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Autore: Neeva    07/05/2006    2 recensioni
Fanfiction classificatasi al 2° posto nella 15° Edizione del Concorso di EFP ("Fanfic sulle celebrità").
"Avrà mai letto di me sui giornali, visto qualche film in cui ho recitato? Seguito da lontano la mia crescita non soltanto artistica? Oppure i ricordi sono legati anche per lui a degli scatti ingialliti dal tempo?".
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Elijah Wood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ Capitolo otto ~

 

~ Capitolo otto ~

Pale Blue Eyes

 

Posto il penultimo capitolo con un altro ritardo dei miei. Scusatemi :( Purtroppo la vita reale incombe e ho dovuto lavorare e spostarmi in diecimila posti. La ff non era sul mio portatile e quindi non ho potuto aggiornare come avrei voluto.

Ringrazio di nuovo tutte per i commenti e le e-mail (cercherò di rispondere a tutte quanto prima).

:)

 

Quando riapro di nuovo gli occhi, faccio un po’ a fatica a capire dove sono. Istintivamente mi sarei aspettato di vedere tutt’intorno delle pareti bianche e spoglie ed accanto a me un letto vuoto, invece tutt’altro ambiente mi circonda. Pareti color crema, sulle quali spiccano acquerelli di buona fattura, credenze tirate a lucido sulle quali sono poggiate diverse cornici e vasi di fiori freschi, un camino imponente in un angolo, un’ampia finestra che dà su un giardino e dalla quale filtra la luce chiara del mattino.

 

Sono le 10.

 

Mi giro sbadigliando sul divano gigante e morbido che ha funto da letto per le mie ossa doloranti. Mi stringo addosso la coperta che qualcuno mi ha steso sopra con affetto o mosso dalla pietà, non saprei, e cerco di riprendere contatto con la realtà. Sono a casa, o meglio nel salotto di mia madre.

 

Ieri sera sono crollato senza che me ne accorgessi. Ho aspettato che Hannah tirasse fuori dal forno il suo capolavoro culinario, per assaggiarlo e chiacchierare un po’ con loro, tra una presa in giro ed un’altra.

Ho rifiutato la cena, sentendomi effettivamente sazio, nonostante non avessi fatto nessun pasto propriamente detto nelle precedenti sedici ore e, lasciandole alle prese con la preparazione del loro pollo con patate, sono andato appunto in soggiorno, sdraiandomi sul divano e dando un’occhiata alla televisione, senza troppa attenzione.

 

Devo aver fumato un paio di sigarette, prima di rannicchiarmi su un lato e cedere all’invito del sonno, le palpebre pesantissime e i rumori in casa che divenivano sempre più sfumati alle mie orecchie.

Non credo di aver sognato nulla.

O almeno nulla che ricordi.

Gli esperti dicono che si sogna sempre qualcosa, anche se poi al mattino si ha l’impressione contraria.

 

Deb e Hannah non mi hanno bombardato di domande. Almeno da Han mi sarei aspettata una battuta sul fatto che sono tornato subito a casa dopo la sua minaccia telefonica, ma nulla del genere. Ho come l’impressione che già sappiano e al contempo non sappiano però che approccio fare, oppure è stata la mia faccia a scoraggiarle, parlando per me. E' evidente che non sia andato in nessuna località tropicale. Di abbronzatura nemmeno l’ombra, piuttosto un pallore che non ha nulla che vedere con la carnagione chiara che ho dalla nascita.

 

Metto i piedi a terra, sentendo il tessuto ruvido dei jeans un po’ come insopportabile a questo punto. Sono un modello comodo, ma dormirci non è stato proprio l’ideale. Ho anche indosso la maglietta di Marti e la felpa. Qualcuno mi ha invece tolto le scarpe. Non ricordo di essere stato io.

 

Soffocando uno sbadiglio, mi stiracchio un po’ la schiena anchilosata e dopo essermi passato le mani sul volto, come a ricomporre in maniera più armoniosa e meno disastrata i lineamenti che mi ritrovo, mi alzo.

