Capitolo
I: 30 aprile 1986. Maia
Anche
dei semplici oggetti possono far male.
Prendi
le
foto, ad esempio: sono capaci di riportare in vita persino quelle
sensazioni
che pensavi di aver finalmente messo da parte.
Irene
Pellegrini
Al
Santuario di Atene non v’era giorno che scorresse inutilmente ozioso:
fra quei marmi vecchi di millenni lo spettro della morte era una
presenza tanto costante e tangibile che, per contrappasso, la vita vi
scorreva come raddoppiata.
Non
c’erano né
tempo né
voglia di indugiare nell’inerzia e, per questo, ciascun abitante del
Mondo Segreto svolgeva alacremente i propri compiti dall’alba al
tramonto, sprezzante della fatica; dall’Arena dei Tornei alle gallerie
sotterranee, dagli alloggi degli apprendisti alle rimesse delle
cucine, ogni angolo riecheggiava di voci e di passi fino al calar
della sera, come in un grande alveare operoso.
Solo
i Tredici Templi
rimanevano immuni a tale umano affaccendarsi.
Le
Dimore
dei custodi dorati, bianche e imponenti nel sole di Grecia,
proiettavano un’ombra di arcano e di quiete sul resto della Terra
Sacra, protettive e silenti come lo sguardo della Dea
nel cui onore erano state erette: raramente proveniva da esse alcun
suono percettibile e, se ciò accadeva, di solito non era buon segno.
Dunque,
quando rumori di grida e di colpi andati a vuoto giunsero da lassù
sino all’ospedale da campo dove si apprestavano le prime cure ai
feriti, tutto il personale medico interruppe quasi all’unisono ciò che
stava facendo, improvvisamente in allerta.
Anche Maia
Ninis, sino a quel momento impegnata in un’operazione di routine, alzò
gli occhi allarmata:
se un simile
trambusto fosse provenuto da un Presidio
diverso da
quello della Giara Sacra,
probabilmente la cosa l’avrebbe turbata di
meno. Ma era
proprio da lì che
ancora si alzavano strepiti, e quindi non poteva trattarsi di una
faccenda da nulla.
«Maia!
Maia!»
Il
richiamo di Clio Papadakis, l’apprendista del dottor Savasta, la
distrasse momentaneamente dai suoi pensieri.
«Maia,
finalmente ti ho trovata!»
«Perché,
dove credevi che fossi?» ironizzò bonariamente lei, accennando con la
testa a un mucchietto di bende usate, in paziente attesa di essere
lavate e sterilizzate; tuttavia, l’altra pareva così agitata che
lasciò subito cadere lo scherzo.
«Dimmi, Clio,
cosa c’è? Ha a che fare con quello che sta succedendo all’Undicesima,
per caso?»
«Esatto!»
annuì la
ragazzina «Le
ancelle che prestano servizio lì mi hanno detto che il cavaliere
dell’Acquario è molto arrabbiato per qualcosa che… che gli hanno
fatto».
«Che
significa “gli hanno fatto”? Chi? E cosa?»
«Gli
altri cavalieri d’oro. Ma cosa esattamente sia avvenuto, non me
l’hanno saputo dire. Pare ci sia di mezzo una foto… »
«Una
foto? Tutto questo macello per una foto?
Non ci credo. Non è da Camus».
Clio,
in risposta, alzò le spalle:
cosa poteva
saperne lei di cosa fosse o non fosse da Camus, dato che a malapena
sapeva che aspetto avesse?
«E
va bene,» sospirò Maia, togliendosi i guanti in lattice con uno sbuffo
«se qui ci pensi tu, vado a dare un’occhiata».
«Ma
il dottore mi ha detto che, per adesso, devo limitarmi a osservare
te!» esclamò quella sdegnata, spalancando gli occhi «Non voglio
combinare pasticci!»
