Alla mia Chiaretta; perché le sue chiacchiere sono dolci come il miele
<3
Rosemary and lake
Chiara
si sedette sul divano di pelle
bordeaux, accavallando le gambe lentamente. Era un normalissimo
pomeriggio di fine maggio, l'aria calda- un piccolo assaggio
dell'estate- bussava piano alle finestre e il suo vecchio gatto
soriano sonnecchiava raggomitolato nella cesta.
Il
mondo sembrava fermo.
Con
uno scattare di serratura, lento e
lontano, Alessandro entrò in casa, tenendo per mano sua
figlia. La
bambina corse verso la madre e la salutò con un sonoro
bacio,
accoccolandosi tra le sue braccia. I suoi pantaloncini fucsia
creavano un contrasto strano con il divano.
“Siete
già tornati?” chiese
Chiara, la voce un po' piatta.
La bambina annuì, muovendo forte la testa e facendo ondeggiare i capelli lisci, raccolti in due trecce. Poi con un salto repentino scese dal divano, e prendendo di peso il povero gatto, scomparve nella sua camera.
Alessandro
si avvicinò alla moglie,
con passi cauti, sorridendole leggermente.
“Sai
che giorno è oggi?” chiese
lei in un sussurro, tanto che lui dovette far passare qualche
secondo, chiedendosi se non se lo fosse solamente immaginato.
“Ventitré
maggio.”
“Lo
sai, Ale, vero?”
Lui
annuì, gravemente, e si sedette
vicino a lei.
Chiara si rigirò un foglio tra le
mani. Era stato piegato- e poi spiegato-
così tante volte che
la carta si stava quasi lacerando in alcuni punti, e i bordi erano
leggermente rialzati, a formare piccole orecchie. Chiara
fissò in
silenzio quella scrittura storta, con le a tondeggianti e i puntini
sulle i. Non parlò, aspettando che, come in un film, fosse
la voce
di chi aveva scritto quella lettera a leggerla. Si diede della
stupida quando finalmente capì che non avrebbe risentito
quella
voce- né ora, né mai più.
Alessandro le poggiò una mano
sulla spalla, facendo una lieve pressione. Chiara aprì
meglio la
lettera, anche se non ce ne era bisogno, e con la voce tremolante
iniziò a leggere.
"Pensaci bene Chià: l'adolescenza non può essere così difficile. Altrimenti nessuno la potrebbe superare e non esisterebbero quei vecchietti rompipalle che riempiono i giardinetti pubblici o creano la fila al supermercato. Magari è solo un momento che non va, una stupidissima frazione di vita che non vuole trovare il suo posto nel puzzle. Ma passerà. Eccome se passerà. E io sarò con te, sempre. Non devi colpevolizzarti se i tuoi genitori si stanno separando, non devi sentirti stupida perché hai preso un debito e hai rovinato la tua media. Non piangere, non mugugnare e non rattristarti. Sei una bella ragazza, sei brava, sei intelligente- e no, non sono di parte. So perfettamente che da grande abiterai in una casa splendida, sarai sposata e farai la psicologa come hai sempre voluto. E avrai dei figli bellissimi che mi adoreranno perché li farò divertire e li porterò a fare cose fighe. E magari un giorno riapriremo vecchi album di foto, o il diario di scuola e troveremo i brutti voti, le foto degli ex e scoppierai a ridere pensando a quanto stavi male per una sciocchezza. Ti è mai successo da bambina di sbucciarti un ginocchio? Poi si scuriva tutto e usciva un po' di sangue, che ti macchiava il vestito. E lì pensavi: ora muoio, perché mi fa tanto, tanto, male. Ma poi a diciassette anni le ginocchia non facevano più male, e ti sentivi così stupida a pensare che era quello il vero dolore. E invece di piangere, volevi ridere per quelle lacrime, che ti sembravano infantili. Così un giorno tutti i problemi di oggi sembreranno minuscoli sassolini nelle scarpe, e tutto ti sembrerà bello. Migliore. Tutto sarà più bello. E' solo questione di tempo, e finalmente un giorno ameremo questo periodo della nostra vita che adesso odiamo. Be happy! Ti voglio bene, -S"
Le
ultime parole uscirono a fatica,
come se si fossero attaccate alla gola. Alessandro durante la lettura
non tolse mai la mano dalla sua spalla- Chiara riuscì a
sentire il
calore di quella stretta- e rimase in un muto silenzio.