 

I passi sono pressoché felpati per via dei calzini e mi piace sentire il fresco del marmo sotto i piedi.

 

È solo adesso che mi accorgo della musica che c’è in giro per casa. Tenuta troppo bassa per provenire dallo stereo di Hannah, comunque. Le possibilità si riducono allora solo ad una seconda possibilità. Inequivocabile. Vorrei davvero fare una classifica e vedere quante madri al mondo sono amanti dei White Stripes e ascoltano regolarmente i loro CD al mattino.

 

Beh, la mia fa parte di questa categoria.

Che figata è?

Mi dico soffocando un sorriso ed affacciandomi in cucina.

 

Debbie è lì, canticchiando tra sé e sé la canzone che sta andando, seduta su uno degli sgabelli in cucina, l'attenzione concentrata nella lettura di un catalogo di vendite per corrispondenza, mi sembra di capire.

 

Morning”, la saluto.

 

Lijah… ben alzato”, mi risponde sorridendomi allegra, il volto pieno di calore. Se ha notato lo stato disastroso nel quale mi trovo, non ha fatto nulla per palesarlo. Anzi, mette di fianco il giornale e mi invita a sedermi lì accanto. “Ti ho svegliato?”, chiede quando le sono vicino, riferendosi alla musica.

 

“No… Mi piacciono i tuoi gusti”, le dico con un sorriso divertito sulle labbra. "E poi mi andava di pulire il pavimento", scherzo vedendola abbassare la testa in direzione dei miei piedi.

 

"Molto gentile, dolcezza", anche lei sorride di nuovo, aspettandosi la solita lamentela sui nomignoli, prima di domandarmi se ho dormito bene. Faccio, infatti, una smorfia eloquente prima di risponderle. “Mmh…”, cerco di spiegarmi. “Ho dormito come un sasso, ma non mi sento proprio riposato”.

 

Che ne dici di qualcosa da mangiare?”.

 

“Sì… ho fame”. È vero, sento lo stomaco vuoto ed ho voglia di fare colazione.

 

“D’accordo”, si alza lei. “Preparo io”, mi dice mettendo a tacere sul nascere le mie proteste. Non mi va che si sbatta per me. Posso prepararla anche io la colazione, ma lei è irremovibile. “Andiamo, Lij, lo sai che mi piace fare la parte della chioccia, non vorrai privarmi di questo piacere?”, mi chiede con un sorriso tra lo zuccheroso e l’ironico, che mi fa scuotere la testa.

 

“Certo che no…”, la prendo in giro allora, alzandomi e dandole un bacio su una guancia. “Grazie…”, aggiungo serio, rispecchiandomi nei suoi occhi altrettanto inquisitori all’improvviso. È uno sguardo che mi mette a disagio. È un po' come se fossi nudo di fronte a lei e, nonostante sia mia madre, non mi sento esattamente rilassato.

 

Deve capirlo, perché mi sorride di nuovo solare. “Che ne dici di fare colazione in veranda? C’è un bel sole. Ti porto qualcosa fuori”.

 

Mi sembra un’ottima idea. Infatti, annuisco per poi uscire dalla cucina e raggiungere il retro della casa. Un angolo che mi piace moltissimo, praticamente con la spiaggia a meno di venti metri e un primo piano dell’oceano che toglie il fiato per come si estende vasto e apparentemente senza frontiere. L’isola di Catalina e quella di San Clemente sono un po’ più a sud, all’altezza di San Diego e non visibili da qui. Sarebbero le uniche porzioni di terra a poter interrompere idealmente da qui l’estensione dell’Oceano Pacifico.