«E
quali pasticci potresti mai combinare con
delle bende sporche? Andiamo,
Clio: conosco tua madre,
e non credo
proprio che in quindici anni
non ti abbia mai mostrato come si lavano i panni. L’unica differenza è
che, in questo caso, devi immergere le bende nell’acqua bollente e
lasciarle a mollo per almeno 15, 20 minuti. In
ogni caso,» continuò la maggiore, strizzando l’occhio all’apprendista
«oggi il dottor Savasta non c’è. Sai che viene qui solo quando è
strettamente necessario».
Yorgos
Savasta era il capo dei medici che operavano lì al Santuario, nonché
il primario di medicina di uno dei più grandi ospedali di Atene, il
Nikaia. Era
proprio quest’ultima qualifica a renderlo una figura praticamente
indispensabile, giacché gli
permetteva di garantire
l’accesso in ospedale qualora l’attività dei colleghi operanti sul
campo non fosse stata sufficiente, nonché di
approntare le
coperture necessarie a non destare sospetti negli esterni; in aggiunta
a questo, era, altresì, un ottimo dottore.
La
sua mansione lo teneva impegnato al Nikaia per la maggior parte del
tempo, ma appena poteva si recava sempre volentieri in quel loro
presidio di fortuna, che fosse per impartire lezioni ai più inesperti
o, in caso di bisogno, per dirigere il team e dargli un apporto
materiale.
La
nonna di Maia, che era stata infermiera per oltre quarant’anni,
l’aveva preso sotto la sua ala protettiva quando era appena un
tirocinante e lui, per ricambiare il favore, altrettanto aveva fatto
con la nipote di questa; Maia l’aveva sempre considerato una sorta di
padre, specialmente dopo la morte dei i suoi veri genitori.
«Un’orfana
in un universo di orfani… che allegria. Ma almeno io ho avuto nonna
Frandra a crescermi, e non persone che, al posto di darmi carezze,
mi avrebbero preso a pugni per dovere»
pensò mestamente,
passando
accanto a un gruppo di bambini che, sotto la supervisione dei
rispettivi maestri, se le stavano dando di santa ragione.
Lasciandosi
alle spalle i vari campi di addestramento per le reclute svoltò quindi
in direzione degli alloggi del personale di servizio; da lì avrebbe
potuto accedere ai passaggi sotterranei che conducevano direttamente
alla Nona Casa,
senza dover per forza percorrere le scalinate dei Templi
precedenti.
«Visto
che siete qui, vorreste spiegarmi cosa diavolo sta succedendo? Per
favore! Mi sono fatta tutta questa strada solo per averne una vaga
idea, ma non ho ancora scoperto nulla».
Aiolia
e Aldebaran, entrambi fermi sulla soglia dell’Undicesimo Tempio,
si girarono simultaneamente verso di lei; Maia ebbe così modo di
notare che il primo, oltre a tremare visibilmente nonostante il clima
non certo rigido, aveva altresì il chitone da allenamento
completamente fradicio.
«È-è
tutta colpa di qu-quel deficiente di Milo! Lu-lui…»
Taurus,
per fastidio o per pietà, posò una mano sulla spalla del compagno e
continuò in sua vece: «Vedi Maia, il fatto è che Milo, frugando fra le
cose di Camus – ovviamente senza permesso –,
ha trovato una
sua vecchia foto da bambino e, invece di lasciarla dov’era, ha pensato
che sarebbe stato divertente mostrarcela».
«Sì,
devi ric-riconoscere che, in eff-fetti, lo è stato… era così buf-ffo!»
«Ok,
Aiolia, ma mi sembra evidente che la cosa non abbia fatto per nulla
piacere a Camus: si è arrabbiato tanto che ci ha buttato fuori dai
suoi appartamenti a colpi di Diamond Dust, arrivando persino ad alzare
la voce. Sul momento anch’io l’ho trovato spassoso, ma adesso credo
che abbiamo esagerato: probabilmente quella foto ha un significato
particolare e noi, ridendoci su, gli abbiamo mancato di rispetto».