“Parlami di lei.” le sussurrò,
dopo una manciata di minuti. Alessandro conosceva benissimo quella
storia- l'aveva sentita così tante volte che ormai aveva
perso il
conto. Ma sapeva che Chiara aveva bisogno di parlarne, e lui
l'avrebbe ascoltata ancora una volta, perché l'amava. Sapeva
benissimo che Chiara cercava di attaccarsi a qualsiasi cosa, ad un
ricordo, e che questo la trascinava giù. Stavolta era stata
una
lettera.
Chiara affondò la faccia nell'incavo
della sua spalla; restò così, singhiozzando
convulsamente, ma non
parlò.
La
sera, in quel momento dolce che
precede il sonno, Chiara iniziò a parlare:
«La
conobbi a scuola, in quarto ginnasio. Mi ricordo benissimo che ero
molto agitata, perché non conoscevo nessuno. La mattina
avevo
passato ore a preparami, scartando i vestiti e fissandomi allo
specchio. Avevo pettinato la frangetta con una cura quasi maniacale,
e alla fine avevo deciso di spalmarmi un sottile velo di trucco. In
ascensore mi ero data un altro sguardo: mi piacevo. Volevo fare una
bella impressione ai compagni. Ero arrivata puntuale e mi ero seduta
in fondo all'aula Magna. La Preside aveva iniziato, dopo aver parlato
del liceo per un quarto d'ora, a chiamare i vari nomi, dividendoli
nelle classi. Aspettavo il mio Chiara Vittardi, con una sottile
agitazione. A dir la verità sentivo lo stomaco in subbuglio,
e forse
avrei anche potuto vomitare- sono sempre stata ansiosa.
“Vuoi
una gomma?”
A
distanza di anni, Ale, non riesco a
dimenticarmi quella scena. Lei era lì, con quella maglietta
che le
stava decisamente grande, un paio di jeans strappati e delle Converse
rovinate dal tempo. Aveva i capelli ricci mezzi legati e mezzi no, e
portava uno smalto giallo. Lei era lì, con le gambe sulla
sedia
davanti. Aveva un'aria strafottente, sai? Ma si mordeva il labbro.
Era una contraddizione assurda: non capivo se fosse tranquilla o
agitata per quel primo giorno di scuola. Lei era lì, e mi
stava
tendendo un pacchetto di Vigorsol bianche, le mie preferite.
“Grazie.”
Non
avevo saputo dire nient'altro,
colpa della mia solita timidezza, ed ero tornata ad aspettare il mio
turno in silenzio. Mentalmente mi davo della stupida, perché
non
conoscevo nessuno e quella poteva essere una buona occasione per
iniziare a fare amicizia.
“Ho
già sonno, dannazione!”
Devo
ammettere che il primo giorno che
l'ho conosciuta ho pensato che fosse una svitata assurda
perché
continuava a dire frasi, e io non riuscivo a capire se fossero
rivolte a me o se parlasse da sola. Ma poi si era alzata al nome di
Sofia Grimaldi, senza neanche salutarmi, e avevo pensato che non
l'avrei più rivista, o forse che l'avrei incrociata qualche
volta di
sfuggita. Invece eravamo capitare in classe insieme. Lei era
scivolata verso il penultimo banco, e io avevo raccolto un po' di
coraggio, andando a sedermi vicino a lei.
“Posso?”
“Certo,
io e te già ci conosciamo.”
