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Autore: Natalja_Aljona    11/09/2011    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Centodue - La luce degli occhi

E io chi sono stato, per essere un grand'uomo?



Era troppo.

I suoi occhi, i suoi capelli.

Il sorriso stanco, il bel viso e quel coraggio, quel coraggio che l'aveva sempre sconvolto e che lo feriva anche in quel momento.

Gli occhi chiari, i capelli scomposti sul cuscino.

Il sorriso triste, il suo sorriso da fiore spezzato, la testolina bionda appoggiata sulla spalla di Feri, mentre scrutava con sospetto quanto riusciva a vedere del suo amico ungherese, addormentato su quel giaciglio che avevano rimediato tra le assi del pavimento e miseri cuscini.

Otto anni lei e quattordici lui, sdraiati lì a costruirsi un futuro di sogni, la visione più tenera e fraterna degli ultimi nove mesi.

Non si sarebbe pentito di un solo giorno passato a farla piangere o sorridere, mai.

Non si sarebbe pentito di un solo gesto di quella sera, la sera in cui s'era fatto giustizia da solo, la sera in cui aveva fatto giustizia per lei.

Non si sarebbe pentito d'aver sbagliato così tanto e così a lungo, non si sarebbe pentito d'aver sorriso nel suo errare, non si sarebbe pentito d'aver fatto l'errore della sua vita per farsi perdonare.

Non si sarebbe pentito d'essere diventato un eretico, d'aver gettato al vento qualsiasi religione e d'aver considerato il suo perdono più divino di quello del Cielo, fossero venuti a prenderlo in quel momento, lui non se ne sarebbe pentito!

Era troppo.

Era troppo e faceva male, tanto male che sentiva ancora quell'ultimo sparo nel cielo del nono mese, la sua mano sul viso beffardo di Bolkonskij, e quell'aria che c'era, quella neve che c'era, il vento che tirava, la luce degli occhi...


Era sera, al campo di rose.

Dio, non ce l'aveva fatta.

Lui era lì, la neve era alta e vi affondava fino alle ginocchia, lui che a ventisette anni pareva un ragazzino, un empio demonio dagli occhi d'un bambino.

Lui era lì e le sciabole erano state affondate nella fitta coltre bianca dai padrini di Bolkonskij e da Csák, il suo amico Csák.

Candido, candido, quel paesaggio era così candido, e lui aveva il sangue negli occhi, e negli occhi aveva sempre lei!

Lei nel suo ultimo sorriso, lei nel far rivivere la luce negli occhi, quella luce che aveva lei...

Dio, nessuno, nessuno!

E non ce l'aveva fatta.

Lui era lì, con la pistola in mano.

Lui era lo sfidante, e avrebbe vinto, il Cielo sapeva cosa non avrebbe vinto, per lei, quella sera!

Csák gli aveva posato una mano sulla spalla.

-Non fare cose di cui potresti pentirti-

Non ci aveva visto più.

C'era lei, c'era lei.

C'era lei che gli diceva: "Coraggio, Niko. Fammi vedere che vali ancora qualcosa, in questo mondo. Fammi vedere che stavolta non ti farai calpestare dal mondo".

C'era lei, c'era lei.

C'era lei che lo bruciava dentro, c'era lei che lo uccideva dentro.

C'era quel ricordo, il suo ricordo.

C'erano quegli occhi di bambina appena nata che s'illuminavano per lui.

C'erano le lacrime piante in un angolo di stanza senza lui, c'era l'impotenza e al tempo stesso il coraggio di quegli occhi, gli occhi della ragazzina che ce l'aveva messa tutta, per farlo credere in ciò in cui credeva lei, anche quando lui le faceva tanto male che non li avrebbe riaperti più, quegli occhi.

E forse le aveva voltato le spalle, forse l'aveva lasciata da parte, nei giorni in cui il colore sfumava all'orizzonte e le stelle tra le mani diventavano carbone.

Ma adesso c'era lei, solo lei.

