~ Capitolo otto ~
Pale Blue
Eyes
Posto il penultimo capitolo con un altro ritardo
dei miei. Scusatemi :( Purtroppo la vita reale incombe
e ho dovuto lavorare e spostarmi in diecimila posti. La ff
non era sul mio portatile e quindi non ho potuto aggiornare come avrei voluto.
Ringrazio di nuovo tutte per i commenti e le
e-mail (cercherò di rispondere a tutte quanto prima).
:)
Quando
riapro di nuovo gli occhi, faccio un po’ a fatica a capire dove sono.
Istintivamente mi sarei aspettato di vedere tutt’intorno
delle pareti bianche e spoglie ed accanto a me un letto vuoto, invece tutt’altro ambiente mi circonda. Pareti color crema, sulle quali spiccano acquerelli di buona
fattura, credenze tirate a lucido sulle quali sono poggiate diverse cornici e
vasi di fiori freschi, un camino imponente in un angolo, un’ampia finestra che
dà su un giardino e dalla quale filtra la luce chiara del mattino.
Sono le 10.
Mi giro sbadigliando
sul divano gigante e morbido che ha funto da letto per le mie ossa doloranti.
Mi stringo addosso la coperta che qualcuno mi ha steso
sopra con affetto o mosso dalla pietà, non saprei, e cerco di riprendere
contatto con la realtà. Sono a casa, o meglio nel salotto di mia madre.
Ieri sera sono
crollato senza che me ne accorgessi. Ho aspettato che Hannah tirasse fuori dal forno il
suo capolavoro culinario, per assaggiarlo e chiacchierare un po’ con loro, tra
una presa in giro ed un’altra.
Ho rifiutato la cena,
sentendomi effettivamente sazio, nonostante non avessi fatto
nessun pasto propriamente detto nelle precedenti sedici ore e, lasciandole alle
prese con la preparazione del loro pollo con patate, sono andato appunto in
soggiorno, sdraiandomi sul divano e dando un’occhiata alla televisione, senza
troppa attenzione.
Devo aver fumato un
paio di sigarette, prima di rannicchiarmi su un lato e cedere all’invito del
sonno, le palpebre pesantissime e i rumori in casa che divenivano sempre più
sfumati alle mie orecchie.
Non credo di aver
sognato nulla.
O
almeno nulla che ricordi.
Gli esperti dicono che si sogna sempre qualcosa, anche se poi al mattino
si ha l’impressione contraria.
Deb e Hannah non mi hanno bombardato di
domande. Almeno da Han mi sarei aspettata una battuta
sul fatto che sono tornato subito a casa dopo la sua minaccia telefonica, ma
nulla del genere. Ho come l’impressione che già sappiano
e al contempo non sappiano però che approccio fare, oppure è stata la mia
faccia a scoraggiarle, parlando per me. E' evidente che non sia andato in
nessuna località tropicale. Di abbronzatura nemmeno
l’ombra, piuttosto un pallore che non ha nulla che vedere con la carnagione
chiara che ho dalla nascita.
Metto i piedi a
terra, sentendo il tessuto ruvido dei jeans un po’
come insopportabile a questo punto. Sono un modello comodo, ma dormirci non è
stato proprio l’ideale. Ho anche indosso la maglietta di Marti e la felpa.
Qualcuno mi ha invece tolto le scarpe. Non ricordo di essere stato io.
Soffocando
uno sbadiglio, mi stiracchio un po’ la schiena anchilosata e dopo essermi
passato le mani sul volto, come a ricomporre in maniera più armoniosa e meno
disastrata i lineamenti che mi ritrovo, mi alzo.
I passi sono
pressoché felpati per via dei calzini e mi piace sentire il fresco del marmo
sotto i piedi.
È solo adesso che mi
accorgo della musica che c’è in giro per casa. Tenuta troppo bassa per provenire dallo stereo di Hannah,
comunque. Le possibilità si riducono allora solo ad una seconda possibilità.
Inequivocabile. Vorrei davvero fare una classifica e vedere quante madri al
mondo sono amanti dei White Stripes
e ascoltano regolarmente i loro CD al mattino.
Beh, la mia fa parte
di questa categoria.
Che
figata è?
Mi dico soffocando un
sorriso ed affacciandomi in cucina.
Debbie
è lì, canticchiando tra sé e sé la canzone che sta andando, seduta su uno degli
sgabelli in cucina, l'attenzione concentrata nella lettura di un catalogo di
vendite per corrispondenza, mi sembra di capire.
“Morning”,
la saluto.