Nel
notare il sincero abbattimento di Aldebaran, Maia non poté fare a meno
di cercare di consolarlo: lui era una di quelle rare persone che, in
assenza di un valido motivo, non avrebbero fatto del male nemmeno a
una mosca. Gli credeva ciecamente, quando affermava che la faccenda
gli era un tantino sfuggita di mano.
«Su
col morale, Al. Sai com’è fatto Camus: è così riservato che basta un
nonnulla a metterlo sulla difensiva. Qualsiasi altra persona – eccetto
Shaka, presumo – non se la sarebbe presa tanto. Gli passerà presto:
dobbiamo solo lasciare che si calmi e razionalizzi l’accaduto» disse,
enfatizzando l’estrema pudicizia dell’Acquario forse più di quanto non
avrebbe fatto in altre circostanze: nemmeno a lei piaceva troppo che i
suoi affari
fossero messi in piazza –
e questo, con
amici come Milo, rappresentava un bell’inconveniente.
«A
proposito di Milo… non
ditemi che è ancora dentro ad accampare spiegazioni!»
Aiolia,
la cui temperatura corporea era nel frattempo rientrata nella norma,
sorrise sotto i baffi: «Tu che ne pensi?»
Maia
scosse la testa, a mezza via tra il divertito e il rassegnato: nel
trattare con gli altri, lo
Scorpione era
davvero irrecuperabile. Sapeva benissimo quando non era il caso di
adottare un certo atteggiamento o dire una determinata cosa, eppure,
gira e rigira, finiva sempre per fare di testa propria. E, se si
trattava di Camus, la sua mancanza di tatto dava puntualmente origine
ad odissee contrapposte di scuse e silenzi ostinati.
«Vado
gentilmente a ricordargli che non otterrà nulla, almeno per adesso»
esclamò quindi, oltrepassando il colonnato «Anche se sono certa che se
ne sia già accorto da solo, e abbia deciso di fregarsene».
Ognuna
delle Dimore
celesti possedeva la propria esclusiva
peculiarità, e quella della Giara Sacra era la struttura a pianta
circolare.
Ogni
volta che vi si addentrava Maia aveva come l’impressione di trovarsi
in una di quelle enormi basiliche cristiano-cattoliche che aveva avuto
modo di visitare durante i suoi viaggi in Italia, dove tutto lo spazio
confluiva verso la cupola centrale; e tuttavia, mentre quelle erano in
genere riccamente decorate e affrescate, l’Undicesimo Tempio,
costruito secondo il rigore e la grazia tipici dell’arte classica,
appariva invece al visitatore austero ed essenziale.
Quella
volta, però, non si lasciò suggestionare dall’ambiente che per un
breve attimo, dirigendosi spedita verso l’ala a nord est dove in
genere erano ubicate le stanze private dei Custodi; come previsto,
Milo si trovava ancora davanti alla porta – chiusa – degli
appartamenti di Camus.
«Sei
consapevole che stare qui a fissare intensamente la porta non farà sì
che questa si apra come per magia, vero?»
Lo
Scorpione si voltò di scatto e le diede il benvenuto con
un’occhiataccia: «Non ti ci mettere anche tu. È già abbastanza dura
doversi cospargere il capo di cenere per uno scherzo da quattro
soldi».
«Com’è
che si dice? Ah, sì: “Chi è causa del suo male, pianga se stesso”.
Dovresti sapere meglio di chiunque altro che, per andare d’accordo con
Camus, certi comportamenti sono preclusi».
«Perdiana,»
gli rispose lui, passandosi stancamente una mano sul viso «sembra di
sentir parlare Camus in persona. Tutti a fare la paternale a me, e
nessuno che faccia notare a lui quanto
farebbe meglio ad essere un po’ meno rigido, almeno nella vita
privata! Spesso mi domando se non sia nato con una scopa nel… insomma,
in quel posto».
Poi
prese a fissarla in maniera strana, evidentemente ispirato da una
sorta di intuizione: «Anzi, visto che ritieni di essere tanto
sensibile, perché non vai tu a parlargli? Vediamo un po' se riesci a
fargli capire che prendersela così per una faccenda del genere è un
inutile spreco di energie!»
