It takes me higher
di Breed 107
Capitolo decimo.
Era il
momento del giorno che preferiva. Quando il sole non era ancora sorto eppure la
luce dominava il cielo, quello spazio apparentemente infinito
tra il sonno ed il risveglio del mondo… quando tutto era pace e il tempo era
suo, completamente e totalmente suo.
Seduta a
terra, la schiena poggiata alla sponda laterale del letto del suo padrone,
Akane assaporava quei minuti con animo placato. Indossava ancora la leggera veste da notte; i piedi erano scalzi, incrociati sotto di
lei a saggiare la concretezza del pavimento a ricordarle d’essere ancora lì,
sulla terra, nonostante la luce che la circondava sembrava esser perfetta per
la sua concezione di paradiso.
I
capelli le ricadevano sulle spalle, abbandonati come un lucente manto e ribelli
per non esser stati ancora addomesticati dalla spazzola; la loro lucentezza
sembrava voler gareggiare con quell’impareggiabile luce, mentre il colore cupo
risaltava ferocemente sulla pelle candida.
Il
momento stava per finire; aveva imparato a riconoscere i segni di quando quell’attimo purissimo stava per sfumare e
trasformarsi in una giornata uguale alle altre, a quelle che l’avevano
preceduta e probabilmente a quelle che l’avrebbero seguita, chissà fino a
quando…
Gli
occhi color caramello tentavano vanamente di catturare
le amate sfumature indefinite della luce per trattenerle, per godere ancora del
senso di pace che le rimandavano, ma ormai la luminosità già cambiava,
rinvigoriva indorandosi per i raggi del sole che avevano ormai superato la
barriera dello stretto orizzonte costituito dalle mura del palazzo. Il giorno a
gran voce reclamava il suo tempo ed Akane sapeva che fin troppo presto avrebbe
dovuto lasciare quel giaciglio momentaneo poiché anche la vita avrebbe
reclamato la sua attenzione con i suoi ritmi
cadenzati, le sue abitudini, i suoi piccoli gesti che avevano avuto il tempo di
trasformarsi in riti.
Quell’ultimo
pensiero, fugace come la bellezza dell’alba, la portò ad aggrottare le ciglia…
Riti? Possibile che la sua vita tra quelle mura fosse già diventata abitudine? Era assurdo… Viveva lì da così poco, così poco…
Due
mesi, giorno più o giorno meno…
Due mesi
che erano stati caratterizzati dalla vita più normale che avesse mai condotto e
che anche quel giorno, c’era da aspettarselo, avrebbe presentato il solito
copione: presto il suo padrone si sarebbe svegliato, avrebbero fatto colazione
insieme, parlando il meno possibile di tecniche di combattimento, di insegnamenti marziali e chissà, forse di qualche altra
cosa, se lui fosse stato di buon umore… e se lo fosse stata anche lei. Non lo
sapeva ancora, non aveva ancora piena coscienza di quale sarebbe stato il
risultato di quelle elucubrazioni…
Dopo
colazione avrebbe raggiunto la principessa per allenarsi con lei, o forse per
studiare l’etichetta se la regina Nodoka la sera prima si fosse
lamentata dell’educazione della ragazza… E poi via, in un susseguirsi di
gesti, parole, inchini… insomma, la vita… Avrebbe lottato quel giorno come
sempre, chiacchierato con Sayuri ed Obaba, o avrebbe accompagnato
Un lieve
tremito percorse le labbra di Akane a quel pensiero:
quello era il momento peggiore della giornata. E non perché la sovrana non
fosse adorabile, anzi, proprio la sua dolcezza così innocente ed ingenua la
terrorizzava più di tutto… A volte quell’atmosfera di materna amabilità la
riduceva sull’orlo delle lacrime, al pensiero di ciò che avrebbe potuto essere
e non era: quando Nodoka le parlava con grazia e trasporto, come non chiedersi
se anche la propria madre le avrebbe trasmesso quel
senso di pace profonda? Forse anche sua madre avrebbe amato passeggiare con lei
e raccontarle del significato dei fiori, oppure avrebbe ridacchiato ai
pettegolezzi di corte di cui magari sarebbe stata una famelica ascoltatrice pur
abiurando, a parole, tale civettuola abitudine?
Mille
domande assalivano Akane e mille pensieri le si affollavano
in testa quando si trovava con la madre del principe, tanto che doleva
ammetterlo, ritrovarsi la sera a cena sola con lui era quasi un sollievo.
Di
solito litigavano, cioè… lui la stuzzicava
divertendosi un mondo a vederla irritarsi e lottare contro la voglia di
malmenarlo, storcendo appena il naso al sentirsi chiamare signore con la solita ironia.
Non
sempre il ragazzo restava con lei per cenare, spesso doveva raggiungere i suoi
per non suscitare l’ira del padre, ma faceva sempre in modo di rientrare presto
nelle sue stanze, così da poter ancora scambiare qualche chiacchiera con lei.
Akane aveva da tempo ormai la sensazione che come la propria, anche la vita del
principe a volte gli andasse stretta e forse litigare
con lei era come ritrovarsi in un posto più ampio dove allargare le braccia e
respirare più profondamente. Strano ragazzo, quel principe…
Due
mesi… due mesi da quando nello spiazzo nel bosco il principe aveva imparato la
tecnica del Dragone in un modo che lei ancora definiva fortunoso…
due mesi da quando era stata impunemente usata come posta in palio in
una sfida tra parenti. Eppure Akane non era offesa al
ricordo, non lo era stata nemmeno allora… In verità era accaduto così in fretta
da non averle dato il tempo d’arrabbiarsi per bene.
Quel
giorno per la prima volta Akane aveva però provato un’emozione nuova. Un
sentimento sconvolgente ed innaturale, almeno per lei. Quando
il suo padrone l’aveva guardata negli occhi da vincitore e con voce sicura
aveva affermato che non avrebbe permesso a se stesso una sconfitta, Akane aveva
come scoperto la posizione del proprio cuore. Non sapeva come altro trasformare
in parole quel sentimento invero indescrivibile che aveva provato.
Proprio
il cuore le aveva battuto come un forsennato sotto lo sguardo ceruleo di lui,
si era stretto al suono di quelle parole altisonanti e forse un
tantino teatrali… beh, anche più di un tantino, ma lui era fatto così.
Esagerato in ogni aspetto del suo essere, nell’arroganza, nella sicurezza in
sé, nell’orgoglio che quel giorno l’aveva spinto a vincere una sfida per il
gusto di non perderla.
