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Autore: dalialio    11/09/2011    4 recensioni
Una ragazza entra a far parte della vita degli agenti dell’NCIS. La sua identità all’inizio li lascerà sconcertati, ma poi si abitueranno alla sua presenza.
La protagonista presto scoprirà di aver creato dello scompiglio nelle loro vite, ma grazie al suo aiuto qualcuno riuscirà a chiarire i propri sentimenti.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'She Cαme Into Our Lives And Chαnged Everything'
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Interceding Is Often Hard- Cap 3
Voilà il terzo capitolo della storia :) mi scuso già per la mia incostanza nel pubblicare i capitoli, ma scrivo un po' lentamente ^^ quindi non vi allarmate se tra uno e l'altro passa tanto tempo... vi assicuro che la storia andrà avanti fino alla fine!! :) dovete avere soltanto un po' di pazienza :)
Ora vi lascio leggere :) ci vediamo sotto!




Capitolo 3

In cui mi rendo conto del mio comportamento sgradevole e cerco di porvi rimedio


Io e Abby ci conoscevamo da quando, parecchi anni prima, Jethro aveva invitato me e la mia famiglia più lei, Ducky e il suo assistente a una Festa del Ringraziamento a casa sua. Da quel momento, Abby era rimasta stregata da me e non mancava mai l’occasione di scambiarci e-mail per sparlare dei suoi colleghi. Più che da mio zio, il numero maggiore di informazioni sulla sua squadra lo dovevo ai pettegolezzi di Abby.
Evitando le domande curiose di DiNozzo riguardo alla conoscenza mia e di Abby e rispondendo a quelle di Timothy e Ziva con un “vi spiegherò più tardi”, montammo in ascensore per scendere al piano meno uno per andare da Ducky.
A quel punto la stizza di DiNozzo nei miei confronti era palese. La tensione che irradiava il suo corpo teso era palpabile. Un po’ mi dispiaceva per come l’avevo trattato. Ma solo un po’.
“Sarà meglio che tu non esca dall’ascensore”, suggerì Ziva quando le porte si aprirono una volta giunti a destinazione. “Siamo in sala autopsie”, spiegò sottovoce, come se qualcuno fuori dell’ascensore non dovesse sentire.
Convenuto da tutti che sarebbe stato meglio per me non addentrarmi nel corridoio per non incappare in qualche brutta sorpresa, fui costretta ad aspettare in ascensore con DiNozzo mentre gli altri due andavano a chiamare il dottore.
Tony si piazzò davanti alle porte per evitare che si chiudessero e continuò a spostare lo sguardo da una parte all’altra per evitare di guardarmi, palesemente imbarazzato.
“Niente battute pungenti?”, chiese con tono provocatorio dopo parecchi secondi di silenzio teso. Parlò guardando di fronte a sé: era evidente che cercasse di non guardarmi.
Aprii bocca per rispondergli qualcosa – qualsiasi cosa -, ma in quel momento l’ascensore si affollò.
“Oh mio Dio, Miss Gibbs!”, esclamò Ducky appena si accorse di me.
“Ducky, lo sai che non voglio essere chiamata così”, dissi con un sorriso.
“Sì, è vero”, rispose lui, prendendomi le mani. “Ma il fatto è, bambina mia, che vi somigliate talmente tanto”.
Ducky era proprio come lo ricordavo, non era cambiato minimamente. I radi capelli castano scuro erano ordinatamente divisi da una riga su un lato e i suoi grandi occhi nocciola erano incorniciati da un paio di occhiali quadrati dalla montatura sottile. Ostentava le sue origini scozzesi indossando una giacca di feltro dalla trama marrone e beige e un papillon rosso legato al colletto della camicia azzurro scuro. Con il mio metro e settanta superavo di gran lunga la sua statura.
Improvvisamente DiNozzo, ancora attaccato alla porta dell’ascensore, sembrò esplodere. “Vi conoscete?”, sbottò in tono quasi rabbioso.
“Certo che lo conosco”, risposi calma. Mi voltai verso l’altro uomo che era entrato assieme a Ducky. “E conosco anche Jimmy”, dissi.
Il signor Palmer, come lo chiamava sempre Ducky, era un ragazzo che non arrivava alla trentina. Aveva l’aria del classico studente secchione senza una vita sociale, ma con Jimmy le apparenze ingannavano. Nonostante gli spessi occhiali tondi e i capelli disordinati, non era noioso come l’aspetto poteva suggerire, ma divertente e spigliato.
Il ragazzo mi salutò agitando la mano e sorridendo apertamente.
Con un gesto un po’ troppo confidenziale, Ziva mi afferrò per un braccio e mi attirò a sé, avvicinandosi per parlarmi all’orecchio. “Abby posso anche capirla”, sussurrò in tono quasi rabbioso. “Ma questo, devi proprio spiegarcelo”.




