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Autore: Natalja_Aljona    07/09/2011    1 recensioni
S'aggrappò con tutte le forze alla sua stella, Aiace.
Quella stella non sarebbe riuscito a farla cadere.
Proprio come era successo a suo padre.
"Ehi, papà, quella ragazza gentile...è tornata alle stelle?" gli aveva gridato dietro, costringendolo a voltarsi, a guardarlo, ad abbassare gli occhi subito dopo.
"Aiace, lei...lei era Lachesi. La Fatalità".
Possibile seguito di "Sic Volvere Parcas".
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Tre

Parte Prima

Fumo negli occhi


Occhi di ragazza

Quanto male vi farete perdonare

L’acqua di una lacrima d’addio

Sarà l’ultimo regalo

Che da voi riceverò

(Occhi di ragazza, Gianni Morandi)


-Dici che sono abbastanza spettinato?-

Dimokratìa Dounas scrutò con attenzione gli occhioni scintillanti di Aiace, le sue dita incrociate.

-Oh, tuo padre lo era molto di più-

-Tuo padre aveva tuuutte le ragazze di Spárti ai suoi piedi- specificò George, con un vago gesto della mano.

Il piccolo sussultò.

-Eri tanto bello?-

-Il terreno era dissestato- precisò Tìa, impietosa -E poiché tuo padre era costantamente tra i piedi...beh, Telamonio, fa un po' tu!-

-Dim!-

Dimokratìa assottigliò gli occhi, assumendo l'esatta espressione di uno degli uccelli di Stinfalo che avevano dato, a loro tempo, un discreto filo da torcere a Giasone.

-Dim a chi?-

Aiace socchiuse gli occhi, congiungendo le mani a mo' di preghiera.

-Non fargli troppo male...-

-Manco lo sfioro, pollastro!- lo rassicurò Tìa, ridendo di gusto -Gli morderei un orecchio, ma mi trattengo-

George si prese un orecchio tra le dita, sorridendole, sfacciato.

-Graaazie!-

-Il suo scriccioletto russo, invece, un orecchio gliel'ha morso veramente, una volta...- seguitò a raccontare Dim ad Aiace, che pendeva letteralmente dalle sue labbra.

-Era mitica, la piccola Lys- convenne George, con quell'aria un poco sognante ch'era l'ombra di quell'amore che gli aveva graffiato il cuore da ragazzino e continuava, all'alba dei suoi ventun anni, a consumarlo piano, quell'amore che sarebbe tornato, forse, se Dio voleva.

Dimokratìa strinse con forza la mano dell'amico, lesse le mille domande negli occhi di Aiace e sorrise, almeno lui non doveva soffrire.

Di una cosa era certa, però.

Lui non ci credeva, lui non ci sperava più.

L'aveva sognato troppo, quel momento.

Ma lei...lei lo sapeva.

-Tornerà-


Ci fosse lei, ci fosse lei

Se Dio volesse, se tornasse casomai

(Ci fosse lei, Claudio Baglioni)


-Era assurda, lei-

Sorrise amaramente, George.

-L'unica, Dio, l'unica al mondo che poteva domandarmi, quando le ho chiesto di sposarmi per l'ultima volta, con quella sua voce sempre un po' scherzosa e quel sorriso ingannatore e troppo furbo, da incantatrice: "ed io che cosa ci guadagno?"-


Per diventare mia

Mi hai chiesto con poesia

Ma in cambio che mi dai?

In cambio che mi dai?

In cambio che mi dai?

Ti porto via

(In cambio che mi dai, Gianni Morandi)


L'avrebbe portata a Sparta, lui, sul suo Taigeto, sotto le stelle che non erano cadute per lui, davanti all'Egeo a perdita d'occhio a perdersi negli occhi, ma lei tremava, lei non osava, lei la sua Russia non l'avrebbe lasciata mai.

-Strappa il cuore, quel mondo, ma in quelle steppe c'è tutto, nella neve il mio sangue, in quel cielo il colore degli occhi, in quel quartiere l'infanzia, in quegli occhi il futuro, e non posso, non posso, mi capisci, tu?-

Le sue parole, la sua voce.

E quegli occhi troppo belli, imploranti, le sue suppliche gentili di lasciarla andare e lui che aveva ceduto, lui, lui che l'amava troppo per negarglielo, lui...

