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Autore: _camus_    06/09/2011    9 recensioni
Sembri ancora lontana ed estranea, Sorella Morte, sovrasti come stella gelida al mio destino.
[Il viandante alla morte, Hermann Hesse]

Solitudini che si intrecciano all'ombra del Grande Tempio di Atene: il "prima" e il "dopo" la battaglia delle Dodici Case raccontati attraverso quattro diversi – ma collegati – punti di vista.
Storia completamente revisionata
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo, Virgo Shaka
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo I. Maia BG

 

 Capitolo I: 30 aprile 1986. Maia

 

 


Anche dei semplici oggetti possono far male.

Prendi le foto, ad esempio: sono capaci di riportare in vita persino quelle sensazioni che pensavi di aver finalmente messo da parte.

Irene Pellegrini

 


 

 

 


Al Santuario di Atene non v’era giorno che scorresse inutilmente ozioso: fra quei marmi vecchi di millenni lo spettro della morte era una presenza tanto costante e tangibile che, per contrappasso, la vita vi scorreva come raddoppiata.

Non c’erano né tempo né voglia di indugiare nell’inerzia e, per questo, ciascun abitante del Mondo Segreto svolgeva alacremente i propri compiti dall’alba al tramonto, sprezzante della fatica; dall’Arena dei Tornei alle gallerie sotterranee, dagli alloggi degli apprendisti alle rimesse delle cucine, ogni angolo riecheggiava di voci e di passi fino al calar della sera, come in un grande alveare operoso.

Solo i Tredici Templi rimanevano immuni a tale umano affaccendarsi.

Le Dimore dei custodi dorati, bianche e imponenti nel sole di Grecia, proiettavano un’ombra di arcano e di quiete sul resto della Terra Sacra, protettive e silenti come lo sguardo della Dea nel cui onore erano state erette: raramente proveniva da esse alcun suono percettibile e, se ciò accadeva, di solito non era buon segno.

Dunque, quando rumori di grida e di colpi andati a vuoto giunsero da lassù sino all’ospedale da campo dove si apprestavano le prime cure ai feriti, tutto il personale medico interruppe quasi all’unisono ciò che stava facendo, improvvisamente in allerta. Anche Maia Ninis, sino a quel momento impegnata in un’operazione di routine, alzò gli occhi allarmata: se un simile trambusto fosse provenuto da un Presidio diverso da quello della Giara Sacra, probabilmente la cosa l’avrebbe turbata di meno. Ma era proprio da lì che ancora si alzavano strepiti, e quindi non poteva trattarsi di una faccenda da nulla.

«Maia! Maia!»

Il richiamo di Clio Papadakis, l’apprendista del dottor Savasta, la distrasse momentaneamente dai suoi pensieri.

«Maia, finalmente ti ho trovata!»

«Perché, dove credevi che fossi?» ironizzò bonariamente lei, accennando con la testa a un mucchietto di bende usate, in paziente attesa di essere lavate e sterilizzate; tuttavia, l’altra pareva così agitata che lasciò subito cadere lo scherzo. «Dimmi, Clio, cosa c’è? Ha a che fare con quello che sta succedendo all’Undicesima, per caso?»

«Esatto!» annuì la ragazzina «Le ancelle che prestano servizio lì mi hanno detto che il cavaliere dell’Acquario è molto arrabbiato per qualcosa che… che gli hanno fatto».

«Che significa “gli hanno fatto”? Chi? E cosa?»

«Gli altri cavalieri d’oro. Ma cosa esattamente sia avvenuto, non me l’hanno saputo dire. Pare ci sia di mezzo una foto… »

«Una foto? Tutto questo macello per una foto? Non ci credo. Non è da Camus».

Clio, in risposta, alzò le spalle: cosa poteva saperne lei di cosa fosse o non fosse da Camus, dato che a malapena sapeva che aspetto avesse? 

«E va bene,» sospirò Maia, togliendosi i guanti in lattice con uno sbuffo «se qui ci pensi tu, vado a dare un’occhiata».