Non avevo ribattuto niente, anche se secondo me non potevamo dirci conoscenti. Ma alla fine della giornata avrei potuto ammettere di conoscerla davvero. Non aveva passato un minuto zitta, raccontandomi tutta la sua vita in dettaglio, dai pesci rossi, alle sue corse in bici, per arrivare a parlare del suo amore per i laghi. Da lì era stato facile, diventare amiche intendo. Era come se ci conoscessimo da sempre, e parlare con lei era la cosa più naturale del mondo. Veniva spontaneo, perché quando sorrideva- e sembrava il sole- le parole prendevano la strada per uscire, e potevo confidarle tutto. Potevamo uscire e parlare per ore, e poi tornare a casa, chiamarci al telefono e parlare ancora. Andavamo a fare shopping, e lei comprava sempre le cose più strane. Aveva un gusto tutto suo nel vestire; conosceva i negozi più piccoli e particolari, quelli che hanno miliardi di cose spaiate e la merce disordinata sugli scaffali. Adorava i cappelli: d'inverno ne indossava uno diverso ogni giorno, cambiando tra baschi colorati e zuccotti di lana con il pompon. Una volta venne a scuola con la bombetta nera. D'estate portava sempre i panama, o quei deliziosi cappellini di paglia che sembravano ridicoli su tutti, tranne che su di lei. Era come se i suoi capelli ricci si amalgamassero perfettamente a qualsiasi cosa si mettesse in testa.
Non era bella, ma qualche volta sembrava davvero che brillasse.
Forse
era il
contrasto immediato che c'era tra i suoi denti bianchi e i capelli
neri-e poi gli occhi, Ale.
Aveva gli occhi più particolari del
mondo. Lei parlava attraverso gli occhi. Lei viveva con gli
occhi.
Magari conoscevamo qualcuno, e lei si era già dimenticata il
nome,
ma sapeva che aveva un minuscolo neo sotto il mento, o una voglia su
un polpaccio. Aveva un senso dell'orientamento tutto suo: i punti di
riferimento per lei erano cose microscopiche, delle quali io non mi
accorgevo neanche. Sapeva sempre se qualcuno aveva un tic,
riconosceva le persone attraverso i loro gesti. E poi bastava darle
un rapido sguardo e si capiva di che umore fosse.
Era come se i suoi
occhi neri ridessero quando era felice. Non riusciva a nascondere le
emozioni, perché si vedevano passare tutte in quegli occhi.
Era
straordinaria. Tu ti mettevi davanti a lei, e negli occhi riuscivi a
sfogliare tutto quello che provava, come se la sua anima fosse un
libro aperto al mondo. Con lei ho passato di tutto, e riusciva sempre
a farmi tornare il buon umore. Gli anni del liceo sono volati tra
qualche alto e molti bassi. Abbiamo iniziato l'Università,
scegliendo due facoltà diverse ma continuando ad essere
inseparabili. O almeno così pensavo.
Un giorno se ne è andata. Io mi stavo segnando al terzo anno di psicologia, ma lei non voleva più continuare medicina ed era partita. Ero rimasta sorpresa perché amava la medicina, lo ripeteva da quando c'eravamo conosciute. Voleva diventare cardiologa- curare i cuori delle persone- e essere utile. Inizialmente mi diedi la colpa, come al solito, pensai che forse non ero stata abbastanza per lei, che si era annoiata di me. Ma poi mi iniziò a mandare le cartoline dai posti che visitava, a scrivermi le lettere dicendomi che le mancavo, e che presto sarebbe tornata. Doveva solo trovare il suo posto, ritrovarsi. Se solo avessi saputo. Lei tendeva a sminuire i suoi problemi, perché c'è sempre qualcuno che sta peggio di me, chi sono io per lamentarmi?
Insieme
alla primavera era ritornata a
Roma, ma i suoi occhi erano spenti e non brillavano più di
quel nero
profondo. Era come se fossero velati da pensieri inconfessabili- se
solo avessi saputo. Mi sembrò anche più vecchia,
si affaticava
subito e mi disse che non era più andata in bici. Rimasi
sorpresa,
ma ancora non capii. Uscivamo ancora insieme, ma tornava a casa
prima, o cercava una scusa per sedersi sulle panchine o al
bar.
Un
giorno andammo insieme al lago, e mi chiese di parlarle di qualcosa
di bello, di aggiornarla sulle ultime novità. Era stata
fuori per
sette mesi, aveva visitato tanti posti, ma voleva risentire qualcosa
di familiare. Mentre le raccontavo di te, degli studi e delle solite
giornate, mormorò
spesso la parola
casa, sovrappensiero, guardando le nuvole. Non
capii neanche in quel momento, non so come avrei potuto; pensai che
fosse una delle sue solite pazzie.
“Non voglio che tu soffra.” Mi disse, guardando il lago.
