikolen'ka, non tanto da soli, in questo capitolo, ma insieme, i due cugini Zirovskij insieme.

E poi...poi ci sono i forradalmi, ci sono Feri e Jànos, quei due mitici ungheresi, che son sempre i soliti, stavolta alle prese con Clitemnestra Ul'janova, in una scena che mi sono divertita troppo ad immaginare.

C'è il diabolico Isaakij Keresztely con i suoi benedetti otto anni e gli altrettanto suoi cinque piatak.

Ci sono Harold e Julyeta, nella terza parte del capitolo, ed è stata una delle parti che mi ha fatto più male scrivere, dopo quella di Nikolaj e della famiglia di Tìa.

E infine ci sono Julyeta e Akakij e il soprannome di Clitemnestra, Stacey, che è il nome inglese della sorella di Luce nella prima versione di Sic.

Per oggi penso che possa bastare. ;)

Sperando che il capitolo vi sia piaciuto, vi saluto! :)


A presto,

Marty



  
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