E se non l'avesse capita, forse, se avesse saputo fingere di non capirla, avrebbe potuto odiarla, sarebbe riuscito ad odiarla.

Forse.

Dio, che luoghi comuni da manco un quarto di dracma!

Non l'aveva saputa vivere, quella vita, quella vita con lei.

Non l'aveva saputa vivere, quella ragazzina, quel sogno, quel pulcino troppo coraggioso, troppo ardito, troppo per lui, eppure suo...

E gli aveva fatto promettere il cielo ed ogni sua curva, l'orizzonte ed ogni sua linea, la luce ed ogni suo raggio, l'Iliade ed ogni sua pagina, la sua vita ed ogni suo battito, lei...

E lui le aveva promesso tutto, e poi, e poi...



Mi porti via e poi

In cambio che mi dai?

In cambio che mi dai?

La mia allegria

(In cambio che mi dai, Gianni Morandi)


L'adorava, la sua fiammiferaia d'altro mare, quel modo di fare che aveva lui, sempre allegro, sempre folle, come se il mondo intero stesso inseguendo proprio lui, e glielo diceva, quando poteva, quando non aveva paura, quando ci riusciva, quando lui coi suoi occhi non l'incantava, e gli diceva quanto amava quell'allegria, sempre fuori luogo, sempre meravigliosa, ed era sempre sicura, sicura che lui, fosse stato in un altro mondo, fosse caduto in un'altra vita, quell'allegria non l'avrebbe persa mai.

-Non lo so cos'hai dentro, quando ridi, quando scherzi, quando mi guardi e non parli, ma sorridi e tieni il cielo, tutto il cielo, in una mano. Ma come fai, come fai, tu, a ridere e avere il mondo in quelle mani, quelle mani che io stringo, ma il mondo ce l'hai sempre tu-

E se non avesse ricordato quelle parole, se non ne avesse amato l'inflessione della voce, il tono un po' distratto ma dolcissimo e ormai lontano, forse...Dio lo sapeva, solo Dio, cos'avrebbe fatto lui, quanto male avrebbe sentito lui, se non le avesse ricordate, se non avesse avuto dentro quel suono...

Maledettamente lontano, e lontana lei, e ora era morta, quell'allegria, piano piano, col sonno dei due anni ch'erano passati, e ormai non bastava più, ma poi, poi...


La tua allegria e poi?

In cambio che mi dai?

in cambio che mi dai?

La mia follia

(In cambio che mi dai, Gianni Morandi)


Aveva qualcosa di più, in quella zucca mezza vuota, il suo Georgino.

Era sempre stato così, lui, l'unico, forse, in grado di vivere i suoi giorni al contrario, con il senno di poi, con un sorriso che sfiorava la follia e i capelli più spettinati della storia della Grecia antica e moderna.

Deliziosamente folle, quel ragazzino che ragazzino non era più, che aveva ventun anni, ormai, e in ventun anni ne aveva fatte, di pazzie, e cose belle e ragionate, ma da contare sulle dita, ne aveva vissute, di cose dell'altro mondo, di storie che un capo non ce l'avevano, storie da inseguirne la fine solo per trovare un senso, e ne erano successe, di cose, in quei ventun anni, con i suoi due figli, quella ragazzina che non sapeva fare la madre e che ad accartocciare l'orgoglio e a lanciarlo per un pugno di minuti in un angolo di marciapiede non avrebbe imparato mai, il carcere che in quella sua vita s'era sempre messo in mezzo, e ancora i suoi bambini, quella giovane donna mai cresciuta e le sue mille prigioni, e la follia dei suoi ventun anni, quella sua follia, dannatamente incorreggibile, irreparabile, inconfondibile, da cui non sarebbe guarito mai.

Ma in quel momento la sua follia non bastava, e forse mai era bastata, mai...

E forse mai gli era pesata come quel giorno, la parola mai.

Se lo chiese, se lo chiese di nuovo.

Ma no, non era possibile, non poteva essere.

Doveva assolutamente esserci qualcos'altro, qualcosa per dare una scossa al mondo, per far tornare lei, per riavere lei, qualcosa da fare per lei!

Era finito tutto, e poi?

Cosa c'era dopo, cosa c'era stato poi?


La tua follia e poi

In cambio che mi dai?

in cambio che mi dai?

Il bene mio

Non basta mica

Ti faccio mia

Non basta mica

Ti do la vita

(In cambio che mi dai, Gianni Morandi)


Voleva avere gli stessi diritti di un uomo, la sua Lys.