A
quella proposta, che aveva vagamente il sapore di una sfida, Maia
rimase un tantino interdetta.
Lei
non c’entrava nulla e
non ci teneva affatto ad essere messa in mezzo, col rischio, magari,
di dover prendere le parti dell’uno o dell’altro; inoltre, il pensiero
di affrontare una conversazione di stampo più intimo con l’Acquario la
innervosiva.
Camus
era in grado di inibirla semplicemente guardandola: in sua presenza si
sentiva sempre non abbastanza attraente, non abbastanza brillante, non
abbastanza simpatica. Insomma, non
abbastanza.
«Allora?»
la incalzò Milo, di fronte al suo temporeggiare «Vai, o convieni con
me che Mr. Portami Rispetto sia decisamente intrattabile?»
«Uffa,
Milo!» sbottò Maia, spintonandolo leggermente affinché si facesse da
parte «E va bene, vado! Però, la
prossima volta che ti viene in mente un’idea stupida pensaci,
invece di dargli immediata attuazione. Non hai più sette anni, santo
cielo. E ricordati che mi devi un favore!»
Dopo
aver bussato lievemente si accostò quindi alla porta, in attesa di
sentire qualche suono provenire dall’interno. Passati pochi secondi,
la voce di Camus si levò limpida e repentina.
«Te
lo ripeto un’ultima volta, Milo: vattene. Non ho voglia di parlare con
te, al momento».
«Ehm,
Camus, in realtà sono Maia. Ciao» rispose lei, facendo intanto segno a
Scorpio di allontanarsi da lì «Tranquillo, Milo se n’è appena andato.
Sono passata per sapere se sia tutto a posto».
Al
che, il tono di Aquarius si fece esitante: «Maia? Oh. Sì. Certo, è
tutto a posto».
Maia
non ebbe neppure il tempo di pensare a una possibile replica che già
Camus le stava dinanzi, il corpo parzialmente appoggiato contro lo
stipite e un’espressione appena più curiosa del consueto; quando lei
se ne
accorse, non riuscì a trattenersi dal sobbalzare.
«Scusa,
non volevo spaventarti!»
«Stupida,
stupida Maia! Come se tu non fossi abituata alla gente capace di
muoversi alla velocità della luce!»
«Ahah,
figurati!» rise Maia, più per nascondere l’imbarazzo che per vero
divertimento «É che mi scordo sempre quanto possiate essere rapidi,
all’occorrenza».
«Già».
Per
un momento stettero a fissarsi in silenzio, come bloccati in una sorta
di impasse; infine, il cavaliere parve sovvenirsi delle regole della
buona creanza – in cui, peraltro, in genere eccelleva.
«Vuoi
entrare?» le chiese, facendosi di lato per spalancare la porta e
permetterle di passare.
Accettato
l’invito con un cenno della testa, Maia seguì il padrone di casa lungo
il corridoio che percorreva l’appartamento fino ad approdare alla zona
giorno; questa, nel caso dell’Undicesimo Tempio, si trovava
esattamente dalla parte opposta rispetto all’ingresso ed era corredata
di una sorta di veranda esterna da cui si godeva della vista di buona
parte del Santuario.
Un
po’ per la posizione, un po’ per la ritrosia del loro proprietario,
fatto sta che di rado si riunivano nelle stanze di Camus; Maia stava
giusto pensando a quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che ci
aveva messo piede, quando le parole di Aquarius la distolsero dai suoi
– «inutili» –
vagheggiamenti.
«Apprezzo
che tu ti sia interessata alla mia condizione, davvero,» esordì quello,
offrendole una delle poltrone con un gesto e mettendosi a sedere a sua
volta «ma non ce ne sarebbe stato bisogno; probabilmente mi sono
alterato più del necessario. E tuttavia, non ho bisogno di rammentarti
quanto certi soggetti di nostra conoscenza riescano a diventare
inopportuni, alle volte».
