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Autore: Kimynaky    13/09/2011    6 recensioni
In una città futuristica in decadenza post guerra civile, una ragazza 17enne capo di una gang di strada ha dichiarato guerra alla mafia locale per via di vecchi rancori. Così organizza una "spedizione punitiva" mirata a derubare un locale in mano ai mafiosi, ma qualcosa va storto....
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kim fu svegliata dall’urlo del padre. Lentamente sollevò le palpebre, che sentiva terribilmente pesanti e pastose.

- Che c’è papà? - Chiese pigramente. Che ore sono?

- Assolutamente non ti muovere! – le ordinò.

- Ma che ti prende… - , disse spazientita la figlia, cercando di rigirarsi nel letto, ma non riusciva a coordinare i movimenti.

- Ferma ti ho detto!” – Tuonò Arthur. Quando urlava metteva davvero paura, ma Kim replicò risentita:

- Ma si può sapere che hai?

Solo allora lo sentì. Con un dolore lancinante allo stomaco se ne rese conto: quel ticchettio… poteva essere una cosa sola. Il padre esaminò rapidamente l’ordigno con fare esperto.

- E’ collegato al letto. E’ a tempo, ma reagisce anche alle variazioni di peso: non muoverti per nessuna ragione!

Nei bassifondi la vita era una vera guerra tutti i giorni, e per vivere molti si specializzavano nei furti di vario genere, se non in qualcosa di più grave. Qualsiasi uomo sapeva disinnescare una bomba rudimentale come quella.

Mentre il padre cercava il filo da scollegare, Kim chiuse gli occhi e strinse i denti. Giocare col fuoco era il suo modo di vivere, ma qui era diverso. Non si trattava di corse coi flyscooter o di sparatorie, situazioni dove l’agire con prontezza e decisione faceva la differenza tra la vita e la morte. Si trattava di restar fermi. I pensieri ebbero tutto il tempo di dilatarsi nei secondi che passavano lenti, e Kim si rese conto di quanta paura facesse la morte.

 

-Fatto! -, disse il padre staccando il filo giusto. Kim si rese conto solo in quell’istante che aveva trattenuto il respiro per tutto il tempo. Il ticchettio cessò, Arthur tolse la bomba e la gettò nel disintegratore di rifiuti, che in pochi secondi la scompose in miriadi di minuscole particelle.

 

Arthur Nakiwata era un uomo di età indefinibile, alto, magro ma dal fisico prestante, vestito sempre di nero. Se non era per i capelli bianchi, e le leggere rughe che solcavano il suo viso, lo si sarebbe potuto scambiare per un trentenne. Erano tanti anni ormai che non rideva più. La sua presenza era comunque magnetica, carismatica. In realtà Kim tutto questo non riusciva a vederlo. Ogni volta che lo guardava vedeva solo uno sconosciuto, che non era mai a casa di giorno e quando capitava di incrociarsi la sera le litigate erano assicurate: per gli orari di Kim, per la cena non pronta, per l'atteggiamento di quella ragazza sfrontata, per l'indifferenza di Arthur. In realtà, Kim non era nemmeno sicura del lavoro che facesse suo padre. Non era nemmeno sicura che lavorasse, a dirla tutta.

 

La ragazza si mise faticosamente a sedere sfidando il gran mal di testa che aveva. Notò anche che il padre aveva spalancato la finestra, mentre era priva di sensi.

Il padre seguì il suo sguardo e spiegò:

- Ti avevano intontito col ‘respiro di Saturno’, quel sonnifero potente. Così hanno avuto tutto il tempo per sistemare la ‘sveglia’... - , poi l’uomo guardò con cipiglio severo la figlia:

- Come te lo spieghi che qualcuno si sbatta così tanto per vederti morire?

Kim abbassò gli occhi. Il padre non sapeva nulla della sua banda, proprio come non sapeva quasi nulla di lei. Era stata lasciata a se stessa. Aveva avuto una sorella, ma erano quattro anni ormai che risultava dispersa. Dispersa! Kim ci aveva messo un bel po’ad accettare l’idea che sua sorella era morta nella stessa guerra civile in cui era morta sua madre. La guerra che aveva voluto Sergio per poter salire al potere. Strinse i pugni.

Il padre si spazientì. “E allora? Hai perso la lingua?”

I pensieri della ragazza corsero alla notte precedente, quando avevano fatto il colpo. Il respiro di Saturno….

Con un moto di rabbia Kim sibilò tra i denti: “Sono stati i Serge-eagers!”

Arthur strabuzzò gli occhi, incredulo. “I Serge-eagers? La mafia….?! Ma che hai combinato? PARLA!”, tuonò.

Per affrontare l’ira di un uomo come Arthur Nakiwata ci voleva davvero coraggio. E anche Kim, che si era fatta un nome grazie alla sua temerarietà, faceva fatica a tenere lo sguardo fermo e deciso. Ma una volta in gioco si gioca per forza.

La ragazza per un istante avrebbe anche voluto spiegare come, in due anni, aveva organizzato i suoi amici per affrontare le prime schermaglie con quei bastardi, e come poi, resi famosi presso le giovani teste calde grazie alle prime vittorie, si erano moltiplicate le richieste di entrare in quella che era diventata l’unica banda che lottava contro i protetti del dittatore. Così erano state messe a punto delle selezioni severe per poter decidere chi era degno di indossare il giubbotto dei Dragon-flies. Il gruppo era diventato numeroso, anche se Kim l’aveva tenuto il più possibile piccolo per poterlo controllare meglio. Avrebbe raccontato a suo padre delle varie sortite, delle vittorie e anche delle sconfitte, per poi finalmente giungere alla missione portata a termine solo poche ore prima. Come uno sfogo avrebbe raccontato tutto questo, ma si trattenne. Un po’ perché è molto difficile aprirsi se non si è abituati a farlo, e un po’ perché anche se sapeva che a suo padre non andava a genio il dittatore e di sicuro non l’avrebbe denunciata, non poteva comunque rischiare di fidarsi troppo.