Erano tornati a Liverpool, avevano fatto la Rivoluzione.

Tutto il mondo nelle mani voleva avere, la sua Lys.

Erano tornati a Liverpool, ma tra le mani avevano avuto solo il nome della piccola Aisling Willow, ultima amante di Stephen Chantefleur.

Ma neanche allora, no, lei aveva avuto paura.

Si era girata e gli aveva chiesto: "ed io che cosa ci guadagno?".


Nel cuore che cos'hai?

Non t'abbandoni mai

Come un guerriero sei

Che non s'arrende mai

Le armi che tu hai

Deponi ai piedi miei

Non combattiamo più

Scivola giù anche tu

Nell'erba alta poi

Dammi i segreti tuoi

(In cambio che mi dai, Gianni Morandi)


Quel suo modo disperato e maledettamente speciale di fingere d'aver lasciato il cuore chissà dove e di piangere la sera, poi, nelle sue mani, lui ce l'aveva ancora nascosto in una pagliuzza negli occhi, da non dimenticare, da non lasciare andare, da tenere stretto come non aveva tenuto stretta lei.

S'era girata e gli aveva chiesto: "sposami".

E con lei sarebbe stata tutta un'altra cosa

(Ci fosse lei, Claudio Baglioni)


Fumo.

Il fumo della sigaretta accesa nell'Iliade -gli diceva sempre di non scordarsela, lei-, il fumo del rogo di Didone -era sempre stata più forte di lui, quella peste di ragazzina-, le scarpe slacciate e il fumo negli occhi -rideva sempre quando inciampava, lei-.

Era il fumo di uno sparo, quello sguardo che gli aveva lasciato prima di salir su quella nave per l'ultima volta e gridare contro il vento: "ci vediamo presto, Candide!".

Due anni.

E adesso non ce la faceva più, lui.


E con noi, con noi

Mai più due ma uno

Il cielo fu buono

E forse nessuno

E' andato tanto lontano

(Una storia finita, Claudio Baglioni)


Alcesti Caelie Gibson, la loro piccola Céline.

Era andata via con lei.

Sparita in un soffio, con i suoi capelli chiari sottili sottili e quello sguardo indefinibile, che non si capiva proprio da chi avesse preso, ma di sicuro aveva preso dal cielo, in ogni suo gesto, in ogni sua smorfia, anche nella sua prima parola ch'era stata -e quella era stato chiaro da chi l'avesse imparata-, Euripide.

E lei, lei che non sapeva fare la madre, come avrebbe fatto, e lei, lei che non sapeva controllarsi, forse solo contraddirsi, quanto avrebbe pianto nel lenzuolo impolverato delle steppe, e senza lui, senza lui, quanta strada avrebbe fatto solo per perdersi ancora, come sarebbe tornata indietro, come sarebbe tornata da lui, per lui, con lui, lei che era come lui?


E con noi con noi

Il tempo andò in fretta

La realtà non aspetta

La sorte è distratta

E dura una sigaretta

(Una storia finita, Claudio Baglioni)


Quanto l'aveva odiato, lei, e quanto aveva pianto sulla sua camicia stracciata dal vento che tirava da quel mondo e nelle mani martoriate dagli spari, nelle carezze comprate con le sue lacrime, lei che moriva di ricordi, lei che guardava sua figlia col peso eterno del cielo sulle spalle, con quella sua dannata malinconia che fermava il respiro, certi giorni, e stringeva e soffocava quel suo nodo nella gola, quel suo nodo maledetto, e ripeteva senza sosta, tra i respiri spezzati da quell'aria avvelenata dagli oltraggi di una vita ed il dolore che la costringeva a letto: "come mia madre...lo stesso errore di mia madre...prima del matrimonio, prima del matrimonio...come si fa?".

E lui che avrebbe voluto tirarle uno schiaffo, lui, lui che avrebbe voluto gridarle: "non sei tu, non sei tu, tu queste cose non le avresti dette mai!".

E lui che la teneva stretta, lui, e lei che s'addormentava piano, senza più lacrime negli occhi, lasciando a guarire col sole e col sogno i graffi della malinconia.

E poi, e poi?
Era rimasto il fumo, poi.