“Lijah…
ben alzato”, mi risponde sorridendomi allegra, il volto pieno di calore. Se ha notato lo stato disastroso nel quale mi trovo, non ha
fatto nulla per palesarlo. Anzi, mette di fianco il giornale e mi invita a sedermi lì accanto. “Ti ho svegliato?”, chiede quando le sono vicino, riferendosi alla musica.
“No… Mi piacciono i
tuoi gusti”, le dico con un sorriso divertito sulle labbra. "E poi mi andava di pulire il pavimento", scherzo
vedendola abbassare la testa in direzione dei miei piedi.
"Molto gentile,
dolcezza", anche lei sorride di nuovo, aspettandosi la solita lamentela
sui nomignoli, prima di domandarmi se ho dormito bene. Faccio, infatti, una
smorfia eloquente prima di risponderle. “Mmh…”, cerco
di spiegarmi. “Ho dormito come un sasso, ma non mi sento proprio riposato”.
“Che
ne dici di qualcosa da mangiare?”.
“Sì… ho fame”. È
vero, sento lo stomaco vuoto ed ho voglia di fare colazione.
“D’accordo”, si alza
lei. “Preparo io”, mi dice mettendo a tacere sul
nascere le mie proteste. Non mi va che si sbatta per
me. Posso prepararla anche io la colazione, ma lei è irremovibile. “Andiamo, Lij, lo sai che mi piace fare la parte della chioccia, non
vorrai privarmi di questo piacere?”, mi chiede con un sorriso tra lo zuccheroso
e l’ironico, che mi fa scuotere la testa.
“Certo che no…”, la
prendo in giro allora, alzandomi e dandole un bacio su una guancia. “Grazie…”,
aggiungo serio, rispecchiandomi nei suoi occhi altrettanto inquisitori
all’improvviso. È uno sguardo che mi mette a disagio. È un po' come se fossi
nudo di fronte a lei e, nonostante sia mia madre, non mi sento esattamente
rilassato.
Deve capirlo, perché
mi sorride di nuovo solare. “Che ne dici di fare
colazione in veranda? C’è un bel sole. Ti porto qualcosa fuori”.
Mi sembra un’ottima
idea. Infatti, annuisco per poi uscire dalla cucina e
raggiungere il retro della casa. Un angolo che mi piace moltissimo, praticamente con la spiaggia a meno di venti metri e un
primo piano dell’oceano che toglie il fiato per come si estende vasto e
apparentemente senza frontiere. L’isola di Catalina e quella di San Clemente
sono un po’ più a sud, all’altezza di San Diego e non visibili da qui.
Sarebbero le uniche porzioni di terra a poter interrompere idealmente da qui
l’estensione dell’Oceano Pacifico.
Le acque sono
sfumate, una massa di colori brillanti che si amalgamo su un nastro di azzurro liquido. Rimango in piedi con le mani appoggiate
sulla ringhiera che separa il portico-veranda dalla spiaggia vera e propria. Trovo in tasca un pacchetto di sigarette, piuttosto provate
dalla notte sul divano, eppure miracolosamente intere. È così che me ne accendo una, avvertendo il calore del sole inondarmi il
volto e fissando lo sguardo sull’orizzonte e sul lembo di spiaggia deserto, a
mo' di lucertola.
Mi volto dopo un po'
per sedermi sul divanetto di vimini, imbottito con dei cuscini azzurri, senza
pensare a nulla in maniera particolare. Mia madre spunta dalla porta finestra con in mano un vassoio.
“Eccoci
qui, kiddo”, annuncia continuando a fare la chioccia.
“Hai cucinato per un
esercito”, mi forzo a sorridere, appoggiando il vassoio che mi porge sul tavolinetto anch’esso di vimini.
“Sei sempre stato un foodie, o no?”, mi prende in giro lei.
Annuisco solo,
addentando una brioche appena sfornata dal microonde.
“Appunto”, si auto-risponde lei, vedendomi mangiare con quella fame. “Inoltre non hai proprio un aspetto riposato, Lij. Faresti bene a rifocillarti e... uh… ad iniziare da
capo”.
L’ultima osservazione
rende difficile mandare giù il sorso di spremuta d’arancia che sto bevendo. Di
colpo mi sembra di avere davanti davvero un quintale di cibo e la nausea mi
assale. Deglutisco malamente, sentendo le lacrime
bruciarmi come acido gli angoli degli occhi. Quel suo iniziare da capo, è dovuto ad un riferimento tanto preciso quanto tacito. Mi
sento come in una teca di vetro. All’improvviso vedo tutto come filtrato dal
vetro e i rumori sono attutiti, come se qualcuno avesse abbassato di colpo il
volume.