 

Le acque sono sfumate, una massa di colori brillanti che si amalgamo su un nastro di azzurro liquido. Rimango in piedi con le mani appoggiate sulla ringhiera che separa il portico-veranda dalla spiaggia vera e propria. Trovo in tasca un pacchetto di sigarette, piuttosto provate dalla notte sul divano, eppure miracolosamente intere. È così che me ne accendo una, avvertendo il calore del sole inondarmi il volto e fissando lo sguardo sull’orizzonte e sul lembo di spiaggia deserto, a mo' di lucertola.

 

Mi volto dopo un po' per sedermi sul divanetto di vimini, imbottito con dei cuscini azzurri, senza pensare a nulla in maniera particolare. Mia madre spunta dalla porta finestra con in mano un vassoio.

 

Eccoci qui, kiddo”, annuncia continuando a fare la chioccia.

 

“Hai cucinato per un esercito”, mi forzo a sorridere, appoggiando il vassoio che mi porge sul tavolinetto anch’esso di vimini.

 

“Sei sempre stato un foodie, o no?”, mi prende in giro lei.

 

Annuisco solo, addentando una brioche appena sfornata dal microonde.

 

“Appunto”, si auto-risponde lei, vedendomi mangiare con quella fame. “Inoltre non hai proprio un aspetto riposato, Lij. Faresti bene a rifocillarti e... uh… ad iniziare da capo”.

 

L’ultima osservazione rende difficile mandare giù il sorso di spremuta d’arancia che sto bevendo. Di colpo mi sembra di avere davanti davvero un quintale di cibo e la nausea mi assale. Deglutisco malamente, sentendo le lacrime bruciarmi come acido gli angoli degli occhi. Quel suo iniziare da capo, è dovuto ad un riferimento tanto preciso quanto tacito. Mi sento come in una teca di vetro. All’improvviso vedo tutto come filtrato dal vetro e i rumori sono attutiti, come se qualcuno avesse abbassato di colpo il volume.

 

Lo stesso volto di mia madre torna a mettermi a disagio, ma cerco di far finta di nulla e prendo una fragola dalla ciotola che ho di fronte. Inevitabilmente però abbasso lo sguardo, cercando di riguadagnare il mio autocontrollo.

 

Sento Debbie sospirare e, anziché sedere sulla poltrona come mi aspettavo, la vedo con la coda dell’occhio rientrare in casa. Le sono grato per questo tatto, ma prima o poi dovrò gettare fuori il rospo che ho ingoiato. Meglio il prima possibile a questo punto. Continuo a mangiare per inerzia, spazzolando anche buona parte dei pancakes e tutto il mug di caffè ormai tiepido, senza sentirmi però per niente meglio.

 

Lij, sto uscendo”.

 

Sollevo il volto in sua direzione, annuendo. “Hannah?”, chiedo non vedendo mia sorella a far chiasso in giro.

 

“E’ uscita con Jack, credo…”.

 

Jack Osbourne?”.

 

“Suppongo di sì. Andavano in centro a comprare delle iguane, se non sbaglio”.

 

“Iguane?”.

 

Mia madre sorride di fronte al mio sconcerto. L’idea di una lucertola gigante in casa non mi esalta per niente.

 

“Non Han”, mi spiega. “E' Jack che ne vuole una”.

 

Ok. Questo è già più chiaro. Gli Osbourne sono eccentrici al punto giusto per questo tipo di fantasie. Nessuna sorpresa dunque se oltre a dieci cani che girano per casa, vogliano aggiungerci anche qualche malcapitato animale esotico.

 

“Ci vediamo… tra un po’ allora”, aggiunge lei, titubando.

 

Faccio un cenno affermativo con la testa, senza guardarla direttamente, ostinandomi a fissare il piatto prima colmo di pancakes.

 

Lij…?”.

 

Sento la sua voce ricca di preoccupazione e mi fa sentire un idiota. Insomma, non voglio che stia anche lei male anche lei. Ma perché accidenti non sono nella dependance, anziché infestare le ore altrimenti tranquille delle altre persone?

 

Il tintinnio delle chiavi dell’auto poggiate sul tavolinetto, mi indicano che mi si è seduta accanto.