Akane
non si faceva illusioni: il principe mal avrebbe sopportato l’umiliazione di
perdere contro Ryoga, il cugino perennemente sconfitto, colui
che era destinato ad esser battuto ogni giorno che le divinità inviavano
in terra almeno nella concezione dell’erede al trono. Lei non c’entrava nulla, anzi, più e più volte il ragazzo si era
lamentato nei giorni successivi di non aver colto l’occasione per liberarsi
della sua personale piaga, di questa schiava sgraziata e null’affatto
femminile. Quante volte le aveva ripetuto che avrebbe
fatto meglio a perdere? Ne aveva perso il conto…
Ed
Akane era ancora lì, dopo tutto quel tempo, a chiedersi perché fosse sollevata
al pensiero che avesse vinto.
Ryoga
sarebbe stato un padrone gentile, certo più gentile di
quell’arrogante; l’avrebbe trattata con maggior riguardo e di certo non
l’avrebbe apostrofata con epiteti che la facevano infuriare. Se fosse stata la
schiava di Ryoga a quel punto forse sarebbe stata già
liberata… Eppure nonostante tutto ciò, Akane era lieta che le cose quel giorno
non fossero cambiate. Forse che dentro di lei si nascondesse una natura
masochista?
Sorrise al pensiero, inclinando il capo e spostando lo sguardo al soffitto
dove lo fece vagare. Già, forse lo era davvero… o forse la verità era che per quanto
detestabile potesse essere il principe, solo con lui
poteva permettersi di esser se stessa, seppur brevemente: quando litigavano
Akane era veramente se stessa, quasi più di quanto lo fosse con Obaba. Forse
anche per lei le loro liti erano come uno spazio ampio dove agitare le braccia…
Inspirò
a fondo, notando che l’aria andava rapidamente riscaldandosi, l’estate era nel
suo pieno rigoglio. Se stessa… Chi fosse nel profondo
del proprio cuore Akane ancora non lo sapeva con certezza, poteva giusto
intuirlo.
Lo
sgraziato maschiaccio dal temperamento violento che faceva scattare la lingua
per offendere, e nemmeno tanto velatamente, il proprio padrone… Per ora era
quella la veste in cui si ritrovava più a proprio agio, per quanto assurdo
fosse. O per lo meno era la veste che la vita in quel
posto stava cucendole addosso, ma sarebbe stato insultante per se stessa
limitarsi a questo.
Era
qualcosa in più, qualcuno di più, lei! Era come quella luce, ricca di
più sfumature di quante se ne vedessero! E di certo…
“Buuu!”
L’urlo
spaventato di Akane lacerò la quiete del mattino.
Terrorizzata e con i pensieri ormai in disordine, la giovane scattò in piedi,
cozzando violentemente contro qualcosa di duro… che a
sua volta gridò, un Ahi!di dolore.
Ormai ritta sulle gambe tremanti, la schiava si volse verso il letto,
le mani per istinto poggiate sulla sommità del capo dove la fitta per l’urto
andava dilatandosi in onde dolenti. Attraverso gli occhi velati di lacrime, osservò il
proprio padrone tenersi il mento, mentre era ancora sdraiato sul letto, sul
viso un’espressione non meno sofferta di quella che doveva aver anche lei.
Ranma
imprecò più volte, massaggiandosi il punto dove la testaccia dura lo aveva
beccato; la fulminò con lo sguardo, pronto ad aggredirla verbalmente per aver
reagito da bimbetta impaurita ad uno scherzo innocente, ma osservando la sua
espressione sofferente, si placò. “Ci spaventiamo per un nonnulla, eh?”
borbottò, mettendosi seduto e continuando ad accarezzarsi il mento.
“Cosa?! Ma… ma… mi ha terrorizzato!
Ero soprappensiero e lei…”
“Tsé, artista marziale dei miei stivali! Ti ho potuta osservare per un pezzo prima di urlare, se fossi
stato un nemico a quest’ora saresti morta!”
Lui era il suo unico nemico adesso!
Razza d’imbecille! Averle rovinato così impunemente
l’unico momento della giornata tutto suo era imperdonabile, senza contare il
dolore alla testa dove certo sarebbe spuntato un bernoccolo eccellente, tutto a
causa di quella trovata balorda!
“E poi… non dovevano essere pensieri molto allegri, i tuoi, a
giudicare dall’espressione della faccia…” mormorò Ranma dandole le spalle.
Akane
restò interdetta a tali parole, confusa sulle reali intenzioni di quel ragazzo che
sempre più sfuggiva ad ogni sua capacità di analisi. Che l’avesse spaventata per distrarla da quelli che riteneva
fossero pensieri angosciosi?
Non era
la prima volta che scopriva in lui un aspetto gentile, sovente nascosto dietro
atteggiamenti irritanti. Da quando dividevano la camera, si era più volte
chiesta se anche lui, quell’essere indefinito,
possedesse più sfumature di quante ne mostrasse per timidezza.
Ora la
stava guardando con la coda dell’occhio, in attesa di
una reazione… Il sospetto che dietro quello scherzo idiota ci fosse la volontà
di arrecarle un beneficio si rafforzò in lei che sorrise, non potendoselo
impedire. “Sto bene… davvero” gli disse, lasciando scivolare la
mani lungo il corpo. Il sorriso divenne più dolce
quando Ranma si volse a guardarla dritto in faccia, un po’ perplesso.
Probabilmente aveva compreso che dietro quelle parole vi fosse la risposta alla
domanda implicita che voleva porle.
Era vero
che l’aveva osservata.
Si era
svegliato prima di quanto previsto e non vedendola coricata sui soliti cuscini,
l’aveva cercata con lo sguardo; sapeva che si svegliava molto prima di lui ogni
mattino, ma si era sempre chiesto che facesse mentre
aspettava che anche lui si destasse…
Era
stato un po’ sorpreso di vederla lì, poggiata alla fiancata del proprio letto.
Probabilmente le piaceva guardare il cielo e da quel punto poteva farlo
agevolmente… Di soppiatto le si era avvicinato,
sporgendo appena il capo oltre il soffice materasso, ma la cautela con cui
s’era mosso era stata inutile: era troppo distratta… Ne aveva osservato il bel
profilo serio, fin troppo serio, anzi; teneva le sopracciglia aggrottate e le
labbra appena schiuse erano state attraversate da un lieve tremito, mentre il
resto del suo corpo sembrava pietrificato.