Maia,
specialmente dopo quel “davvero”, alzò scettica un sopracciglio: con
tutta la cortesia dell’intero universo, Camus le stava sostanzialmente
sbattendo in faccia l’inutilità di quella visita.
Persino
la sua posizione sul divano, eccessivamente rigida rispetto al
contesto apparentemente informale, tradiva il fastidio per
quell’intrusione né aspettata né,
tantomeno,
desiderata.
«Del
resto, come dargli torto? Anche
vestito così, come l’ultimo dei soldati, sembra
uscito da un
dipinto rinascimentale. E poi, uno che non parla volentieri nemmeno
con se stesso di cosa mai potrebbe voler discorrere con me?»
Amareggiata
da tale consapevolezza la ragazza si alzò in piedi quasi di scatto,
intenzionata a togliere il disturbo il più velocemente possibile.
«Hai
ragione: in effetti, avrei potuto evitare. É solo che, giù
all’ospedale, nessuno dei miei colleghi era al corrente di quanto
fosse successo, così ho deciso di salire io ad accertarmene. Sulla
soglia della tua Casa Aiolia e Aldebaran mi hanno spiegato tutto:
ripensandoci, mi sarei dovuta accontentare del loro racconto» esclamò
quindi in maniera affettata, guardando a malapena in viso il proprio
interlocutore «Adesso me ne vado: mi spiace di averti dato ulteriori
noie».
Camus
reagì a quello strano atteggiamento in un modo che la sorprese;
infatti, anziché assecondarla ed accompagnarla alla porta, si accomodò
meglio sullo schienale, accavallò le gambe e disse, semplicemente:
«No, ti prego. Resta».
Un
invito che assomigliava ad un ordine, ma era molto più di quello in
cui Maia avrebbe normalmente sperato.
«Ah.
Ok. Va bene… » mormorò, saettando gli occhi qua e là in cerca di un
argomento di conversazione che non toccasse il tasto dolente del
fresco litigio e fosse, al contempo, in grado di interessarlo.
Come
spesso accadeva, la sua attenzione fu ben presto attratta dalla
piccola libreria posta accanto alla finestra, colma di manuali di
anatomia umana, fisica e chimica; fra di essi, però, spiccavano
altresì diversi romanzi, molti dei quali recavano titoli noti anche
alla stessa Maia.
«L’Étranger,
La
Peste,
La
Chute…
mi pare di intuire un qualche apprezzamento per il tuo omonimo
algerino» scherzò, menzionando ad alta voce i primi titoli che le
erano balzati alla vista.
«Credo
che Albert Camus fosse lo scrittore preferito di uno dei miei
genitori: non ricordo molto, ma nella mente ho distintamente impressa
l’immagine di questi e di altri suoi libri in
bella mostra sugli scaffali di casa, a Parigi».
Dinanzi
a quella confidenza assolutamente imprevista, Maia si fece subito
seria: sapeva per esperienza personale quanto potesse essere arduo
riportare alla memoria certi dettagli, giacché intrinsecamente legati
a persone care scomparse troppo presto.
«Capisco.
Per questo hai deciso di chiamarti così?»
«E
Didier… che fine ha fatto?»
Maia
si morse la lingua, ma ormai era troppo tardi: la domanda le era
uscita di bocca prima che potesse chiedersi se stesse o meno facendo
un passo falso.
L’Acquario
la guardò fissamente per qualche secondo, poi rispose secco:
«È morto. Tanti, tanti anni fa: la neve se l’è preso al posto mio».
«Mi
dispiace» sussurrò lei un
po’ stupidamente, colpita dalla rabbia repressa racchiusa nelle sue
parole. Mai avrebbe pensato di poter vedere un aspetto tanto intimo di
Camus, e adesso la profondità di questo la stava letteralmente
schiacciando.