Aveva interrotto il mio monologo su di te- stavamo insieme da quasi cinque mesi- e non capivo proprio cosa intendesse.
“Ale ci tiene a me. Non mi farà soffrire.”
“E io?”
Prese un piccolo sasso piatto, e lo lanciò verso la superficie d'acqua. Con un leggero ploff, cadde a fondo, e i cerchi si aprirono concentrici. “Farò star male un sacco di persone; volevo curare i cuori, e invece li spezzerò solamente.” Come in quel primo giorno di scuola, non riuscii a capire se parlasse con me, o se lasciasse le sue parole al vento.
“C'è qualcosa che devi dirmi, Sof?”
“Pensi mai a come sarà la tua morte?”
Quella domanda mi scioccò. Lei era sempre stata per il Carpe diem, o per il Hic et nunc. Non aveva mai pensato al futuro- e sapevo che la morte era qualcosa che considerava troppo lontana.
“Sof, ma cosa...?”
Quell'organo che tanto l'affascinava continuava a pompare bene, ma era il sangue il problema. I suoi globuli rossi erano fottutamente pochi, i bianchi bassi. Leucemia.
Me lo disse come se fosse una cosa da poco, scrollando un po' le spalle- lo sguardo sempre fisso verso un punto lontano del lago.
“Ma non ho paura di morire, sai? Ho paura di soffrire, e di far soffrire gli altri. Volevo curare, volevo far star bene le persone, e invece...”
Non sapevo cosa dire, ma sentivo dentro di me una sensazione troppo simile all'odio- verso Dio, verso la malattia, verso di lei che sembrava fregarsene, verso tutto- e un dolore che era già morte. Le presi la mano: era molto fredda.
“Mi mancherai.”
“Vorrei che non fosse così, Chià. Promettimi che non sarai triste, e che terrai solo i ricordi migliori di me. Non sarei voluta tornare, proprio perché non volevo che l'ultima immagine di me fosse così... debole. Ma sono sempre stata egoista, lo sai, e volevo rivederti, rivedere mia madre e la mia città.”
Scoppiai a piangere. Mi asciugò una lacrima, e scosse la testa.
“Ma allora non hai capito niente, Chià?” Il suo tono sembrava quasi materno; iniziò a ridere e portò la testa all'indietro. La risata si trasformò in un forte spasmo, e iniziò a respirare male.
“Andiamo a casa.” dissi.
Si addormentò in macchina, e mentre dormiva- immobile, con gli occhi chiusi- sembrava ancora quella ragazzina che parlava da sola, e che un giorno lontano mi aveva offerto una Vigorsol. Quando arrivai sotto casa sua e la svegliai, puntò i suoi occhi su di me- e mi sembrò un fantasma, una macchiolina opaca che andava già scomparendo.
Gli ultimi giorni li passò nel suo letto. Avevo sempre amato la sua camera, perché era piena di poster, e le pareti le tinteggiava lei, a seconda del periodo. A volte ci disegnava anche delle cose sopra, piccole onde marine, girasoli alti e gialli. La madre aveva dovuto assecondare questa sua mania, e una volta aveva detto, ridendo piano, che ormai non ci faceva neanche più caso. In quei giorni non c'era niente attaccato ai muri- diventati bianchi e asettici. I poster erano riavvolti in un angolo, e sul comodino, che prima era sempre disordinato, capeggiavano in ordine crescente scatole di medicinali. Anche la luce era stata sostituita con una più neutrale, perché quella di prima le dava fastidio. L'andai a trovare tutti i giorni, più volte. Mi sedevo vicino a lei- non troppo perché altrimenti le toglievo l'aria- e le facevo compagnia. Delle volte però ero costretta a piegarmi verso di lei, per carpire quei sussurri, anche se sempre più spesso non parlava con me.
“C’è il rosmarino, per la rimembranza”
Un giorno disse questa frase. Disse anche che morire annegata non le sarebbe piaciuto affatto- troppa acqua nei polmoni, si sarebbe sentita schiacciata- ma che morire in un lago sarebbe stato quasi dolce. Si lasciò cullare da quei pensieri, e la lasciai da sola. Fu l'ultima volta che la sentii parlare.