Era
infelice? Triste? A cosa pensava? A chi?…
A Ranma
non piaceva ammetterlo, ma una risposta affermativa alle prime domande aveva il
potere di turbarlo, e molto. Preferiva di gran lunga
vederla in preda alla rabbia, preferiva osservare i suoi grandi occhi
accendersi per le fiamme dell’ira piuttosto che languire, velati dalla
tristezza. E così aveva deciso di riportarla, a modo
suo, in quella stanza. Di riportarla da lui…
Aveva
agito d’istinto come sempre e alla fine c’era riuscito… certo, ne aveva guadagnato una gran botta, ma forse ne era valsa la
pena se ora lei gli sorrideva. Era tanto carina quando
sorrideva, quando sorrideva a lui…
L’imbarazzo
che subito sovvenne per quel pensiero lo fece
arrossire di colpo e, allarmato, scattò in piedi ridandole le spalle. “Io invece
mi sento come se avessi appena urtato contro un muro! Hai la testa più dura di
quel cretino di Ryoga!” l’apostrofò, facendo quello in cui privilegiava
subito dopo le arti marziali: rovinare ogni bel momento che si creava tra loro.
Era davvero un maestro in questo!
Spinto
dal panico e dall’impaccio, riusciva sempre a trovare le parole per farla
infuriare, anche se bisognava ammettere che il carattere non proprio docile di Akane gli facilitava il compito. Anche
quella volta naturalmente fu così: il bel sorriso svanì per far posto ad una
smorfia irritata e la voce perse la dolcezza che per poco l’aveva ammorbidita.
“La
prossima volta che mi spaventerà allora la colpirò con qualche altra parte del
corpo, come un pugno… sono certa lo troverà più
morbido ed adatto alla sua regale faccia, padrone!”
Ranma
sparì oltre la porta del bagno ridacchiando tra sé e sé.
--- --- ---
Quando
ne uscì, l’umore di Akane non era molto migliorato;
ritta davanti al piccolo tavolino dove consumavano gran parte dei loro pasti, praticamente
lo linciò con lo sguardo più cattivo del suo repertorio di occhiatacce, ma vi
era così avvezzo ormai da non farci più caso.
“Oggi
farò colazione qui – le comunicò mentre finiva di
allacciare il colletto della blusa completamente bianca che aveva scelto quella
mattina – puoi usare il bagno mentre do gli ordini necessari.”
Akane si
limitò ad annuire con il capo; sapeva che quello significava restare lì con
lui. Era come un ordine, sebbene lui non l’avesse mai concretizzato a parole, ma ogni qualvolta decideva di non voler dividere i
pasti con la sua famiglia, soprattutto a causa del padre, la diretta
conseguenza era che lei restasse lì invece di unirsi alle altre schiave. Non
gliel’aveva mai ordinato, per l’appunto, né chiesto come favore personale e
d’altro canto non l’aveva mai allontanata… Akane pensò
che anche quello fosse un rito ormai consolidato nella propria esistenza.
Stava
per raggiungere la piccola sala da bagno, quando all’improvviso una saetta dai
capelli ramati attraversò le pesanti porte della stanza aperte di colpo,
richiamando a gran voce il nome del ragazzo. Né Ranma
né Akane furono sorpresi da quell’ingresso alquanto irruente della principessa:
erano ormai assuefatti alle sue entrate trionfali, come le definiva
ironicamente suo fratello. Quel giorno però vi era qualcosa di diverso nella
ragazzina che attirò subito l’attenzione degli altri due: sembrava sconvolta ed
agitata. Indossava ancora la camicia da notte e quel particolare unito al fatto
che i suoi capelli fossero alquanto scompigliati dava l’impressione che dovesse essersi precipitata lì appena uscita dal letto.
“Ranko,
che succede?” chiese Ranma sinceramente preoccupato: non era uno spettacolo
solito vederla in tali condizioni. Quando lei lo
guardò, si rese conto che era sul punto di piangere.
“Nostro
padre è un mostro!” urlò la ragazza per tutta risposta, il viso arrossato e i
pugni stretti tremanti. Le lacrime che tratteneva a stento erano quindi di
rabbia, pensò Ranma tutto sommato sollevato. In fin
dei conti le liti con il sovrano non erano una sua esclusiva prerogativa e
nonostante la piccola Ranko fosse la prediletta dei genitori, il suo carattere
impossibile sovente si scontrava con quello rigido del capo famiglia.
Sospirando,
il ragazzo si precipitò a chiudere l’uscio, non volendo offrire altro
spettacolo ai vari occhi curiosi che affollavano il
corridoio… pensò a quanto già ne doveva aver offerto sua sorella correndo da
lui in camicia e a piedi nudi.
“Che ha detto? Ti ha impedito di nuovo di allenarti con
Akane?” le chiese con voce annoiata, ritornando poi a guardarla. Di solito era
quello il motivo principale delle furiose litigate tra padre e figlia, entrambi
s’intestardivano sulle proprie posizioni
cocciutamente, anche se di solito Ranko riusciva a disobbedire a Genma senza
molti problemi.
La
ragazza scosse il capo e di colpo perse tutta l’animosità che l’aveva spinta fin là; si avvicinò al letto ancora in disordine e vi
si lasciò cadere, come priva di forze. Si morse il labbro inferiore, mentre gli
occhi vagavano incerti, probabilmente cercando le parole giuste per spiegare
quanto accaduto. La videro sospirare, più calma, ma notevolmente più
rattristata. “Il mio fidanzato è morto…” mormorò infine, poggiando entrambe le
mani sulle ginocchia.
Akane
spalancò gli occhi e solerte le si avvicinò, pronta a
darle conforto “Oh, sua grazia… mi spiace, deve essere un gran dolore per lei!”
Ranko
corrugò le sopracciglia fin quasi ad unirle, osservando l’altra ragazza con
stupore, poi tornò a scuotere il capo. “Non lo conoscevo nemmeno… Tutto quel
che so di lui è che era un principe di non so dove –
spiegò – L’ho visto solo in ritratto…”
Akane
batté le palpebre, confusa. Con tutta evidenza per la principessa, la cattiva
sorte del futuro marito non era esattamente causa di sofferenza. Lanciò
un’occhiata a Ranma che non sembrava stupito “Cosa ha
detto nostro padre?”
“Che vuoi che abbia detto? E’ venuto nelle mie stanze per darmi la notizia che il sole non era ancora sorto e poi,
come se nulla fosse, mi ha detto di non preoccuparmi, di aver già pensato a
come risolvere la situazione. Non più tardi di oggi
pomeriggio una sua missiva partirà per il regno di Riujenzawa,
pare che il futuro erede al trono non abbia ancora una fidanzata e vista le
condizioni di salute di suo nonno, l’attuale sovrano, vi sia una certa urgenza
affinché si sposi… Ci pensi, fratello? Il mio fidanzato non è stato ancora
sepolto, che nostro padre me ne ha già trovato un altro, naturalmente senza
chiedere il mio parere!”