 

“Va tutto bene, Mom. Davvero”, tiro fuori, senza nessuna convinzione.

 

“Non sono stupida, Elijah”, mi risponde lei con un'inflessione di severa riprovazione nella voce.

 

Ha ragione.

Chi diavolo voglio prendere in giro?

Faccio meglio a dirle di non aver voglia di parlarne anziché arrampicarmi sugli specchi.

Ma forse voglio parlarne.

Paradossalmente.

Essere patetico che sono.

 

Anche se non voglio obbligarti a parlare, se non ti va”, sento che aggiunge, con una nota di tristezza evidente tra le sue parole e confermata dallo sguardo che incrocio voltando il viso verso di lei.

 

Riesco a sostenerlo per un po’ e poi nego con la testa. “Ho voglia di parlarne invece… ma non so da dove cominciare”, mi stringo nelle spalle, mentre un brivido mi attraversa la schiena, testimoniando il mio disagio.

 

Lei rimane un po’ in silenzio, per poi sospirare ed aiutarmi a suo modo, andando diretta al punto. “Perché sei andato a Cedar?”.

 

“Non lo so…”.

 

Debbie annuisce, mostrandomi la sua solita comprensione.

 

“E’ stato un impulso… che ho seguito. Non credo ci fosse una motivazione vera e propria dietro. O almeno non sono riuscito ancora a venirne a capo…”.

 

“Com’è andata?”.

 

“Non peggio del solito… ma era da tantissimo che non vivevo tanta contraddizione. Continui cambiamenti di punti di vista e di sentimenti, voglio dire…”.

 

“Avete litigato?”.

 

Più o meno, ma solo gli ultimi due giorni. Abbiamo alzato la voce, ma non ci siamo accusati di nulla in concreto, né ci siamo detti di odiarci o di andarcene al diavolo. La solita…”, mi interrompo, perché risulta penoso dire quella parola, indifferenza, riesco a completare, forzandomi.

 

Mia madre sospira ancora, come se stesse trovando le parole adatte a rispondermi. È troppo sincera per mentirmi o per rassicurami circa il comportamento standard di mio padre. E io non mi aspetto che lo faccia. Odio chi cerca di banalizzare gli eventi con delle frasi retoriche. Rimane quindi in silenzio, continuando a guardarmi dispiaciuta per non riuscire a sollevarmi il morale.

 

“Non voglio che tu pensi che sia andato a Cedar perché senta la sua mancanza, mamma. O far intendere che tu non mi abbia amato abbastanza… non è mai stato così. Tutto il contrario, te lo assicuro. È solo che non riesco a capire perché si comporti così, è la sua indifferenza che mi ferisce non la sua non presenza. Io e te abbiamo vissuto sedici mesi lontani quando ero in Nuova Zelanda, eppure ho avvertito il fatto che tu ci fossi, sempre, sebbene solo dall’altro lato del telefono e non accanto a me fisicamente. Parlo di interesse ed affetto, non di chilometri vicino o lontano”.

 

Debbie annuisce comprendendo quello che voglio dire. Il fatto che non abbia dato un’interpretazione sbagliata al mio ritorno a Cedar è quasi un sollievo. L’idea che avrei potuto ferirla in qualche modo non mi aveva sfiorato nemmeno per un attimo, così preso a non rispondere ai suoi tentativi di comunicazione come ero.

 

Da perfetto coglione, mi accorgo solo ora che devo averle fatte preoccupare e adesso, ancora di più, facendomi beccare in questo stato fisico, ma soprattutto emotivo, prossimo al collasso. È ovvio che abbiano capito dove diavolo sia andato a finire. Tutto quel voler nascondere è risultato più eloquente di ogni possibile spiegazione.

 

“Ero inquieta. Pensavo che fosse successo qualcosa di… peggiore”, risponde a questo punto lei, come dosando le parole.