E’ fumo e niente più

Questo grande amor

Sono sogni che bruciano il tuo cuor

Resta solo il fumo

Tu crederai d’amar

Per l’eternità

Ma ti accorgerai

Che ti resterà

Fumo e nulla più

(Fumo negli occhi, Gianni Morandi)




Parte Seconda

27 Febbraio 1839

La casa di Varsavia


Lei, lui e nessuno

Mai più due ma uno

Lei, lui e nessuno più

Mai più due ma uno

Lei, lui e nessuno

Mai più due ma uno, ormai

(Io ti prendo come mia sposa, Claudio Baglioni)


Quartiere di Żoliborz, Varsavia, Polonia

27 Febbraio 1839


C'erano le pareti azzurre, nella casa di Varsavia.

Era una casa piccola, e le pareti erano state dipinte dal suo precedente proprietario, ma ora era di Anželika.

La bella pianista dai capelli di fiamma aveva passato gli anni più belli della sua infanzia, in Polonia, e la medesima terra era stata il materno suol natio del suo primogenito Vasilij ljodorevič e del suo primo nipote, Nikolaj Vasil'evič, Nikoluška.

C'era un magnifico pianoforte a coda, nella casa di Varsavia.

Un pianoforte come quelli dei concertisti più famosi, dei compositori più amati.

Era il pianoforte di Nikolen'ka.


Il venèc sui suoi capelli.

E quel suo sguardo grigiazzurro che vagava sul mio viso ed io che non sapevo far altro che ridere, ridere di lei e di me, di quella nostra benedetta ingenuità, dello stordimento generale.

Non lo sapevano, gli altri, perché proprio lì, perché proprio in quel posto tra le nuvole e la stoffa lisa e ruvida d'un divano di cent'anni, la stanzetta in subaffitto da mezzo secolo e quell'affitto non pagato, quel buco di polvere con le pareti azzurre e il pianoforte al centro della stanza, il pianoforte che pareva l'unica cosa viva...

Dio, non lo sapevano, gli altri, il perché di quel trambusto, di quel vento che strappava le pagine dei giornali e i giornali che non parlavano di noi!

Avevo alzato lo sguardo sul ritratto posto in fronte al pianoforte, quell'immaginetta un poco rovinata che si stagliava limpida nella luce tiepida, luce che non arrivava da dentro ma da lì, dai tasti chiaroscuri di quel pianoforte, di quel pianoforte che viveva per tutti noi.

Avrei voluto fuggire, io!

Il suo ritratto, il suo ritratto, quel viso scavato dalla fiamma che aveva bruciato la sua gioventù, quegli occhi di tenue cobalto, straziati, grigi d'un tormento infinito, me li sentivo sulla pelle, me li sentivo intorno e ci sarebbe stato da fuggire, da fuggire via!

I capelli stille di grano, la medesima tonalità che utilizzava Dnì per dipingere Natalys, parevano mossi dal vento, e lui sembrava lì lì per scuotere il capo, e mi guardava con una sorta di beffardo compatimento che, Signore, gelava il paesaggio, gelava il sangue, gelava ogni cosa!

Non me n'ero saputo rendere conto la prima volta ed ora pagavo, pagavo anche per lei, che rimaneva lì, ridente e felice, ed era l'unica per cui ancora restavo in quel luogo, l'unica per cui l'avrei fatto in tutto il mondo che c'era, l'unica per cui i miei piedi erano immobili in quel posto, e non era la paura, l'inquietudine di quel ritratto, ma l'amore, l'amore per lei!

E volevo morire, era il giorno del mio matrimonio e volevo morire, stavo per sposarla e mi sentivo morire, non potevo, non potevo, non in quella casa, davanti a quegli occhi!

E poi è crollata, la casa di Varsavia.

Il rito ortodosso, il Pope che pretendeva pure che capissi il polacco ed è rimasto per mezz'ora a guardarmi come si guarda un dannato cretino e lei che mi tirava la manica, la mia Luce che un po' rideva e un po' cercava di spiegare la situazione, ed io che alla fine ho detto di sì, in greco, in inglese, in russo, in ungherese e pure in polacco, giusto per far contento quel supponente pronto a darmi dell'idiota -ma tanto in polacco non l'avrei capito-, e l'avrei pure sfidato a duello, quella faccia tosta, se non fosse stato Pope!

E poi è crollato tutto, come niente, come un castello di sogni, come un castello di sabbia.