“C’è il rosmarino, per la rimembranza”
Sai Ale, Sof è sempre stata geniale, ha sempre capito tutto prima. Forse però avrei voluto che per una volta si sbagliasse. Lei mi aveva detto che finalmente un giorno avrei amato la mia adolescenza, anche se prima la odiavo. Non pensavo che l'avrei amata perché sarebbe stato tutto quello che mi rimane di lei. Le ginocchia, voglio ancora le ginocchia sbucciate. Voglio arrabbiarmi per un brutto voto, o perché ho dimenticato di farmi la piastra. Voglio...» Chiara fu scossa da forti singhiozzi, e Alessandro si accostò a lei, abbracciandola. Alessandro aveva conosciuto Sofia proprio nel periodo della sua malattia. Le era sembrata una persona alla mano, simpatica, ma non riusciva proprio a far combaciare l'immagine che Chiara gli dava di lei- allegra, solare, energetica- con quella ragazza pallida e silenziosa. Era come se Alessandro avesse visto solamente la cenere spenta di un camino, e cercava con quei discorsi di immaginarsi il fuoco che c'era stato fino a poco tempo prima. Chiara sembrava rivivere mentre parlava di lei, ma Alessandro sapeva benissimo che ogni lacrima le strappava qualcosa dentro.
“Mamma, papà...” La bambina- che ora indossava un leggero pigiamino a righe e aveva sciolto i capelli- entrò nella stanza, camminando incerta.
“Cosa c'è, piccola?” disse Alessandro, mentre Chiara si asciugava velocemente le lacrime.
“Non riesco a dormire...Lo so che sto crescendo, ma...posso stare qui con voi? Solo per stanotte, vi prego”
Alessandro
guardò Chiara. Lei abbassò lo sguardo sul
lenzuolo, e lo strinse
forte.
Era
una normalissima notte di fine maggio, la città dormiva e il
mondo
sembrava fermo.
“Certo Sofia, vieni qui.”
Con un salto la bambina si accoccolò nel letto matrimoniale tra i due genitori. Nel silenzio della notte, Chiara riuscì a sentire il suo cuore che tornava a battere, dopo tanto dolore.
Perché Sofia riusciva a curare, a far star bene le persone intorno a lei.
Note autrice:
Questa storia ha partecipato al contest Un
giorno ameremo questo periodo della nostra vita che adesso odiamo di
(Gaea) classificandosi seconda. Tenevo molto a questa storia, ma non mi
aspettavo una posizione così alta. Nella storia doveva
comparire
una citazione, e io molto genialmente ne ho inserito solo una parte.
Guh. Sotto posto il giudizio di (Gaea) *_* Il banner all'inizio
è stupendo! <3 Questa storia ha poi partecipato al contest "Pick your three!" di Adamantina, vincendo un premio speciale.
Il
titolo vuol dire “Rosmarino e lago” Il rosmarino
è una
citazione, come la frase che compare nella storia, all'Amleto di
Shakespeare- amo il personaggio di Ofelia. Il lago invece si
riferisce all'amore di Sofia per i laghi.
Spero
che si capisca anche senza chiarimenti, ma li faccio comunque. Chiara
ha chiamato sua figlia Sofia, come la sua amica scomparsa, e la
bambina riesce a farla stare bene. Ringrazio la giudiciah e tutte le
partecipanti, e chi si fermerà a leggere!
Correttezza grammaticale: 5/5 punti
Niente da dire, brava!
Stile e Originalità: 30/30 punti
Ho pianto: basta a giustificare la valutazione? Commuovente e incredibile, con uno stile articolato e fluido che rende la lettura un vero piacere.
Caratterizzazione dei personaggi/del personaggio: 10/10 punti
Sofia. Mi ha conquistata alla descrizione iniziale. Mi hai uccisa col finale, lo sai, vero? Però l’ultima frase risolleva tutto. È davvero la ciliegina sulla torta.
Sistemazione della citazione: 14/15 punti
Stessa penalizzazione che ho fatto a un’altra: hai usato solo una parte della frase… si poteva spezzare, ma avrei preferito l’uso della frase intera :-) l’ho detto, ho dovuto essere fiscalissima!
Giudizio personale: 5 /5 punti
Incredibile, bellissima, tragica, divertente, magica. Non so davvero che altro io possa dirti.