Lo stesso volto di
mia madre torna a mettermi a disagio, ma cerco di far finta di nulla e prendo
una fragola dalla ciotola che ho di fronte. Inevitabilmente
però abbasso lo sguardo, cercando di riguadagnare il mio autocontrollo.
Sento Debbie sospirare e, anziché sedere sulla poltrona come mi aspettavo, la vedo con la coda dell’occhio rientrare in
casa. Le sono grato per questo tatto, ma prima o poi
dovrò gettare fuori il rospo che ho ingoiato. Meglio il prima possibile a
questo punto. Continuo a mangiare per inerzia, spazzolando anche buona parte
dei pancakes e tutto il mug
di caffè ormai tiepido, senza sentirmi però per
niente meglio.
“Lij,
sto uscendo”.
Sollevo il volto in
sua direzione, annuendo. “Hannah?”, chiedo non
vedendo mia sorella a far chiasso in giro.
“E’ uscita con Jack, credo…”.
“Jack
Osbourne?”.
“Suppongo di sì.
Andavano in centro a comprare delle iguane, se non sbaglio”.
“Iguane?”.
Mia madre sorride di
fronte al mio sconcerto. L’idea di
una lucertola gigante in casa non mi esalta per niente.
“Non Han”, mi spiega. “E' Jack che ne
vuole una”.
Ok.
Questo è già più chiaro. Gli Osbourne sono eccentrici
al punto giusto per questo tipo di fantasie. Nessuna sorpresa dunque se oltre a
dieci cani che girano per casa, vogliano aggiungerci anche qualche malcapitato
animale esotico.
“Ci vediamo… tra un
po’ allora”, aggiunge lei, titubando.
Faccio
un cenno affermativo con la testa, senza guardarla direttamente, ostinandomi a
fissare il piatto prima colmo di pancakes.
“Lij…?”.
Sento la sua voce
ricca di preoccupazione e mi fa sentire un idiota. Insomma, non voglio che stia
anche lei male anche lei. Ma perché accidenti non sono
nella dependance, anziché infestare le ore altrimenti tranquille delle altre
persone?
Il tintinnio delle
chiavi dell’auto poggiate sul tavolinetto, mi indicano che mi si è seduta accanto.
“Va tutto bene, Mom. Davvero”, tiro fuori, senza nessuna convinzione.
“Non sono stupida, Elijah”, mi risponde lei con un'inflessione di severa
riprovazione nella voce.
Ha ragione.
Chi diavolo voglio prendere in giro?
Faccio meglio a dirle
di non aver voglia di parlarne anziché arrampicarmi sugli specchi.
Ma
forse voglio parlarne.
Paradossalmente.
Essere
patetico che sono.
“Anche
se non voglio obbligarti a parlare, se non ti va”, sento che aggiunge, con una
nota di tristezza evidente tra le sue parole e confermata dallo sguardo che
incrocio voltando il viso verso di lei.
Riesco a sostenerlo
per un po’ e poi nego con la testa. “Ho voglia di parlarne invece…
ma non so da dove cominciare”, mi stringo nelle spalle, mentre un
brivido mi attraversa la schiena, testimoniando il mio disagio.
Lei rimane un po’ in
silenzio, per poi sospirare ed aiutarmi a suo modo, andando diretta al punto. “Perché sei andato a Cedar?”.
“Non lo so…”.
Debbie
annuisce, mostrandomi la sua solita comprensione.
“E’ stato un impulso…
che ho seguito. Non credo ci fosse una motivazione
vera e propria dietro. O almeno non sono riuscito
ancora a venirne a capo…”.
“Com’è andata?”.
“Non peggio del
solito… ma era da tantissimo che non vivevo tanta contraddizione. Continui cambiamenti di punti di vista e di sentimenti, voglio
dire…”.
“Avete litigato?”.
“Più
o meno, ma solo gli ultimi due giorni. Abbiamo alzato la voce, ma non ci
siamo accusati di nulla in concreto, né ci siamo detti di odiarci o di
andarcene al diavolo. La solita…”, mi interrompo,
perché risulta penoso dire quella parola, indifferenza, riesco a completare,
forzandomi.
Mia madre sospira
ancora, come se stesse trovando le parole adatte a rispondermi. È troppo
sincera per mentirmi o per rassicurami circa il
comportamento standard di mio padre. E io non mi
aspetto che lo faccia. Odio chi cerca di banalizzare gli eventi con delle frasi
retoriche. Rimane quindi in silenzio, continuando a guardarmi dispiaciuta per
non riuscire a sollevarmi il morale.