E' crollato tutto e noi siam rimasti sotto, in quella casa che cadeva a pezzi dall'inizio e che poi c'è caduta addosso, ma il ritratto no, non è caduto, quello!

E' rimasto a guardarmi, Nikolaj Zirovskij, è rimasto a dirmi che quello che volevo non l'avrei ottenuto, che non avrei avuto lei, lei ch'è rimasta tra le ceneri, ed il suo vestito diventava grigio ed io piangevo per lei, che l'abito bianco non era bastato, che la felicità eterna non era per noi.

Ed io che la guardavo immobile, che stupido, che stupido, Dio!

Lei che piangeva tra le ceneri e non osava alzare gli occhi al ritratto, quel ragazzo un po' dannato e la sua aria un poco persa, da poeta di Montmartre.

La dolcezza di quello sguardo, no, lei non la vedeva più.

C'era solo pietra, pietra al fuoco e male al cuore, ora l'aveva lasciata davvero, Nikolaj.

"Nikolen'ka, Nikolen'ka", ripeteva, e non lo guardava, il suo ritratto, non lo guardava, e nel suo cuore batteva la steppa, finiva la sera e piangevan le nuvole, quell'alleanza felice, i ricordi, il mondo dei sogni che curava con l'acqua di rose da bambina, distrutti, distrutto tutto con i desideri di Nikolaj, Nikolaj che non la guardava più, Nikolaj che un cuore non ce l'aveva più e che non guardava in faccia nessuno, adesso, e lui che non voleva e lei che non poteva erano lì, li avevo negli occhi, ma erano ormai troppo lontani da me.

Era timida, lei, tra i sorrisi di stoffa bianca del vestito spiegazzato e le malelingue spettatrici, ed io stupido, stupido, stupido, io, sono uscito ed ero sposato, sposato da così poco, sono uscito ed ero un marito, un marito così indegno, mi sono acceso una sigaretta e l'ho guardata piangere, con il fumo negli occhi e il fumo nel cuore, lei che quel giorno l'aveva voluto troppo ed io non l'avevo capito mai, io che non sapevo capirla ed ero identico a lei, io che gliel'avevo chiesto per mille volte e mille notti ed ero morto davvero, davanti ai suoi no, e per un sì, il suo sì, non sapevo far niente, non sapevo dir niente, solo fumare e fare il vigliacco, il codardo, e scappare, gli occhi di suo cugino ed i suoi non li sostenevo più, quello sguardo accecava ed era luce da lassù, ma non ci arrivavo, io, erano solo loro e li ho lasciati lì, a costo di ucciderla dentro e farle male davvero, quel giorno, indifferenza impotente, marito da cinque minuti, marito da niente, marito da un quarto di dracma, come sempre, come sempre, il peggiore di tutti.

Ma se solo l'avessi saputo, io, che stava per finire così!

Era crollata, la casa di Varsavia.

E tutto quello che avevamo il vento l'ha restituito al cielo, lei è rimasta lì ed io no, saremmo scappati entrambi ma l'ho fatto solo io, e l'ho chiamata cento volte, da quell'altezza, da quella distanza, l'ho implorata di seguirmi e di spiegarmi perché le cose fossero andate così, eravamo sposati da un giorno, da un'ora, ed era crollato tutto, in quella Varsavia, ma il ritratto di Nikolaj Zirovskij no.

E il pianoforte, il pianoforte?

Suonava, quel giorno, il pianoforte.

L'uomo nel ritratto era morto e il pianoforte era vivo, quel ragazzo, quel disperato, era stato bambino in quella casa, cittadino di Varsavia, aveva amato quella città.

L'uomo nel ritratto era morto e il pianoforte era vivo, cosa potevo fare, io?

Suonava ancora, era eterno, quel suono, quella voce non cessava, scioglieva la neve e non finiva, scioglieva i nostri cuori e piangeva, faceva piangere, ma quel giorno pianse solo lei.

Ed io, io?
Lei, uccisa dal cugino del ritratto, era la Fatalità che aveva lasciato cadere il filo, ed io avevo il coltello di Lachesi nel cuore, ma non sapevo parlare, non sapevo dirlo e difendere lei, così è crollato il mondo intero, nella casa di Varsavia.

Era il 27 Febbraio 1839, quattordici e diciotto anni che non sarebbero bastati mai.

Era il 27 Febbraio 1839, il giorno in cui eravamo nati, ed eravamo morti entrambi, entrambi, quel giorno!