 

Avrei quasi voluto fosse stato così. Almeno ci sarebbe stato un distacco netto. La situazione rimane invece pressoché immutata e molto più difficile a sostenersi”, dico, portandomi una mano alla bocca, pronto a distruggere quel mezzo centimetro di unghia che è ancora su ogni dito.

 

Lijah…”, mi richiama lei indicandomi con un gesto del capo quello che sto facendo. Non riesco però a smettere e devo mostrare una qualche espressione particolarmente disperata, senza che lo voglia davvero, perché vedo che il suo sorriso di ammonimento, volto a prendermi in giro bonariamente, scompare lasciando il posto ad una maschera di preoccupazione ed amarezza. “Lij…”, ripete abbracciandomi stretto, senza che mi renda conto di aver ricambiato a mia volta, appoggiando la fronte sulla sua spalla e lasciando che mi accarezzi la schiena come è solita fare quando io e Hannah crolliamo miseramente davanti a lei, necessitando il suo sostegno.

 

Mi sento come un ragazzino di cinque anni alle prese con una qualche delusione che sembra insormontabile, ma quel cullarmi affettuoso e silenzioso, mi permette di controllare quella valanga di emotività che tentava di venire fuori sotto forma di lacrime di delusione che riesco così a cacciare indietro, nascondendo quelle che nell’ultimo minuto avevano reso la mia vista sfocata e tremolante.

 

Sento la sua tempia premuta contro la mia testa e il suo respiro ronzarmi dolcemente vicino l'orecchio. Non so come ci riesca, ma aiuta a calmarmi, come il ritmico modulare di una qualche ninnananna. Quei respiri regolari… rilassati e sereni.

 

Mi sono sentito spesse volte chiedere perché vivessi ancora a Los Angeles con lei o quantomeno così vicino a lei. Ed io mi sono sempre chiesto di rimando, perché me lo chiedessero oppure che diavolo ci fosse di strano. Forse lo è visto dall’esterno, ma lei ed Han sono la mia vera famiglia, le persone con cui sono cresciuto giorno dopo giorno. L’esperienza dell’appartamento a NYC è stato un mezzo fallimento, visto che stavo pagando solo l’affitto senza viverci davvero, ma non posso farci nulla se per via del mio lavoro la California risulta molto più centrale del New Jersey. Sono stato preso in giro da Jay perché è lei ad occuparsi ancora delle mie lavatrici e altre situazioni da sit-com simili, ma ci ho riso su anche io. Lo so che è patetico da un certo punto di vista, per via delle battute sul porn and chocolate oppure di nuovo sulla biancheria, quando mi sono sentito chiedere se avessi riportato a casa un carico per la lavatrice equivalente a sedici mesi di abiti smessi e in attesa di essere lavati, ma so con certezza che nessun'altra persona in questo momento avrebbe potuto capirmi così al volo, senza troppi giri di parole. Di solito lo fanno anche i miei migliori amici, ma questa è una questione troppo privata, della quale parlo rarissimamente. Ho bisogno di lei in una parola. Ed eccola qui a prendersi cura di me.

 

“Vuoi che ti prepari un bagno?”, mi chiede scompigliandomi i capelli e sollevandomi il volto per guardarmi direttamente. C’è ancora qualche traccia umida sulle mie guance, che provvede ad asciugare con le mani, senza accennarvi minimamente.

 

“No”, nego grato per quella sua discrezione. “Tornerò nella guest-house e mi farò una doccia lì”.

 

“Come vuoi”, annuisce allora sorridendomi dolce e stampandomi in bacio sulla fronte. “Io esco", mi annuncia, come chiedendomi se voglio che rimanga ancora qui con me.

 

Mi dico che è meglio che inizi di nuovo da capo, come mi ha suggerito lei in precedenza e cerco di scrollarmi addosso il torpore, organizzando mentalmente le prossime ore. Annuisco allora, prendendo in mano il vassoio e riportandolo in cucina, per poi seguirla fuori casa, prendere la valigia che era ancora in macchina ed entrare nel mio appartamento.

  
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