«Ma il dottore mi ha detto che, per adesso, devo limitarmi a osservare te!» esclamò quella sdegnata, spalancando gli occhi «Non voglio combinare pasticci!»

«E quali pasticci potresti mai combinare con delle bende sporche? Andiamo, Clio: conosco tua madre, e non credo proprio che in quindici anni non ti abbia mai mostrato come si lavano i panni. L’unica differenza è che, in questo caso, devi immergere le bende nell’acqua bollente e lasciarle a mollo per almeno 15, 20 minuti. In ogni caso,» continuò la maggiore, strizzando l’occhio all’apprendista «oggi il dottor Savasta non c’è. Sai che viene qui solo quando è strettamente necessario».

Yorgos Savasta era il capo dei medici che operavano lì al Santuario, nonché il primario di medicina di uno dei più grandi ospedali di Atene, il Nikaia. Era proprio quest’ultima qualifica a renderlo una figura praticamente indispensabile, giacché gli permetteva di garantire l’accesso in ospedale qualora l’attività dei colleghi operanti sul campo non fosse stata sufficiente, nonché di approntare le coperture necessarie a non destare sospetti negli esterni; in aggiunta a questo, era, altresì, un ottimo dottore.

La sua mansione lo teneva impegnato al Nikaia per la maggior parte del tempo, ma appena poteva si recava sempre volentieri in quel loro presidio di fortuna, che fosse per impartire lezioni ai più inesperti o, in caso di bisogno, per dirigere il team e dargli un apporto materiale.

La nonna di Maia, che era stata infermiera per oltre quarant’anni, l’aveva preso sotto la sua ala protettiva quando era appena un tirocinante e lui, per ricambiare il favore, altrettanto aveva fatto con la nipote di questa; Maia l’aveva sempre considerato una sorta di padre, specialmente dopo la morte dei i suoi veri genitori.

«Un’orfana in un universo di orfani… che allegria. Ma almeno io ho avuto nonna Frandra a crescermi, e non persone che, al posto di darmi carezze, mi avrebbero preso a pugni per dovere»  pensò mestamente, passando accanto a un gruppo di bambini che, sotto la supervisione dei rispettivi maestri, se le stavano dando di santa ragione.

Lasciandosi alle spalle i vari campi di addestramento per le reclute svoltò quindi in direzione degli alloggi del personale di servizio; da lì avrebbe potuto accedere ai passaggi sotterranei che conducevano direttamente alla Nona Casa, senza dover per forza percorrere le scalinate dei Templi precedenti.  

«Visto che siete qui, vorreste spiegarmi cosa diavolo sta succedendo? Per favore! Mi sono fatta tutta questa strada solo per averne una vaga idea, ma non ho ancora scoperto nulla». 

Aiolia e Aldebaran, entrambi fermi sulla soglia dell’Undicesimo Tempio, si girarono simultaneamente verso di lei; Maia ebbe così modo di notare che il primo, oltre a tremare visibilmente nonostante il clima non certo rigido, aveva altresì il chitone da allenamento completamente fradicio.

«È-è tutta colpa di qu-quel deficiente di Milo! Lu-lui…»

Taurus, per fastidio o per pietà, posò una mano sulla spalla del compagno e continuò in sua vece: «Vedi Maia, il fatto è che Milo, frugando fra le cose di Camus – ovviamente senza permesso –, ha trovato una sua vecchia foto da bambino e, invece di lasciarla dov’era, ha pensato che sarebbe stato divertente mostrarcela».

«Sì, devi ric-riconoscere che, in eff-fetti, lo è stato… era così buf-ffo!»

«Ok, Aiolia, ma mi sembra evidente che la cosa non abbia fatto per nulla piacere a Camus: si è arrabbiato tanto che ci ha buttato fuori dai suoi appartamenti a colpi di Diamond Dust, arrivando persino ad alzare la voce. Sul momento anch’io l’ho trovato spassoso, ma adesso credo che abbiamo esagerato: probabilmente quella foto ha un significato particolare e noi, ridendoci su, gli abbiamo mancato di rispetto».