Era crollato tutto, nella casa di Varsavia.

Lei che non aveva il consenso di suo cugino ed io che non avevo il suo.

E un Dio forse non esisteva, ma io l'ho pregato, quel giorno, le parole che non sapevo dire le ho dette a lui, e chissà se m'ha ascoltato, chi lo sa!

Quel giorno è finito tutto, nella casa di Varsavia.

Volevo rivederla, ma coraggio non ne avevo più.

Le avrei detto e ripetuto ogni parola ch'era passata in quella mente d'indemoniato che mi ritrovavo, ma voce non ne avevo più.

L'avevo sposata e abbandonata in un sol giorno.

Era caduto a pezzi, il cielo di Varsavia, il sole di Varsavia non brillava per me.

Neve, neve e neve sotto gli stivali, stava tramontando il sole pallido che arrivava anche laggiù.

Faceva un freddo dannato, ma a lei il freddo passava sopra come fosse il sole della mia Spárti.

Non ci sono mai stato abituato, io, al freddo.

Lei sì, e diavolo, lei è siberiana!

Io non ci avrei più messo piede, in Polonia, in quella terra di lacrime e sangue, sotto quel cielo di ghiaccio e di scheggie sotto la pelle.

Io non ci avrei più messo piede, in quella terra, in quel Paese.

Non ci avrei più messo piede, nel Paese di Nikolaj.

Ma sarebbe crollato tutto, da quel momento in poi.

Avrei guardato fuori dalla finestra e nel cuore avrei avuto solo l'immensa, logorante paura che lei potesse non vedermi.

L'avrei guardata dalla finestra e lei non avrebbe potuto vedermi.

L'avevo sposata e tradita in un sol giorno, nella casa di Varsavia.


Io ti prendo come mia sposa

Davanti ai campi di mimose

Agli abeti bianchi di neve

Ai tetti delle vecchie case

Ad un cielo chiaro e sereno

Al sole strano dei tramonti

All'odore buono del fieno

All'acqua pazza dei torrenti

Io ti prendo come mia sposa

Davanti a Dio

(Io ti prendo come mia sposa, Claudio Baglioni)




Note


Venèc: Corona posta sul capo degli sposi durante il rito matrimoniale ortodosso.

Żoliborz: Quartiere a nord di Varsavia, sulla riva del fiume Vistola.



E'...difficile da spiegare, questo capitolo. E triste, tanto.

Ci sono dannatamente affezionata, ma non lo so spiegare.

L'inizio, Tìa ed Aiace, i racconti e i ricordi di George, Aisling ch'è diventata l'amante di Stephen, la figlia di Alja e Gee...

Ecco, parliamone, della figlia di Alja e Gee.

Ci ho pensato a lungo, a questo ipotetico figlio o, appunto, figlia, e ne ho dedotto abbastanza facilmente che sarei stata assolutamente incapace, visto il mio istinto materno, pari pressoché a quello di un fermacarte, di parlare di un bambino piccolo (in questa storia Aiace è già abbastanza grandicello, e faccio meno fatica che in Sic), e innanzitutto mi serviva il “nome perfetto”, quello che mi convinceva veramente...

Ci ho pensato, ci ho pensato, ed è nata Alcesti Caelie Gibson, detta Céline, che attualmente dovrebbe avere due o tre anni, e vive con Natal'ja.

Sarà un personaggio importante, Céline, anche se per adesso è ancora così piccola, e, non per niente (tale padre, tale figlia, come dicono sempre di me e mio padre), la sua prima parola è stata Euripide. ;)

E poi...poi il matrimonio.

A Varsavia, la città di Nikolaj.

Nella seconda parte del capitolo, a scanso di equivoci, par quasi che si sposino in casa, una cosa completamente assurda, viste anche le condizioni della casa in questione, ma sono i ricordi di George delle due scene sovrapposte: il matrimonio a Varsavia -la scena tra George e il Pope polacco ce la vedevo troppo, punto. ;)- e, successivamente, la visita alla casa di Nikolaj.
C'è un Nikolaj diverso, in questo capitolo, un Nikolaj in grado di cambiare le cose semplicemente con la sua memoria, ma non è tutto come sembra, non ancora.

E qui ci sarebbe molto da spiegare, ma non è ancora il momento. ;)

Per oggi è tutto!


A presto!

Marty


  
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