***




La mia testa ormai turbinava all’impazzata a causa delle troppe rotazioni che avevo compiuto sulla sedia d’ufficio alla scrivania accanto a quella di Jethro. Lo zio mi aveva permesso di occupare quel posto, che sarebbe altrimenti rimasto vuoto, a condizione che me rimanessi lì buona senza disturbare. La cosa non mi era stata detta proprio esplicitamente; perspicace com’ero quando si trattava di Leroy Jethro Gibbs, l’avevo capito dall’occhiata che mi aveva lanciato di sbieco e dalla sua frase: “La tua presenza qui, purtroppo, non può impedirci di fare il nostro lavoro”.
Un secondo significato c’era.
Nel bel mezzo di un giro della sedia, puntai violentemente i piedi a terra per fermarmi e mi ritrovai a fissare DiNozzo alla sua scrivania. Purtroppo, mi trovavo troppo distante per cercare di decifrare la sua espressione.
Dopo vari tentativi – tutti falliti - di cercare di intravedere meglio la sua faccia, mi decisi ad alzarmi dalla sedia. La mia risolutezza era dovuta al senso di colpa che provavo ogni volta che pensavo a come lo avevo trattato appena usciti dall’ascensore per andare da Abby. Ero stata davvero crudele.
Ora volevo porre rimedio.
Avvicinandomi alla sua scrivania – e riuscendo finalmente a vederlo distintamente in viso – mi accorsi dello sguardo diffidente che mi lanciò con la coda dell’occhio.
Percependo gli sguardi di tutti gli altri pungere dietro la mia schiena quasi volessero perforarla – e cercando di ignorarli – mi posizionai comodamente di fianco a DiNozzo, quasi sedendomi sull’angolo di scrivania libero, dando le spalle a Ziva.
Anthony William DiNozzo era davvero un bell’uomo. Quasi quarantenne, il naso dritto e la mascella quadrata gli davano un non so che di affascinante. Quando si mascherava con un’espressione seria poteva forse incutere timore, ma, se lo si conosceva meglio, si potevano trovare divertenti i suoi modi spigliati e faceva sempre piacere ricevere un suo sorriso.
Nonostante tutto, ero abbastanza agitata.
Respirai profondamente. “Agente DiNozzo?”.
“Tony”, mi corresse lui, senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer.
“Anthony”, decisi infine, non volendogli dare alcuna soddisfazione.
Lui non si mosse di un millimetro.
“Volevo scusarmi”, dissi a voce abbastanza bassa così che Ziva non mi sentisse.
Tony si voltò finalmente verso di me, guardandomi con espressione stizzita. “E di cosa, di grazia?”, chiese teatralmente, mantenendo il mio stesso tono di voce.
“Per come mi sono comportata prima”.
Alzò le sopracciglia. “E a quale occasione ti riferisci?”.
“A quando mi hai chiesto cosa pensasse Gibbs di te”.
Accennò a una risatina nervosa. “E tutte le altre frecciatine pungenti?”.
Risi anch’io con fare provocatorio. Pian piano il nervosismo si stava sciogliendo. “Quelle non erano niente”, risposi. “Mi stavo solo riscaldando”.
“Certo, per il colpo finale”. Si accigliò e inspirò dai denti stretti, fingendo un’espressione di dolore. “Quello sì che ha fatto male davvero”.
Incrociai le braccia, con espressione seccata. “Allora, vuoi sapere cosa mi ha detto veramente su di te, sì o no?”.
Con un gesto della mano mi fece segno di procedere.
Parlai guardandomi le mani. “Ha detto che sai fare bene il tuo lavoro e che sei uno dei migliori agenti con cui abbia mai lavorato. Ha detto che fai spesso il buffone, ma che nei momenti giusti sai anche dimostrarti serio e professionale. Ha detto che sei un bravo leader, come hai dimostrato in passato”. Quando Jethro si era «ritirato» in Messico, Tony, in qualità di agente più anziano, aveva occupato il suo posto come capo della squadra. “E ha detto anche”, continuai, alzando la testa per guardarlo, “che vorrebbe darti più scappellotti di quelli che in realtà ricevi”.
DiNozzo ascoltò attentamente tutto il mio discorso senza fiatare. Quando gli rivelai l’ultima considerazione, la sua reazione fu quella di spalancare gli occhi e corrugare la fronte in un’espressione quasi comica.
Dopo che si riebbe, fu in grado di pronunciare una frase di senso compiuto. “Stai scherzando”, affermò, dubbioso.
“No, è la verità”. Non capivo se si riferisse all’ultima cosa che avevo detto oppure ai complimenti. Comunque, la mia risposta era valida per entrambi i casi.
Tony annuì una volta, poco convinto.
“DiNozzo”, chiamò Gibbs in tono duro. Quando quello si voltò verso di lui, Jethro continuò. “Rimettiti al lavoro”.
“Subito, capo”, rispose, afferrando il mouse del computer.
“È colpa mia, zio”, confessai, alzandomi dalla scrivania e voltandomi verso di lui. Con la coda dell’occhio, notai che Ziva mi guardava storto.
“Lascialo lavorare in pace”, mi sgridò Jethro, guardandomi di sbieco. “Vai giù a giocare con Abby. Sono convinto che ne sarebbe felice”.
Mi voltai verso DiNozzo e alzai le spalle con fare colpevole. “Devo andare”, dissi. Voltai lo sguardo verso Ziva per verificare se avevo ragione riguardo all’occhiataccia che mi aveva lanciato, ma la donna stava fissando lo schermo del computer. Forse con troppo interesse.
Recuperai la mia borsa dalla sedia che avevo usato come una giostra e me ne andai silenziosamente.













*Nota dell'autrice*

Dunque, credo che questo sia il capitolo dove la storia inizia ad ingranare... :) cioè, fate caso alle occhiatacce di Ziva :) tenetevi a mente questo particolare perché sarà utile per il futuro! Non rivelo altro :)
Una cosa da precisare: non so se il secondo nome di Tony sia William, in realtà non so nemmeno se ne abbia uno. So solo che Anthony William DiNozzo mi suonava bene  :)
Ringrazio kiriri93, Maia in Wonderland, _Clarita_ e zavarix  per i loro commenti e tutti quelli che seguono la mia storia! :) mi spronate ad andare avanti a scrivere, quindi graziegraziegrazie! :)
A presto! :)

   
 
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