Nel notare il sincero abbattimento di Aldebaran, Maia non poté fare a meno di cercare di consolarlo: lui era una di quelle rare persone che, in assenza di un valido motivo, non avrebbero fatto del male nemmeno a una mosca. Gli credeva ciecamente, quando affermava che la faccenda gli era un tantino sfuggita di mano.

«Su col morale, Al. Sai com’è fatto Camus: è così riservato che basta un nonnulla a metterlo sulla difensiva. Qualsiasi altra persona – eccetto Shaka, presumo – non se la sarebbe presa tanto. Gli passerà presto: dobbiamo solo lasciare che si calmi e razionalizzi l’accaduto» disse, enfatizzando l’estrema pudicizia dell’Acquario forse più di quanto non avrebbe fatto in altre circostanze: nemmeno a lei piaceva troppo che i suoi affari fossero messi in piazza – e questo, con amici come Milo, rappresentava un bell’inconveniente.

«A proposito di Milo… non ditemi che è ancora dentro ad accampare spiegazioni!»

Aiolia, la cui temperatura corporea era nel frattempo rientrata nella norma, sorrise sotto i baffi: «Tu che ne pensi?»

Maia scosse la testa, a mezza via tra il divertito e il rassegnato: nel trattare con gli altri, lo Scorpione era davvero irrecuperabile. Sapeva benissimo quando non era il caso di adottare un certo atteggiamento o dire una determinata cosa, eppure, gira e rigira, finiva sempre per fare di testa propria. E, se si trattava di Camus, la sua mancanza di tatto dava puntualmente origine ad odissee contrapposte di scuse e silenzi ostinati.

«Vado gentilmente a ricordargli che non otterrà nulla, almeno per adesso» esclamò quindi, oltrepassando il colonnato «Anche se sono certa che se ne sia già accorto da solo, e abbia deciso di fregarsene».

Ognuna delle Dimore celesti possedeva la propria esclusiva peculiarità, e quella della Giara Sacra era la struttura a pianta circolare.

Ogni volta che vi si addentrava Maia aveva come l’impressione di trovarsi in una di quelle enormi basiliche cristiano-cattoliche che aveva avuto modo di visitare durante i suoi viaggi in Italia, dove tutto lo spazio confluiva verso la cupola centrale; e tuttavia, mentre quelle erano in genere riccamente decorate e affrescate, l’Undicesimo Tempio, costruito secondo il rigore e la grazia tipici dell’arte classica, appariva invece al visitatore austero ed essenziale.

Quella volta, però, non si lasciò suggestionare dall’ambiente che per un breve attimo, dirigendosi spedita verso l’ala a nord est dove in genere erano ubicate le stanze private dei Custodi; come previsto, Milo si trovava ancora davanti alla porta – chiusa – degli appartamenti di Camus.

«Sei consapevole che stare qui a fissare intensamente la porta non farà sì che questa si apra come per magia, vero?»

Lo Scorpione si voltò di scatto e le diede il benvenuto con un’occhiataccia: «Non ti ci mettere anche tu. È già abbastanza dura doversi cospargere il capo di cenere per uno scherzo da quattro soldi».

«Com’è che si dice? Ah, sì: “Chi è causa del suo male, pianga se stesso”. Dovresti sapere meglio di chiunque altro che, per andare d’accordo con Camus, certi comportamenti sono preclusi».

«Perdiana,» gli rispose lui, passandosi stancamente una mano sul viso «sembra di sentir parlare Camus in persona. Tutti a fare la paternale a me, e nessuno che faccia notare a lui quanto farebbe meglio ad essere un po’ meno rigido, almeno nella vita privata! Spesso mi domando se non sia nato con una scopa nel… insomma, in quel posto».