“Non voglio che tu
pensi che sia andato a Cedar perché senta la sua
mancanza, mamma. O far intendere che tu non mi abbia
amato abbastanza… non è mai stato così. Tutto il contrario, te lo assicuro. È
solo che non riesco a capire perché si comporti così, è la sua indifferenza che
mi ferisce non la sua non presenza. Io e te abbiamo
vissuto sedici mesi lontani quando ero in Nuova Zelanda, eppure ho avvertito il
fatto che tu ci fossi, sempre, sebbene solo dall’altro lato del telefono e non
accanto a me fisicamente. Parlo di interesse ed
affetto, non di chilometri vicino o lontano”.
Debbie
annuisce comprendendo quello che voglio dire. Il fatto che non abbia dato
un’interpretazione sbagliata al mio ritorno a Cedar è quasi un sollievo. L’idea che avrei potuto
ferirla in qualche modo non mi aveva sfiorato nemmeno
per un attimo, così preso a non rispondere ai suoi tentativi di comunicazione
come ero.
Da perfetto coglione, mi accorgo solo ora che devo averle fatte
preoccupare e adesso, ancora di più, facendomi beccare in questo stato fisico,
ma soprattutto emotivo, prossimo al collasso. È ovvio che abbiano capito dove
diavolo sia andato a finire. Tutto quel voler nascondere è risultato
più eloquente di ogni possibile spiegazione.
“Ero inquieta.
Pensavo che fosse successo qualcosa di… peggiore”, risponde
a questo punto lei, come dosando le parole.
“Avrei
quasi voluto fosse stato così. Almeno ci sarebbe stato un distacco
netto. La situazione rimane invece pressoché immutata e molto
più difficile a sostenersi”, dico, portandomi una mano alla bocca,
pronto a distruggere quel mezzo centimetro di unghia che è ancora su ogni dito.
“Lijah…”,
mi richiama lei indicandomi con un gesto del capo quello che sto facendo. Non
riesco però a smettere e devo mostrare una qualche espressione particolarmente
disperata, senza che lo voglia davvero, perché vedo che il suo sorriso di ammonimento, volto a prendermi in giro bonariamente,
scompare lasciando il posto ad una maschera di preoccupazione ed amarezza. “Lij…”, ripete abbracciandomi stretto, senza che mi renda
conto di aver ricambiato a mia volta, appoggiando la fronte sulla sua spalla e
lasciando che mi accarezzi la schiena come è solita
fare quando io e Hannah crolliamo miseramente davanti
a lei, necessitando il suo sostegno.
Mi sento come un
ragazzino di cinque anni alle prese con una qualche delusione che sembra
insormontabile, ma quel cullarmi affettuoso e silenzioso, mi permette di
controllare quella valanga di emotività che tentava di
venire fuori sotto forma di lacrime di delusione che riesco così a cacciare
indietro, nascondendo quelle che nell’ultimo minuto avevano reso la mia vista
sfocata e tremolante.
Sento la sua tempia
premuta contro la mia testa e il suo respiro ronzarmi dolcemente vicino
l'orecchio. Non so come ci riesca, ma aiuta a calmarmi, come il ritmico
modulare di una qualche ninnananna. Quei respiri regolari… rilassati e sereni.
Mi sono sentito
spesse volte chiedere perché vivessi ancora a Los Angeles con lei o quantomeno
così vicino a lei. Ed io mi sono sempre chiesto di
rimando, perché me lo chiedessero oppure che diavolo ci fosse di strano. Forse
lo è visto dall’esterno, ma lei ed Han sono la mia
vera famiglia, le persone con cui sono cresciuto
giorno dopo giorno. L’esperienza dell’appartamento a NYC è stato un mezzo
fallimento, visto che stavo pagando solo l’affitto senza viverci davvero, ma
non posso farci nulla se per via del mio lavoro
“Vuoi che ti prepari
un bagno?”, mi chiede scompigliandomi i capelli e sollevandomi il volto per
guardarmi direttamente. C’è ancora qualche traccia umida sulle mie guance, che provvede ad asciugare con le mani, senza accennarvi
minimamente.
“No”, nego grato per
quella sua discrezione. “Tornerò nella guest-house e mi farò una doccia lì”.
“Come vuoi”, annuisce
allora sorridendomi dolce e stampandomi in bacio sulla fronte. “Io esco",
mi annuncia, come chiedendomi se voglio che rimanga ancora qui con me.
Mi dico
che è meglio che inizi di nuovo da capo, come mi ha suggerito lei in precedenza
e cerco di scrollarmi addosso il torpore, organizzando mentalmente le prossime
ore. Annuisco allora, prendendo in mano il vassoio e riportandolo in cucina,
per poi seguirla fuori casa, prendere la valigia che era ancora in macchina ed
entrare nel mio appartamento.