Ranma
osservò il viso indignato di sua sorella, dispiaciuto per lei, ma affatto
sorpreso. Nemmeno lei avrebbe dovuto esserlo: fin da bambini ad entrambi era
stato detto e ripetuto quale fosse il loro compito, vale a dire il bene e la
sopravvivenza del casato. Sposare uno sconosciuto faceva parte di questo
compito… ma né lui, né Ranko avevano accettato simili imposizioni passivamente.
Il
principe spostò lo sguardo su Akane, ora seduta accanto all’altra ragazza… Lei
non era stata forse la sua più grande ribellione, fino
a quel momento? Non passava giorno in cui suo padre non gli ordinasse
di disfarsene, di lasciarla a chi era stata destinata in principio, ma
Ranma non aveva intenzione di cedere su di lei, il vecchio poteva minacciare e
urlare quanto voleva...
La
situazione di sua sorella era però molto più complessa: se il re era bene o
male disposto a tollerare che suo figlio dividesse la propria camera con una
schiava, non poteva certo permettere che Ranko gli disubbidisse su una
questione così vitale come un matrimonio di stato. Erano in gioco alleanze importanti
e l’amicizia di altri regni era vitale per Solaris, soprattutto in un periodo così contrastato: Nerima
era ancora un possibile nemico, nonostante non fosse più il regno florido e
potente di un tempo. L’arroganza e la brama di potere del suo Reggente erano
una minaccia troppo incombente per ignorarla e la
corsa ad alleanze sempre più solide valeva ogni sacrificio, persino il
consegnare la propria amatissima figlia in sposa a degli estranei.
“Non ha
un briciolo di cuore! Non può impormi chi sposare, non è
giusto! Nonno Happosai non l’ha fatto con lui, non gli ha ordinato di sposare
nostra madre ed il regno è sopravvissuto!” protestò
Ranko, riacquistando parte della rabbia di prima.
“A
nostro nonno non importava granché del futuro del nostro regno…” commentò
saggio Ranma, beccandosi per quello un’occhiata furiosa della sorella.
“Gli dai ragione?! TU?!” domandò
esterrefatta: si era recata lì proprio perché credeva che suo fratello
l’avrebbe appoggiata, come ogni qualvolta c’era da opporsi a Genma.
“Non ho
detto questo, calma, però non capisco perché tu sia tanto arrabbiata. Cosa cambia a questo punto? Anche
il precedente fidanzato ti era estraneo…”
Akane
non avrebbe mai voluto prenderlo a calci come in quel momento! Possibile che
non comprendesse i sentimenti della ragazzina? Era talmente evidente che il
cuore di Ranko appartenesse già a qualcuno! Che il suo
stesso fratello non se ne fosse reso conto? Probabilmente no, insensibile
com’era…
Ad Akane
quel sentimento era parso evidente fin quasi da subito. L’atteggiamento ostile
di Ranko non era che una cortina, un tentativo goffo
di mascherare il proprio amore per timidezza, forse, ma più presumibilmente per
paura di esser rifiutata. L’altero capitano delle guardie reali continuava
ostinatamente a considerarla una mocciosetta e a
trattarla di conseguenza, Akane poteva solo immaginare quanto doloroso fosse un simile atteggiamento per la ragazza!
Se Taro fosse consapevole o meno d’esser l’oggetto delle attenzioni
della sua principessa, Akane lo ignorava. Quell’uomo era criptico in maniera irritante, era
impossibile comprendere a pieno cosa pensasse… ogni
qualvolta il suo sguardo freddo ed imperturbabile si posava su di lei,
istintivamente si sentiva irrigidire per il disagio: sembrava che quelle due
iridi ti attraversassero ogni volta, scrutandoti e leggendo la tua anima.
“Cosa cambia?! Tutto cambia! Potrei finire in sposa a questo
tipo prima ancora che l’anno finisca, ecco cosa cambia! – Ranko si alzò di
scatto dal letto per fronteggiare suo fratello – Se il re di Riujenzawa è davvero malato, il suo successore dovrà esser
pronto a prendere il suo posto e questo vuol dire che
dovrà sposarsi presto! Ed io non potrò mai realizzare
il mio sogno! Mai!”
“Non
diventeresti un’amazzone nemmeno se non ti sposassi… e
lo sai. E’ venuto il momento che tu la smetta di
illuderti.”
“Ma la maestra Obaba mi sta allenando e…”
“La
maestra Obaba non ti ha accettato come sua allieva, pur allenandoti. Non può e
non vuole fare di te un’amazzone, più volte ha cercato
di fartelo capire e sarebbe ora che lo accettassi.”
Akane
abbassò lo sguardo nel sentire quelle parole dure di Ranma… dure,
ma vere. Era chiaro che la maestra non avrebbe fatto della principessa
un’amazzone, nonostante lei avesse mostrato talento e predisposizione per le
arti marziali più di ogni altra donna avesse mai
incontrato prima.
Le
motivazioni che erano dietro al sogno della giovane
avevano fatto propendere Obaba per la scelta di non accettarla come allieva;
Ranko voleva essere un’amazzone per amore, ma proprio questo sentimento sarebbe
stato il primo prezzo da pagare per la sua vita da guerriera.
“Stai dicendo che devo rassegnarmi? E’ questo che vuoi dirmi fratello?” la voce tremante di Ranko, resa
insicura dalle lacrime, strappò la schiava a quei pensieri.
La
ragazza era ancora dinanzi a Ranma, a capo chino. La lotta contro il pianto ora
era così evidente che Akane si sentì il cuore
stringere per lo sconforto ed anche il principe dovette provare lo stesso a
giudicare dalla sua espressione. Con un affetto che quasi mai manifestava per
la sua pestifera sorellina, le carezzò il capo fulvo e le parlò con quanta
dolcezza potesse.
“Tu non
sai cos’è la rassegnazione Ranko… Sei molto più testarda di me o di nostro
padre, il che è tutto un dire! Non sai ancora se il principe di Riujenzawa acconsentirà a questo matrimonio, chi può dirlo?
Magari le voci sul tuo carattere impossibile sono giunte fin là e quel
poveretto ci penserà due volte prima di prenderti come moglie, se ci tiene alla
tranquillità del suo piccolo regno…”
“Non
devi mica farmi dei complimenti solo perché sto piangendo…” borbottò lei, anche
se un piccolo sorriso si fece largo sul broncio del viso.
“Le ho
detto di essere testarda e di avere un carattere
impossibile, a te pare che le abbia fatto dei complimenti, Akane? Avanti,
smettila di tirare su con il naso e vatti a rendere presentabile, o a nostra
madre verrà un colpo vedendoti a tavola in questo stato così poco femminile.”