Poi prese a fissarla in maniera strana, evidentemente ispirato da una sorta di intuizione: «Anzi, visto che ritieni di essere tanto sensibile, perché non vai tu a parlargli? Vediamo un po' se riesci a fargli capire che prendersela così per una faccenda del genere è un inutile spreco di energie!»

A quella proposta, che aveva vagamente il sapore di una sfida, Maia rimase un tantino interdetta.

Lei non c’entrava nulla e non ci teneva affatto ad essere messa in mezzo, col rischio, magari, di dover prendere le parti dell’uno o dell’altro; inoltre, il pensiero di affrontare una conversazione di stampo più intimo con l’Acquario la innervosiva.

Camus era in grado di inibirla semplicemente guardandola: in sua presenza si sentiva sempre non abbastanza attraente, non abbastanza brillante, non abbastanza simpatica. Insomma, non abbastanza.

«Allora?» la incalzò Milo, di fronte al suo temporeggiare «Vai, o convieni con me che Mr. Portami Rispetto sia decisamente intrattabile?»

«Uffa, Milo!» sbottò Maia, spintonandolo leggermente affinché si facesse da parte «E va bene, vado! Però, la prossima volta che ti viene in mente un’idea stupida pensaci, invece di dargli immediata attuazione. Non hai più sette anni, santo cielo. E ricordati che mi devi un favore!»

Dopo aver bussato lievemente si accostò quindi alla porta, in attesa di sentire qualche suono provenire dall’interno. Passati pochi secondi, la voce di Camus si levò limpida e repentina.

«Te lo ripeto un’ultima volta, Milo: vattene. Non ho voglia di parlare con te, al momento».

«Ehm, Camus, in realtà sono Maia. Ciao» rispose lei, facendo intanto segno a Scorpio di allontanarsi da lì «Tranquillo, Milo se n’è appena andato. Sono passata per sapere se sia tutto a posto».

Al che, il tono di Aquarius si fece esitante: «Maia? Oh. Sì. Certo, è tutto a posto».

Maia non ebbe neppure il tempo di pensare a una possibile replica che già Camus le stava dinanzi, il corpo parzialmente appoggiato contro lo stipite e un’espressione appena più curiosa del consueto; quando lei se ne accorse, non riuscì a trattenersi dal sobbalzare.

«Scusa, non volevo spaventarti!» 

«Stupida, stupida Maia! Come se tu non fossi abituata alla gente capace di muoversi alla velocità della luce!»

«Ahah, figurati!» rise Maia, più per nascondere l’imbarazzo che per vero divertimento «É che mi scordo sempre quanto possiate essere rapidi, all’occorrenza».

«Già».

Per un momento stettero a fissarsi in silenzio, come bloccati in una sorta di impasse; infine, il cavaliere parve sovvenirsi delle regole della buona creanza – in cui, peraltro, in genere eccelleva.

«Vuoi entrare?» le chiese, facendosi di lato per spalancare la porta e permetterle di passare.

Accettato l’invito con un cenno della testa, Maia seguì il padrone di casa lungo il corridoio che percorreva l’appartamento fino ad approdare alla zona giorno; questa, nel caso dell’Undicesimo Tempio, si trovava esattamente dalla parte opposta rispetto all’ingresso ed era corredata di una sorta di veranda esterna da cui si godeva della vista di buona parte del Santuario.

Un po’ per la posizione, un po’ per la ritrosia del loro proprietario, fatto sta che di rado si riunivano nelle stanze di Camus; Maia stava giusto pensando a quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che ci aveva messo piede, quando le parole di Aquarius la distolsero dai suoi – «inutili» – vagheggiamenti.

«Apprezzo che tu ti sia interessata alla mia condizione, davvero,» esordì quello, offrendole una delle poltrone con un gesto e mettendosi a sedere a sua volta «ma non ce ne sarebbe stato bisogno; probabilmente mi sono alterato più del necessario. E tuttavia, non ho bisogno di rammentarti quanto certi soggetti di nostra conoscenza riescano a diventare inopportuni, alle volte».