«Quella,»
continuò l’Undicesimo Custode, accennando con la testa a una vecchia
polaroid poggiata sul tavolo «è soltanto una foto, ma Milo è a
conoscenza di tutto ciò che ti ho raccontato. Per questo non tollero
che scherzi sulla mia infanzia. Anche –
e soprattutto –
per questo».
«Posso?»
chiese la ragazza, allungandosi timidamente verso l’ormai famosa
fotografia.
«Fai
pure. Almeno tu non ne riderai, ne sono certo».
«Te
lo prometto».
Lo
scatto in
bianco e nero ritraeva
un bel bambino vestito con dei pantaloni alla zuava, le bretelle e una
maglietta a righe – presumibilmente blu e bianche –;
in testa, manco a dirlo, portava il tipico cappello francese, le
béret.
A
differenza dell’adulto dalle fattezze simili che Maia in quel momento
aveva davanti,
il piccolo
sorrideva felice, lo sguardo rivolto all’obbiettivo e le mani
spavaldamente infilate dentro le tasche.
Sull’angolo
destro dell’istantanea, redatta a penna con caratteri morbidi ed
eleganti, stava la dicitura: Le
petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969.
Note
dell'autore
Bentrovati!
Come
certo avrà notato chi era passato
di qui già in precedenza, il capitolo è stato completamente stravolto
rispetto
al suo originale. Vi riassumo le principali divergenze, per sommi capi:
-
ho riportato la dimensione
spaziale entro i piani canonici, ricomprendenti Rodorio, il negozio di
fiori e
quant'altro (non mi dilungo, i dettagli li conoscete meglio di me);
-
Maia non frequenta la facoltà di
Lettere, ma quella di Medicina: mi è sembrato un mezzo più efficace a
giustificare la sua presenza al Santuario (anche se la faccenda delle
famiglie
custodi, ampiamente spiegata al capitolo 6, rimane ferma);
-
in questa versione Maia vive con
la nonna materna perché i suoi genitori sono morti (in missione per
conto del
Santuario, come poi si dirà);
- la
faccenda della foto appare
drasticamente ridimensionata. Per esigenze di copione non l'ho eliminata
del
tutto, ma così mi pare decisamente più plausibile e adatta al contesto,
rispetto a prima.
Svolte
queste (in)utili premesse, mi
sembra necessario dare un inquadramento temporale più o meno preciso
alle
vicende.
A
livello canonico, l’unica cosa
sicura è che la battaglia delle Dodici Case sia da collocarsi nel 1986,
e
tuttavia il mese rimane incerto. Tra chi diceva “febbraio”, e chi
“settembre”,
io ho scelto quest’ultima opzione, onde far sì che Saori avesse almeno
13 anni.
Dunque, considerando che, tra la suddetta battaglia e gli eventi ad essa
precedenti intercorre qualche mese, il presente capitolo è ambientato il
30
aprile 1986, otto giorni prima del compleanno di Al.
Adesso
(sì, lo so, ho rotto),
qualche precisazione più specifica:
-
il Nikaia è l'ospedale più grande
di Atene ed è sito nell'omonimo quartiere popolare, vicino al porto del
Pireo
(il quale, nella mia storia, è la zona di Atene più prossima a Rodorio e
al
Santuario). Nel 2011 è tristemente assurto a simbolo della crisi greca
per casi
eclatanti di malasanità e corruzione, ma questo non ha a che fare con
Sorella
Morte;
-
Albert Camus, nato a Dréan –
sulla costa orientale dell'Algeria –, è stato scrittore, filosofo,
saggista, drammaturgo, giornalista ed attivista politico francese;
quelle da me
citate sono solo alcune delle sue opere più famose;
-
Il basco, in Francia, è
generalmente indicato col termine "béret" (o "berret");
-
"Le petit Didier au Jardin du
Luxembourg, Paris, june 1969." : "Il piccolo Didier ai giardini del
Lussemburgo, Parigi, giugno 1969". I giardini del Lussemburgo
sono i
giardini pubblici antistanti al Palazzo del Lussemburgo, che ospita la
sede del
Senato francese.