Stavolta
Ranko rise apertamente e asciugò gli occhi umidi con un braccio, con un gesto
che parve molto tenero ed infantile agli occhi del fratello “Lo immagino… Tu cosa fai fratello? Resti qui a fare colazione?”
Ranma
annuì “Sì, avevo già deciso di stare alla larga da
nostro padre ed ora poi ne sono ancora più convinto, visto che grazie a te sarà
d’umore ancora più insopportabile.”
“Se è questo che ti preoccupa, allora sta’ tranquillo. Il
nostro sommo sovrano è rinchiuso nel suo studio a
redigere la convincente missiva con la quale mi concederà in sposa e pare ne
avrà per un bel pezzo, quindi la sua amabile presenza a colazione ci sarà
risparmiata” spiegò la ragazza alternando alcune smorfie significative alle
proprie ironiche parole.
“Oh,
davvero? – rapidi gli occhi blu si posarono su Akane, soffermandosi su di lei
per un lungo istante – Non importa, farò comunque
colazione qui… Non si sa mai che finisse prima del previsto, non ci tengo a che
si sfoghi su di me!”
“Mmm,
sul serio? O piuttosto non vuoi lasciare Akane? Proprio oggi poi che è il vostro anniversario…”
“Che
cosa?!” esclamarono all’unisono il principe e la
schiava, così sorpresi da non aver nemmeno il tempo di arrossire.
Ranko li
guardò a turno, stupita a sua volta. “Ma come, non lo
ricordate? Sono due mesi esatti oggi che Akane è qui a palazzo! In questi casi
si dice comunque anniversario o si dovrebbe usare
l’espressione mesiversario? Mmm, non mi pare suoni molto bene…”
Ad Akane
non importava granché quale fosse la formula più
adatta e corretta ad esprimere il concetto. Sapeva benissimo da quanto tempo si
trovava lì, proprio quella mattina ci aveva riflettuto prima che l’idiota del
suo padrone la spaventasse a morte, solo che fino a quando Ranko non lo aveva sottolineato, il tutto le era parso, come dire… meno
ufficiale. E poi il fatto che la ragazza suggerisse
sotto sotto una qualsiasi sorta di festeggiamento
privato tra loro due era imbarazzante da morire!
“Due
mesi? Accidenti… mi sembra che tu stia qui dentro da molto più tempo: ho come
l’impressione di sopportarti da una vita!”
Per
fortuna la gentilezza del padrone sapeva sempre venirle in soccorso nei
momenti più imbarazzanti…
Quando
Ranko lasciò la stanza, l’eco delle loro voci accese la scortò per un pezzo: entrambi facevano a gara a
chi fosse sembrata più lunga e causa di sofferenza quella convivenza.
--- --- ---
Genma si
grattò il capo liscio e lucido nella luce del sole ormai sorto. Guardò la
lettera che aveva appena finito di scrivere e ne fu soddisfatto.
Sorridendo
tra sé e sé, ripensò ad un’altra lettera scritta poco meno di due mesi prima.
Sperava che anche in questo caso la risposta sarebbe stata altrettanto positiva.
Il
messaggero allora era tornato a palazzo dopo soli dieci
giorni, era stato davvero rapido e a giudicare dai toni entusiastici
della risposta, anche molto accorto. Contento, il Re aveva chiesto a Taro di
ricompensare il soldato così capace, pur non spiegandogli il perché; per
fortuna il capitano non era un uomo da molte parole e non aveva fatto domande.
Era
andato tutto incredibilmente bene! Nessuno aveva scoperto nulla, nemmeno
Nodoka…
Genma si
guardò in giro, scrutando il suo studio in ogni angolo per accertarsi di esser
solo, poi con cautela lasciò lo scrittoio e si avvicinò al camino alle sue
spalle, naturalmente spento in quella stagione afosa. Un ultimo sguardo
circospetto alle spalle e poi, con rapidità,
infilò la mano su per la grande cappa e ne frugò a
tentoni la superficie, fino a trovare il mattone smosso che cercava. Lo scostò
e con destrezza estrasse il plico nascosto dietro.
Quando
lo ebbe tra le mani, lo soppesò un istante, con un sorriso ancor più beato, lo
srotolò e lo lesse per l’ennesima volta e, come tutte le volte precedenti, il
solo mormorare quelle parole vergate con una grafia ordinata e semplice lo
colmò di soddisfazione.
Era
incredibile che il destino dei suoi figlioli si dipanasse attraverso due
semplici lettere! Quella che aveva appena scritto avrebbe
garantito un matrimonio vantaggioso per quella scapestrata di Ranko, mentre
quella che ora giaceva tra le sue mani stabiliva il futuro di Ranma.
Sposato all’unica figlia del Re del regno di Kuonji, unica figlia
quindi unica erede…
Che
potenza avrebbero formato una volta uniti i due regni!
A quel punto anche l’alleanza con il regno di Gea messa tanto a repentaglio dal
colpo di testa di suo figlio diventava inutile… Che il Reggente di Nerima
continuasse pure a minacciarlo, con l’appoggio ormai garantito di Kuonji e con
quello imminente di Riujenzawa, la cosa non aveva la
ben che minima rilevanza.
Rilesse
ancora la lettera del sovrano di Kuonji, nella quale si garantiva la più ampia
compiacenza per il matrimonio dei due eredi. Anzi, il sovrano rassicurava che
la piccola Ukyo era letteralmente impaziente di convolare a nozze con il
virtuoso e certo valoroso giovane Saotome, parole testuali…
Che quest’ultima parte corrispondesse al vero o meno, a Genma non
importava: l’approvazione da parte dei giovani promessi non contava in un
simile frangente.
Che la principessa Ukyo fosse consenziente o che
piantasse i piedi e protestasse come Ranko davvero non era affare che lo
riguardasse, ciò che contava era il consenso entusiasta del padre della
giovane.
Con il
sorriso ormai diventato un ghigno, Genma ripose l’amata lettera nel suo
nascondiglio e tornò a sedersi allo scrittoio, canticchiando un motivetto
allegro tra sé e sé e domandandosi se nella sua proposta di matrimonio dovesse anche scrivere di quanto la sua dolce figliola fosse
impaziente di sposare il giovane principe di Riujenzawa,
magari prima che giungesse l’inverno…
--- --- ---
“No, no,
no! Ragazzo, dov’è la tua concentrazione?!”
Le urla di Obaba riempivano l’aria afosa di quel pomeriggio; la
maestra era insoddisfatta e il suo bastone roteava minaccioso, preoccupando non
poco Ryoga a cui tale insoddisfazione era da imputare.
