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Autore: melodiedidemoni    11/09/2011    0 recensioni
Un viaggio nella mente di una donna, intessuto fra i ricordi di una vita dalle mille facce. Un'esistenza osservata da dentro la boccia, con gli occhi di un ospite di passaggio: un pesce rosso. I tanti pesci rossi che hanno fatto parte della mia vita.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Prologo

 

Le tappe dell’infanzia di un bambino - come ho avuto la possibilità di appurare - hanno quasi sempre come muti spettatori pesci rossi o bambole con i capelli rasati. Ma, se nella società delle mai-pari opportunità in cui ho avuto la fortuna di nascere c’è la remota possibilità che non tutti i bambini occidentali abbiano posseduto una bambola con i boccoli recisi, la quasi totalità dei pargoli ha posseduto almeno una volta un malconcio pesce rosso. Quasi sempre non sopravvissuto oltre le due settimane. 

Io sono stata una bambina fortunata, avevo dei genitori generosi. Di conseguenza furono numerosi gli esserini che abitarono la mia boccia dei pesci. Molti meno quelli che, come dicevo in precedenza, hanno visto l’alba più di dieci volte. Ma la loro permanenza fu, come si suol dire in questi casi, breve e intensa. Non me ne abbiate se nel corso di queste pagine vi annoierò o avrete la bruciante tentazione di tornare ai vostri allegri videogiochi, del resto queste sono solo righe dedicate a me stessa. A me stessa e ai miei pesci rossi.

 

 

 

 

 

Capitolo 1

 

Era il mio sesto compleanno quando per la prima volta mio padre mi prese la mano e, persuasivo come solo lui sapeva essere, mi trascinò via dalle mie occupazioni di bambina figlia di liberi professionisti. Mi prese per la manina paffuta e mi fece salire in macchina; una FIAT 500 di quelle quasi storiche, verde acqua, un regalo di mio nonno di cui non riusciva a disfarsi. Eppure, parlandoci chiaro, faceva la sua porca figura anche se era ormai il 1991. Salii in macchina euforica e mi accoccolai sui mangiucchiati e stretti sedili in pelle. Percorremmo, accompagnati dal tossicchiare del motore, le viuzze del paesino in cui abitavamo; le strade quasi vuote sotto il ringhiante sole pomeridiano. Le estati, dovete sapere, nel sud Italia (e specialmente negli agglomerati dimenticati da Dio e dall’uomo) sanno essere particolarmente feroci. Approfittai di quell’inaspettato momento di solitudine fra me e mio padre per scrutarne i lineamenti. Mio padre, come me del resto, era quasi sempre abbronzato e teneva i capelli neri sempre un po’ ribelli. Il cruccio fra le sopracciglia segno di chi è concentrato a fare bella figura e i denti innaturalmente bianchi. Non era un uomo particolarmente alto, anzi, forse addirittura basso. Questo fece sì che, in futuro, nella scelta degli uomini badassi molto più alla loro altezza piuttosto che al loro cervello. Ero una ragazzina sciocca, mi tocca ammetterlo. 

Sciocca quanto mio padre, in effetti. Sciocca e ingenua. Sempre ad agire in buona fede e a credere che il mondo facesse lo stesso. Sciocchi provinciali, io e mio padre. Sciocchi anche sugli acquisti: credevamo che possedere sempre il meglio facesse di noi persone migliori. Il significato del denaro fu la prima cosa che appresi. 

Ma quel giorno mio padre non mi comprò nulla di costoso, come avevo candidamente immaginato. Mi portò invece nel negozio d’animali vicino alla chiesa e, sorridendomi, mi disse che potevo scegliere un animaletto da portare a casa. Sapevo che mia madre non avrebbe apprezzato un esserino peloso e a quattro zampe in giro per il salotto, dunque mi diressi alla gabbia dei canarini. La commessa (una ragazzina che dimostrava appena diciassette anni) mi rivolse un sorriso argentato. Mi avvicinai di più alla gabbia troppo stretta per contenere gli stridenti volatili. Persi per loro ogni interesse quando l’odore dei loro escrementi mi investì le narici. Mi feci sfuggire un sonoro “bleah!” e mi rivolsi alla ragazza con l’apparecchio ai denti:

«Posso avere un pesce rosso?»

 

*

 

Portai in mano il sacchetto trasparente col mio regalo di compleanno fino alla nostra modesta casa a tre piani e ne svuotai il contenuto in una boccia che la mamma pescò per me dalla credenza. Il nuovo venuto mi fissava annoiato con i suoi occhioni a palla. La commessa mi disse che aveva già un nome: Clèo. Clèo che si legge Clio. 

Spostai Clèo dalla cucina alla cameretta che dividevo con mia sorella, poggiandolo sul ripiano della finestra. 

Passai il pomeriggio e la prima serata a lucidare la boccia e a dare da mangiare al mio piccolo amico, che scoprii era più divertente di quanto potesse essere un gatto o una tartaruga. Mi piaceva il modo in cui nuotava pacatamente fra le sue rocce artificiali e mi sentivo complice dei suoi sguardi di disapprovazione (o, almeno, così apparivano ai miei occhi) quando mia sorella picchiettava le unghie laccate di rosso contro il vetro per attirare la sua attenzione. Ma Clèo era un pesciolino discreto, non certamente come quella zotica di mia sorella. Tutto quello che le sue percosse alla boccia provocavano era una soffiata di bolle, con sufficienza. 

Clèo (suona strano anche a me scrivere in questi termini di un pesce rosso) era un buon amico. Forse un po’ silenzioso, magari con le squame non sufficientemente tirate a lucido e non di un rosso acceso come ci si aspetterebbe da un pesce rosso; era, di fatto, tendente all’arancione pallido. Ma non posso lamentarmi dei momenti passati insieme a quel gioioso compare. Del resto quando facevo i capricci non mi contraddiva mai. 

E questo mi piaceva. 

Ero una bambina viziata, e questo ha fatto di me una ragazzina irascibile e una donna ancor più intrattabile, ma non posso dire d’aver passato una brutta vita. Anche se, pensando ai soldi che ho speso finora per bocce e mangime, avrei potuto fare a meno di così tanti pesci rossi.

Ma ero talmente affascinata da quell’andatura galleggiante e dall’aria tranquilla con cui affrontavano il mondo...che non potevo fare a meno di invidiarli. Volevo essere così: controllata. Volevo non dover affrontare l’esistenza fra i tumulti emozionali, volevo la loro calma piatta. Ma, di questo, parlerò più avanti. 

  
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