C'era lei nel cuore tiepido del tramonto già inoltrato, già distrutto dal calore della sera che spezzava, che chiamava ogni cosa buona che fosse rimasta al mondo in quel pugno d'oscurità.

"E pare che sia tanto cara ai poeti, la sera! Ma forse ormai questa maledetta divisa parla già per me.

Butta giù tutto, la sera. E io voglio il sole, voglio la luce dei suoi occhi nelle mani".

C'era lei nell'ombra delle sciabole ben piantate nella neve alta di Krasnojarsk, quella neve che aveva la luce dei suoi occhi, c'era lei, c'era lei!

Quelle parole ancora oscillanti nell'aria, nel vento tagliente, nel freddo che spaccava la pelle come pietra, le avrebbe schiacciate in una mano.

-Non dovrei fare cose di cui potrei pentirmi, eh? E' questo che hai detto? E' questo che hai da dire? E tu? Tu non devi pentirti di niente, Csák? Quanto è finito nelle tue tasche, di quei millecento rubli? Quanto ho dovuto strapparti dalle mani? Te ne sei pentito, tu?-

Il sorriso del giovane ungherese era beffardo.

-No, Niko-

-Bastardo-

-Certo, Niko. Era l'unica cosa che non potessi permettermi di perdere, lo sai-

-Lui almeno l'ha fatto per la famiglia!- aveva indicato Ivan Bolkonskij, fermo ad aspettare -Ma tu...tu solo per salvarti la faccia-

L'ungherese era diventato serio d'un colpo.

-Via, Nikolen'ka...-

-Non parlare più-

E uno. Un colpo di pistola era partito. Nel braccio di Csák Desztor, il suo amico.

Amico!

Avrebbe voluto piangere, Nikolaj.

C'era agitazione, tra i padrini di Bolkonskij.

Non si poteva sparare al di fuori dei limiti delle sciabole, non si poteva.

Lui lo stava facendo.

E al diavolo tutto, al diavolo quella vita.

C'era lei, c'era lei!

Due, tre.

Millecento, i colpi che avrebbe voluto sparare.

"Il cuore, il cuore! Voglio vedere cos'hai nel cuore, Ivan Bolkonskij".

Non era arrivato neanche a dieci.

E per l'ultimo colpo era corso fino a lui, e gliel'aveva sparato in quel cuore di neve, l'ultimo colpo, con la mano sui suoi occhi per non vedere in quel verde cristallo la scintilla selvaggia, il luccichio delle monete rovesciate sulle tavola, l'ultimo giorno felice della sua Natal'ja.

Non parlava, Ivan Bolkonskij.

Era l'uomo peggiore che avesse conosciuto, ma non era un vile.

S'era difeso fino all'ultimo, ma i suoi colpi neanche l'avevano sfiorato.

Non poteva, non poteva.

Quella sera doveva vincere lui.

Non sarebbe mai finita del tutto, quella storia.

C'era lei, c'era lei.

Il suo piede sul viso di Bolkonskij, sugli occhi verdi senza luce, senza cuore, senza lei...

E l'orgoglio di quegli occhi, quanto male gli faceva!

No, non se ne sarebbe pentito.

Era partito, l'ultimo colpo. Nel cuore, negli occhi, nella mancata pietà di lei.

Gliela leggeva negli occhi, quella parola.

Gliela leggeva negli occhi in mezzo alle grida dei suoi padrini, alle frasi confuse di Csák che, ripresosi da poco, cercava di strappargli di mano la pistola.

Glielo leggeva negli occhi.

Pietà.

Pietà, Ivan Bolkonskij?

Ne hai avuta, tu?


Se avesse sparato entro il confine delimitato dalle sciabole, sarebbe stato il vincitore del duello.

E invece no.

Non aveva vinto Ivan Bolkonskij a duello, Nikolaj.

Lui l'aveva ucciso.

Era morto ai suoi piedi, Ivan Bolkonskij.

Ma non gli era bastato.


E' tuo padre.

Guardalo!