Da quasi
quattro giorni la donna tentava inutilmente di insegnargli una prodigiosa
tecnica, anch’essa frutto della millenaria esperienza
del suo popolo e che ella aveva ritenuto particolarmente adatta alla struttura
fisica del padrone. Già dal duello con il principe infatti
la minuscola vecchietta aveva scoperto quanto resistente potesse essere il
ragazzo e dopo un lungo periodo di allenamento durante il quale Ryoga aveva
rafforzato ulteriormente il suo già poderoso fisico, l’amazzone aveva ritenuto
giunto il momento per progredire ed insegnargli la misteriosa tecnica
dell’esplosione.
Misteriosa
almeno fino a quando quattro giorni prima, sbalordendo tutti i presenti, aveva
mostrato loro in cosa consistesse tale prodigio: con il semplice tocco di un
dito, l’anziana istitutrice aveva mandato in briciole un masso enorme, senza
sforzo apparente per giunta.
Ryoga si
era entusiasmato enormemente ed aveva giurato di impegnarsi al massimo per far
proprio l’insegnamento di Obaba; persino Ranma ne era
stato impressionato e, con un pizzico di invidia, aveva chiesto di poter anche
lui imparare. La richiesta era stata gentilmente, ma fermamente rifiutata, con grande soddisfazione di Ryoga.
La
rivalità tra i due cugini era notevolmente aumentata nel corso degli ultimi due
mesi; la sempre più evidente infatuazione del povero eterno disperso per Akane
era diventata motivo di celia continua da parte di Ranma, che sembrava non
annoiarsi mai nello stuzzicare l’irritabile cugino, così come quest’ultimo non
pareva mai esaurire i motivi per scontrarsi con l’altro. Non c’era avvenimento
che lo riguardasse per il quale Ryoga non incolpasse il principe, spesso con
fondatezza, ma altre volte risultava chiaro a tutti
come i suoi fossero solo semplici pretesti per manifestare la propria gelosia,
sentimento che l’arrivo di Akane aveva involontariamente rinvigorito.
L’unica a non essersi resa conto del proprio ruolo in quella sorta di
faida familiare era proprio la giovane schiava, la quale da parte sua
provava sempre maggior comprensione per Ryoga; conosceva bene infatti quanto
irritante potesse essere la tracotanza del proprio padrone e ciò la rendeva
istintivamente solidale con il suo sfortunato parente. Sempre più spesso era
consueto incontrare i due a parlottare tra loro, a scambiarsi opinioni sui
rispettivi allenamenti; Akane aveva persino consigliato più volte il ragazzo su
come comportarsi con alcuni esercizi impostigli da Obaba e se questo da un lato
colmava il cuore del poveretto di speranza e rinnovato amore, da un lato non
faceva che accrescere i motivi di contrasto con Ranma.
Il
suddetto principe sogghignò, lanciando solo un’occhiata rapida al cugino
inginocchiato nella polvere; l’invidia provata fino a qualche giorno prima per
non esser messo a parte della tecnica dell’esplosione era svanita appena aveva
scoperto il metodo d’insegnamento… in confronto imparare la tecnica del Dragone
era stata una passeggiata!
Per i
quattro giorni precedenti e fino a pochi istanti prima, lo sfortunato Ryoga era
stato letteralmente legato come un salame e calato giù da un ramo dei tanti
alberi che costeggiavano lo spiazzo dove ormai si allenavamo quotidianamente.
L’unica sua parte lasciata libera di muoversi era un dito della mano destra e
lo stesso dito costituiva l’unica difesa contro il nemico… un masso enorme che
la portentosa vecchia aveva ugualmente sospeso a robuste corde e che con forza
instancabile scagliava contro il suo riottoso allievo.
Ranma
scosse il capo, provando un minimo di pietà per l’altro ragazzo e tornò ad
allenarsi con Ranko: come contentino per averli esclusi dalla tecnica
dell’esplosione, la maestra amazzone aveva promesso ai due fratelli di insegnar
loro un’altra incredibile mossa; non si era dilungata molto in spiegazioni,
specificando solo che per metterla in pratica occorreva molta velocità. Così
ora i due si allenavano insieme, sfidandosi a chi fosse il più rapido e a Ranma
doleva ammettere che sua sorella gli era in pratica alla pari, se non superiore
in quel particolare aspetto.
Ryoga
scrollò il capo tentando di rischiarare la vista, offuscata dopo l’ennesimo
colpo. Non sapeva quante volte avesse già sbattuto
contro quell’odioso masso, aveva smesso di contarle, ma sapeva che con
quell’ultimo colpo doveva aver superato il centinaio… Era frustrato ed
arrabbiato con se stesso, ma anche con la donna che gli sbraitava contro e che
chissà come adesso stava concedendogli un attimo di tregua. Con un colpo netto
del suo maledetto bastone aveva tranciato la corda che lo teneva sospeso per
aria e l’aveva fatto atterrare con un tonfo, dandogli così l’occasione di
riprender fiato.
Odiava
quell’allenamento, così come detestava dimostrarsi più lento di Ranma…
nonostante sia Obaba che Akane gli avessero detto che
paragonare le due tecniche era impossibile, lui non poteva evitare di sentirsi
inferiore a lui. Ci stava mettendo troppo, maledizione! Eppure
faceva tutto quello che la vecchiaccia gli ordinava!
Con
sguardo furente levò il capo impolverato verso l’amazzone e quando l’immagine
smise di sdoppiarsi dinanzi agli occhi stanchi, la affrontò senza troppi
riguardi. “Io sono concentrato!”
Lo era
sul serio! Nella sua testa malconcia non vi era spazio che per la tecnica! La voglia di rivalsa contro Ranma era tale da non permettergli di
pensare ad altro… o quasi. C’era il pensiero costante ed onnipresente di Akane, ma quello serviva a fargli coraggio, a dargli la
forza di continuare nonostante le tremende botte. Non poteva essere quello il
motivo per cui non riusciva, impossibile…
Obaba
gli stava dicendo qualcosa di rimando, ma lo sguardo del ragazzo era altrove,
qualche metro distante da quella fila d’alberi, diretto oltre Ranma e Ranko che
continuavano a lottare tra loro, poggiato lì dove rifuggiva ogni qualvolta potesse, su Akane seduta su una delle rocce che costellavano
lo spiazzo.