Maia, specialmente dopo quel “davvero”, alzò scettica un sopracciglio: con tutta la cortesia dell’intero universo, Camus le stava sostanzialmente sbattendo in faccia l’inutilità di quella visita.

Persino la sua posizione sul divano, eccessivamente rigida rispetto al contesto apparentemente informale, tradiva il fastidio per quell’intrusione né aspettata , tantomeno, desiderata.

«Del resto, come dargli torto? Anche vestito così, come l’ultimo dei soldati, sembra uscito da un dipinto rinascimentale. E poi, uno che non parla volentieri nemmeno con se stesso di cosa mai potrebbe voler discorrere con me?»

Amareggiata da tale consapevolezza la ragazza si alzò in piedi quasi di scatto, intenzionata a togliere il disturbo il più velocemente possibile.

«Hai ragione: in effetti, avrei potuto evitare. É solo che, giù all’ospedale, nessuno dei miei colleghi era al corrente di quanto fosse successo, così ho deciso di salire io ad accertarmene. Sulla soglia della tua Casa Aiolia e Aldebaran mi hanno spiegato tutto: ripensandoci, mi sarei dovuta accontentare del loro racconto» esclamò quindi in maniera affettata, guardando a malapena in viso il proprio interlocutore «Adesso me ne vado: mi spiace di averti dato ulteriori noie».

Camus reagì a quello strano atteggiamento in un modo che la sorprese; infatti, anziché assecondarla ed accompagnarla alla porta, si accomodò meglio sullo schienale, accavallò le gambe e disse, semplicemente: «No, ti prego. Resta».

Un invito che assomigliava ad un ordine, ma era molto più di quello in cui Maia avrebbe normalmente sperato.

«Ah. Ok. Va bene… » mormorò, saettando gli occhi qua e là in cerca di un argomento di conversazione che non toccasse il tasto dolente del fresco litigio e fosse, al contempo, in grado di interessarlo.

Come spesso accadeva, la sua attenzione fu ben presto attratta dalla piccola libreria posta accanto alla finestra, colma di manuali di anatomia umana, fisica e chimica; fra di essi, però, spiccavano altresì diversi romanzi, molti dei quali recavano titoli noti anche alla stessa Maia.

«L’Étranger, La Peste, La Chute… mi pare di intuire un qualche apprezzamento per il tuo omonimo algerino» scherzò, menzionando ad alta voce i primi titoli che le erano balzati alla vista.

«Credo che Albert Camus fosse lo scrittore preferito di uno dei miei genitori: non ricordo molto, ma nella mente ho distintamente impressa l’immagine di questi e di altri suoi libri in bella mostra sugli scaffali di casa, a Parigi».

Dinanzi a quella confidenza assolutamente imprevista, Maia si fece subito seria: sapeva per esperienza personale quanto potesse essere arduo riportare alla memoria certi dettagli, giacché intrinsecamente legati a persone care scomparse troppo presto. 

«Capisco. Per questo hai deciso di chiamarti così?» 

 Camus annuì, mentre una ciocca rossa gli ricadeva sul viso e i suoi occhi si facevano appena un po’ più distanti: «Sì. Come sai, gli aspiranti cavalieri di Atena nati fuori dal Santuario o da Rodorio e ivi arrivati con un nome e un cognome, prima di iniziare l’addestramento hanno l’onere di scegliersi un nuovo appellativo, per rimarcare la completa rinuncia alla loro vita precedente. Quando è stato il mio turno, non ho avuto dubbi sul fatto che avrei voluto chiamarmi “Camus”».

«E Didier… che fine ha fatto?»

Maia si morse la lingua, ma ormai era troppo tardi: la domanda le era uscita di bocca prima che potesse chiedersi se stesse o meno facendo un passo falso.

L’Acquario la guardò fissamente per qualche secondo, poi rispose secco: «È morto. Tanti, tanti anni fa: la neve se l’è preso al posto mio».