Bacialo per l'ultima volta, dai.

Cosa c'è, Péter Ivanovič Bolkonskij?

Non lo riconosci?

Oh, non ci vuoi credere?

Ma suvvia, guardalo!

E' morto, Péter.

E sai chi sono io?

Sono Nikolaj Zirovskij.

L'ho ucciso io.


Gli giungevano a scatti, adesso, quelle frasi.

Non aveva avuto pietà del figlio di Ivan Bolkonskij, no, non ne aveva avuta più.

Da quel giorno non aveva più avuto pietà per nessuno.


E non se n'era pentito!

Si sentiva l'uomo più terribile del mondo, adesso, chino sul pavimento a guardare lei.

Feri Desztor.

L'aveva sempre adorata, quel teppistello ungherese.

Prega di essere diverso da tuo fratello, Feri Desztor.

E lei, lei...

Quella luce negli occhi l'aveva soltanto lei.


A difenderti, io non ci sono riuscito.

Far brillare di nuovo la luce degli occhi, no, nemmeno questo ho potuto.

Avrei voluto guarire il tuo cuore di bambina di otto anni, e i tuoi otto anni distrutti, compiuti con le catene ai polsi, non li ho saputi ricostruire.


Non aveva mai suonato come quella notte, Nikolaj.

S'era seduto al pianoforte della casa di Varsavia, e Dio lo sapeva, quanta vita era rimasta sotto quel cilindro nero, quanta vita aveva scritto su quei tasti chiaroscuri, quante lacrime avevano cancellato col sale gli spartiti, e quanto ancora aveva lasciato in quella stanza, quei respiri, quel dolore che non sarebbe passato mai.

Mozart, Beethoven, Liszt.

Chopin, ch'era polacco come lui.

Quei notturni da lasciare senza fiato, quelle note, quell'amore per la Patria, per quel Paese che non avrebbe rivisto più.

Il giorno dopo sarebbero partiti per il Kazakistan, era la sua ultima occasione.

Non ci sarebbe più tornato, in Polonia.

Non avrebbe più suonato come quella notte, Nikolaj.

Millecento note, millecento rubli.

Li aveva gettati sotto il cilindro del pianoforte, quei millecento rubli.

Millecento note che si arrampicavano sulle pareti azzurre della casa di Varsavia, e il cielo era lì dentro, il Fato nelle mani di quella ragazzina, e poi le aveva chiuse lì dentro, quelle millecento note.

Non era mai stato sincero come quella notte, Nikolaj.

E non sarebbe tornata, quella luce negli occhi.

Non sarebbe più stato coraggioso come quella notte, Nikolaj.
E dove l'avrebbe cercata, la luce degli occhi?



Note


Dovevo farlo parlare, Nikolaj.

E fa male, scrivere di Nikolaj, parlare per Nikolaj.

Ma stavolta ha detto tutto, Nikolaj, questo terribile, feroce, spietato e straziato Nikolaj, Nikolaj ch'è stato coraggioso due volte sole nella sua vita, ed è stato quando ha ucciso, è stato quando s'è fatto uccidere.

E nella notte in cui s'è seduto per l'ultima volta sul pianoforte ha detto tutto quello che aveva dire, per l'ultima, eterna, maledetta volta.

Csák Desztor, invece, non ha parlato abbastanza.

E' ambiguo, il suo personaggio, in questo capitolo.

E Ivan Bolkonskij, Ivan e Péter.

Non è l'angelo un po' demonio descritto da Natal'ja, questo Nikolaj.

E' un uomo, un uomo e basta.

Un uomo che un poco è morto dentro, un uomo che forse non ce la farà.

E non ce l'ha fatta, poi, lui.

Ma quello che aveva da dire l'ha detto.

E io chi sono stato, per essere un grand'uomo?

Ecco, questo è Nikolaj.

La citazione è di Baglioni, ma è per Nikolaj.

In questo capitolo l'ha fatta risplendere per l'ultima volta, la luce dei suoi occhi.


A presto,

Marty

  
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