Gli
occhi della ragazza erano stranamente sfuggenti quel giorno
e Ryoga poté quasi leggervi dentro una grande tristezza… Cosa aveva? Di sicuro
Ranma le aveva fatto qualcosa! Il pensiero che quel
maledetto dividesse ancora la stessa camera della sua
amata gli incendiò l’anima: dannato! Di certo quel porco aveva attentato alla
virtù della povera schiava! Per questo lei sembrava così distante quel giorno,
così abbattuta, così…
Sbonk!
Ryoga si
ritrovò a terra, la testa più dolorante di prima. Pensò che forse il masso gli fosse
caduto addosso, ma quando rivolse insù lo sguardo nuovamente annebbiato, un
paio di Obaba lo guardavano in
cagnesco brandendo l’odiato randello. Non era stato dunque il masso a colpirlo…
“Razza
di sciocco! Non mi ascolti nemmeno quando ti parlo,
come osi affermare di esser concentrato!” l’orribile arma calò di nuovo e
stavolta, per sua fortuna, Ryoga svenne, cadendo bocconi sul terreno.
Sospirando,
la vecchia istitutrice si avviò verso Akane che l’accolse con un sorriso mesto
e con un otre d’acqua che accettò grata. Urlare contro quel caprone le faceva
seccare la gola.
Con uno
sbuffo sedette accanto alla ragazza più giovane e mentre beveva con calma, ne osservò il profilo; Ryoga non era l’unico ad essersi
accorto dello stato della giovane, anzi, gli occhi esperti di Obaba avevano
compreso che non era il principe la causa del malumore, o per lo meno non lo
era nel modo in cui aveva creduto il ragazzo appena svenuto.
“Non
dovresti esser così dura con lui, Obaba… Il signor Ryoga si sta impegnando
seriamente.”
“La
testa di quel marmocchio è altrove, mia cara. Spero che quando riprenderà i
sensi sarà più deciso o perderemo ancora altro tempo”
sospirò, dedicando uno sguardo rassegnato al corpo esanime al quale stavano
avvicinandosi gli altri due ragazzi, poi tornò a guardare la giovane accanto a
sé. “Cosa ti rende tanto ansiosa?” le domandò poi
diretta, con voce calma e tranquilla.
Akane si
morse le labbra, non provò nemmeno a negare e, dopo un momento d’esitazione, si
volse verso la sua maestra e la guardò dritto negli occhi. “Sto perdendo tempo,
Obaba…”
“Non
capisco, cosa significa?”
“Che sto perdendo del tempo prezioso in questo posto! – alzò
la voce presa dalla rabbia, poi compì uno sforzo per non urlare e richiamare
l'attenzione degli altri – Io sono pronta Obaba, lo
sai… non dovrei stare qui a… a guardare gli altri allenarsi, ma dovrei compiere
il mio destino, il tempo è giunto!”
Obaba annuì mesta col capo, poi le sue spalle si sollevarono in un
sospiro. Il volto segnato dagli anni era come scolpito dalla luce intensa di
quel pomeriggio, ogni ruga era come un trofeo alla propria sapienza; le piccole
mani invece sembravano voler sfuggire alla pacatezza della vecchiaia e con
smania giovanile giocherellavano nervose con il bordo mal cucito dell’otre,
unico segno tangibile della tensione che la savia amazzone in quel momento
stava provando.
“La tua
inesperienza è tale da offuscarti la vista, almeno quanto i miei colpi
annebbiano la vista del giovane padrone… Tu non sei pronta, Akane.”
“Come
puoi saperlo? Come puoi saperlo sul serio?! Obaba io
qui… impazzisco! Non voglio più restare in questo posto chiedendomi cosa è
successo alla mia famiglia! Ogni minuto, ogni ora che passa il dubbio mi
tormenta… Devo scappare, come avevamo progettato fin
dal principio…”
Obaba non
le rispose subito, ma quando lo fece il tono della sua voce fu aspro ed
inclemente; le mani, vivaci fino a quel momento, si fermarono in pugni nervosi
“Scappare ora significa consegnarti alla morte e non ti ho allevato affinché tu
muoia. Non ti ho istruito per esser così debole e fragile… oltre che bugiarda.”
Akane
sgranò gli occhi, a tal punto colpita dalle parole
della donna da sentirsi stordita. Stupefatta la osservò, gli occhi che si
colmavano di pianto senza che potesse evitarlo… Si sentiva tradita, per la
prima volta nella vita non aveva l’appoggio di Obaba,
anzi, l’ostilità delle sue parole era troppo palese per ignorarla. Deglutì,
cercando con molta fatica di ritrovare il fiato serrato dalle lacrime che ormai
le stringevano la gola.
“Hai
cambiato idea, Obaba? Questo posto ti ha talmente rammollito da non volerlo
lasciare! Il fatto che tutti si prostrino ai tuoi piedi riverendoti come una
maestra, ti ha fatto dimenticare la promessa che mi hai fatto anni fa?!”
“E’
questa dunque tutta la fiducia che riponi in me, Akane. Dici
che questo posto mi ha rammollito, ma forse la parola che volevi dire è
un’altra: rinvigorito… sì, è vero, esser qui è motivo di gioia per me… non lo
nego, io. Puoi tu affermare lo stesso?”
Obaba non ottenne la risposta alla domanda che le aveva posto. Troppo sconvolta e furiosa,
Akane si allontanò di corsa, da lei, da quelle parole dolorose, ma soprattutto
dai dubbi che esse volevano sollevare nel suo animo inquieto.
Corse a
perdifiato tra gli alberi, perdendosi tra essi ed
ignorando il richiamo allarmato di Ranko, così come ignorò dove stesse
recandosi. In verità non le importava, non quanto allontanarsi il più possibile
da Obaba, nel futile tentativo in realtà di fuggire da se stessa. Per quanto corresse infatti le domande dell’amazzone le rimbombavano in
testa e, con ancora più accanimento, le risposte facevano lo stesso…
Non si
accorse quasi di esser afferrata per un braccio e solo quando fu trascinata contro un albero si avvide di Ranma. La presa
sulle braccia era forte, ma non fu per quello che Akane non tentò di
divincolarsi e sfuggire; anzi, appena le sue spalle aderirono alla ruvida
corteccia, le energie la lasciarono e, completamente sfibrata, abbassò il capo
per scoppiare a piangere… Quante volte ancora doveva
farlo, accidenti? Quante volte ancora avrebbe pianto?!
Era già la seconda volta da quando era giunta in quel
posto maledetto…
Ranma
osservò la ragazza chinare il capo ed abbandonarsi al pianto con un sentimento
molto simile al panico. Che diavolo stava accadendo?
Non aveva compreso molto, ma a quanto pareva la lite che la propria schiava
aveva avuto con Obaba doveva esser stata terribile quanto breve.