«Mi dispiace» sussurrò lei un po’ stupidamente, colpita dalla rabbia repressa racchiusa nelle sue parole. Mai avrebbe pensato di poter vedere un aspetto tanto intimo di Camus, e adesso la profondità di questo la stava letteralmente schiacciando.

«Quella,» continuò l’Undicesimo Custode, accennando con la testa a una vecchia polaroid poggiata sul tavolo «è soltanto una foto, ma Milo è a conoscenza di tutto ciò che ti ho raccontato. Per questo non tollero che scherzi sulla mia infanzia. Anche e soprattutto per questo».

«Posso?» chiese la ragazza, allungandosi timidamente verso l’ormai famosa fotografia.

«Fai pure. Almeno tu non ne riderai, ne sono certo».

«Te lo prometto».

Lo scatto in bianco e nero ritraeva un bel bambino vestito con dei pantaloni alla zuava, le bretelle e una maglietta a righe – presumibilmente blu e bianche –; in testa, manco a dirlo, portava il tipico cappello francese, le béret.

A differenza dell’adulto dalle fattezze simili che Maia in quel momento aveva davanti, il piccolo sorrideva felice, lo sguardo rivolto all’obbiettivo e le mani spavaldamente infilate dentro le tasche.

Sull’angolo destro dell’istantanea, redatta a penna con caratteri morbidi ed eleganti, stava la dicitura: Le petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969.





Note dell'autore 

Bentrovati!

Come certo avrà notato chi era passato di qui già in precedenza, il capitolo è stato completamente stravolto rispetto al suo originale. Vi riassumo le principali divergenze, per sommi capi:

- ho riportato la dimensione spaziale entro i piani canonici, ricomprendenti Rodorio, il negozio di fiori e quant'altro (non mi dilungo, i dettagli li conoscete meglio di me);

- Maia non frequenta la facoltà di Lettere, ma quella di Medicina: mi è sembrato un mezzo più efficace a giustificare la sua presenza al Santuario (anche se la faccenda delle famiglie custodi, ampiamente spiegata al capitolo 6, rimane ferma);

- in questa versione Maia vive con la nonna materna perché i suoi genitori sono morti (in missione per conto del Santuario, come poi si dirà);

- la faccenda della foto appare drasticamente ridimensionata. Per esigenze di copione non l'ho eliminata del tutto, ma così mi pare decisamente più plausibile e adatta al contesto, rispetto a prima.

Svolte queste (in)utili premesse, mi sembra necessario dare un inquadramento temporale più o meno preciso alle vicende.

A livello canonico, l’unica cosa sicura è che la battaglia delle Dodici Case sia da collocarsi nel 1986, e tuttavia il mese rimane incerto. Tra chi diceva “febbraio”, e chi “settembre”, io ho scelto quest’ultima opzione, onde far sì che Saori avesse almeno 13 anni. Dunque, considerando che, tra la suddetta battaglia e gli eventi ad essa precedenti intercorre qualche mese, il presente capitolo è ambientato il 30 aprile 1986, otto giorni prima del compleanno di Al.

Adesso (sì, lo so, ho rotto), qualche precisazione più specifica:

- il Nikaia è l'ospedale più grande di Atene ed è sito nell'omonimo quartiere popolare, vicino al porto del Pireo (il quale, nella mia storia, è la zona di Atene più prossima a Rodorio e al Santuario). Nel 2011 è tristemente assurto a simbolo della crisi greca per casi eclatanti di malasanità e corruzione, ma questo non ha a che fare con Sorella Morte;

- Albert Camus, nato a Dréan – sulla costa orientale dell'Algeria –, è stato scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, giornalista ed attivista politico francese; quelle da me citate sono solo alcune delle sue opere più famose;

- Il basco, in Francia, è generalmente indicato col termine "béret" (o "berret");

- "Le petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969." : "Il piccolo Didier ai giardini del Lussemburgo, Parigi, giugno 1969". I giardini del Lussemburgo sono i giardini pubblici antistanti al Palazzo del Lussemburgo, che ospita la sede del Senato francese.

   
 
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