Si era
appena avvicinato a Ryoga per accertarsi che stesse bene, più per
interessamento di Ranko a dire il vero, quando la voce concitata di Akane gli era giunta all'orecchio; si era voltato verso
le due donne sedute troppo distanti per poter comprendere cosa mai dicessero e
quando aveva poi deciso di lasciar perdere Ryoga e avvicinarsi a loro, la
ragazza si era allontanata come una furia, in lacrime. Sua sorella aveva
provato a chiamarla, ma era stata ignorata… Non volendo subire la stessa sorte,
lui aveva preferito correrle dietro, ma ora che l’aveva raggiunta e la teneva
contro quell’albero, non sapeva più che fare…
Che
fosse una giornata non facile per lei, l’aveva capito fin dal mattino, quel suo
sguardo volto al cielo era stato inquietante… e le cose poi sembravano esser
peggiorate con l’arrivo di Ranko: il battibecco che avevano avuto era stato
solo una pallida imitazione di quello che accadeva solitamente e poi si era
trasformata in una creatura silenziosa e pensierosa, proprio come quando
l’aveva spaventata.
Solo che
farle buuu adesso sembrava alquanto inidoneo…
La sentiva tremare sotto le sue mani, la pelle delle braccia era
gelida e il pianto così forte da renderle quasi difficile respirare. Non poteva
continuare così, si disse allarmato il ragazzo, non
avrebbe retto… e anche lui non avrebbe resistito molto a vederla in tali misere
condizioni.
“Smettila…
avanti, smetti di piangere…” le disse tentando di infondere convinzione nel
proprio tono, ma Akane scosse il capo in un cenno di
diniego e provò ad allontanarlo debolmente, non riuscendovi. “Allora dimmi cosa
ti fa stare così! Ho già consolato una ragazza piangente oggi e ho finito le
idee, per cui fammi capire cosa diavolo fare!”
“Mi… mi
lasci andare…”
“Oh, lo
farei, eccome, ma ti faccio notare che hai sbagliato
completamente direzione: di questo passo finirai per addentrarti ancor di più
nel bosco e sappi che non è un posto piacevole… Inoltre data la dimestichezza
che hai in posti come questi, finiresti con il farti male o peggio nel giro di
pochissimo!”
“Mi
lasci andare!” replicò di nuovo lei come se non lo avesse sentito, stavolta infondendo
maggior forza nella richiesta.
“No! Non
posso!” sbottò Ranma, scotendola per le braccia che ancora le teneva. Ed era vero: non poteva.
Semplicemente non poteva lasciarla andare…
Akane
alzò il viso e lo guardò, le sopracciglia aggrottate sugli occhi ancora colmi
di lacrime, alcune delle quali le rigavano le guance pallide. Ranma sospirò e
scuotendo il capo la lasciò, certo che comunque ora
non avrebbe più provato a scappare, ed infatti lei restò immobile contro
l’albero a guardarlo.
“Perché mi ha tenuto con sé?”
La voce
era così flebile che quasi non la sentì. Ranma non sapeva se la domanda avesse
a che fare con lo stato d’animo angosciato della ragazza, ma capì quanto
importante fosse per lei poiché aveva smesso di
piangere. “Perché non mi ha allontanato dopo aver
imparato la tecnica del Dragone?”
“Lo sai
perché… Se non ti tengo con me, mio padre ti manderà via.”
“Io non
le servo, Obaba è l’unica persona che…”
“E’
questo che ti sconvolge, allora? L’essere la mia schiava ti fa così ribrezzo da
ridurti in questo stato? Non scuotere la testa, rispondimi!”
Non poteva crederci, non voleva crederci! In tutto quel tempo
che l’aveva avuta accanto a sé si era così abituato
alla sua presenza, così assuefatto da non pensare a come Akane vivesse quella
convivenza forzata. Non si era mai chiesto se lei fosse felice, se lo fosse
davvero, perché stupidamente si era illuso che lo fosse a suo fianco… Era una
pia illusione, un pensiero egoistico e superficiale, una convinzione che aveva
voluto far propria per non dover affrontare seriamente l’aspetto cruciale di
quella storia, vale a dire il momento della
separazione.
“Fino a
quando mi terrà con sé?” gli domandò ancora con animosità, segno della
disperata esigenza di sapere.
Solo che
Ranma non aveva risposte da darle… o forse l’unica risposta spontanea che aveva
era così sconvolgente da non poterla proferire. “Ti terrò con
me per… - Akane lo vide esitare, poi distogliere lo sguardo ed
allontanarsi da lei di qualche passo – per tutto il tempo necessario. Quando mio padre non insisterà più nel mandarti via, ti
allontanerò da me… e allora potrai stare con le altre donne di corte, o con
Ranko… Fino a quel momento dovrai farti forza e sopportare la mia presenza,
come io sopporto la tua…”
Sopportare
la sua presenza? Akane avrebbe voluto gridare di rabbia, ma si limitò a guardarlo, a guardare il suo volto farsi più
affilato e più severo. Ora che lo guardava così, che scopriva quanto doloroso
fosse perdersi nel suo sguardo oltraggiato, la ragazza finalmente comprese le
parole dell’anziana istitutrice: era davvero una bugiarda!
Il vero motivo per cui voleva fuggire poco o nulla aveva a che fare
con la missione che si era prefissata fin da bambina. No, il motivo era in
quegli occhi blu di cui non reggeva lo sguardo, nel fatto che presto avrebbe
scoperto di non odiarli affatto… cosa ne sarebbe stato
di lei allora, quando avrebbe capito di non poter fare a meno di tutti loro… di
lui?
Si
scostò dall’appoggio momentaneo costituito dall’albero e dopo un ultimo sguardo
sofferente al proprio padrone, con lentezza ritornò sui propri
passi, diretta di nuovo allo spiazzo dove avrebbe chiesto perdono ad Obaba per
il proprio comportamento… e poi avrebbe atteso. Non aveva più voglia di
sfinirsi con domande e contando i giorni che diventavano mesi, chiedendosi quando sarebbe durata la loro convivenza… non
importava, perché comunque, in un modo o nell’altro, era destinata a finire.
Ranma la
guardò allontanarsi. Il cuore gli balzava impazzito nel
petto, non si era mai sentito così confuso…
Ti
terrò con me per… per tutto il tempo necessario… questo le aveva detto, ma non era ciò che avrebbe voluto dire davvero, non
erano quelle le parole che gli erano spontaneamente sorte dal cuore e che quasi
a fatica aveva taciuto. Con sgomento, il giovane principe si era reso conto che
“per sempre” era ciò che avrebbe voluto dirle.