 

- E allora? - , chiese il padre spazientito.

Kim rapidamente trovò una risposta “diplomatica”:

- Non saprei, papà!

La vena sul collo di Arthur prese a pulsare.

- Ma chi prendi in giro? Non hai detto Serge-Eagers a caso! … e non posso permettere a quei criminali di farti fuori. Adesso mi dici perché ce l’hanno con te!

- Te l’ho già detto, papà: non saprei.

- Stupida testona, prendermi in giro non cambierà la tua situazione!

Disse lui afferrandola per il colletto e strattonandola energicamente. Poi Arthur guardò la figlia in modo strano e cambiò completamente tono:

- Mi spiace che ti sia messa in un guaio simile. Avrei dovuto essere un padre più presente…- Kim lo guardò stupita, per un istante le sembrò di non riconoscere più suo padre...

- Comunque, ora bisogna che tu vada via da qua. Il più presto possibile. Ho già in mente chi mi deve un favore: Sisur Andreas, abita nell’alkahal, al confine con la regione desertica. E’ il gestore di una piccola pensione. Resterai là come sua dipendente fino a che non si saranno calmate le acque.

Kim si riscosse dal suo stupore.

- L’Alkahal! Ma sei pazzo! Mi stai mandando al confino!”

Arthur tornò livido di rabbia.

- Tu devi stare zitta! Non so se l’hai ancora capito, ma qua ti giochi la vita! Ti lascio dieci minuti per fare i bagagli. Prendi solo lo stretto necessario mi raccomando!”, e uscì dalla stanza.

 

Kim restò sola, rossa di collera, a rimuginare su come avessero fatto i Serge-eagers a risalire a lei. Era sempre riuscita a mantenere l’anonimato, finora… una cosa era certa: se qualcuno aveva fatto la spia, in sua assenza nella banda dei Dragon-flies le cose sarebbero sicuramente cambiate in peggio, e non poteva, non voleva permetterlo.

Ora che gli effetti del respiro di Saturno non si facevano più sentire, si alzò, si vestì e mentre preparava la valigia pensò al da farsi. Doveva almeno avvertire Patrick e Brian.

Nervosamente compose i numeri al telefono. La parete opposta al letto si illuminò, e comparve Brian, ancora addormentato.

- Che c’è, Kimberly? Stavo dormendo! E a quanto pare dormivi anche tu.

L’immagine di Brian si ridusse della metà e al suo fianco comparve Patrick.

- Sì? - , chiese con aria assonnata.

- Patrick, Brian, vi ho chiamati per una cosa urgente, scusate l’ora ma non avevo scelta. Devo andare da mio zio Sunny per un po’, sapete, non sta passando un bel periodo. Comunque manterrò i contatti con voi. Ah, la festa di ieri è andata alla grande, mi sono divertita da morire… ora però credo che dovrò lasciar perdere per un po’ i festeggiamenti. Esercitatevi ai nuovi strumenti che vi ho regalato, mi raccomando, così quando torno avremo un’orchestra magnifica… e occhio a non rovinare la sorpresa!”

Colto il senso del codice, Brian rispose a tono:

- Non ti preoccupare. Fammi sapere come sta tuo zio. Magari migliora e ti fai una bella settimana al mare!

- Be’, non credo di poter fare il bagno… dai, vi lascio, non ho molto tempo… ci vediamo! - , e così detto chiuse le linee.

Poco dopo entrò in camera sua padre.

-Su, muoviti, o perderai la metro per l’Alkahal.

Prendendo la valigia Kim si sorprese a pensare ai chilometri di distanza che separavano Petra dalla regione dell’Alkahal, ma questo non la preoccupò più di tanto: aveva un piano.

 

- II -

La stazione sotterranea della metro transcontinentale era così grande da poter tranquillamente contenere una cattedrale, e diversi binari di rotaie magnetiche scomparivano in enormi tubi che attraversavano le viscere della terra. La banchina era congestionata, stracolma di persone che entravano e uscivano da quegli enormi vermoni di metallo che permettevano di raggiungere in poche ore anche le regioni più remote, come quella desertica dell’Alkahal. Kim osservava tutto quel caotico viavai un po’ smarrita: la folla sembrava scivolarle intorno e travolgerla, come gli eventi che nel giro di poche ore l’avevano condotta fin lì. Aveva provato ogni stratagemma, aveva mentalmente cercato qualsiasi via di fuga, ma il padre era stato irremovibile. Anzi, le stava appiccicato controllando ogni suo movimento, così che aveva dovuto rassegnarsi all’inevitabile.

 

Dagli altoparlanti risuonò l’avviso, per i passeggeri diretti all’Alkahal, che il vagone del binario 14 era pronto alla partenza. La folla si accalcò alle porte: provinciali che dopo una breve scappata tornavano a casa, benestanti che cercavano un po’ di pace dalla frenesia della città, pendolari, ricercatori che studiavano la desertificazione o vari sistemi per estrarre l’umidità…

Sentì la mano forte e decisa del padre che la spingeva nella calca, e la sua voce che le raccomandava: “Chiamami appena arrivi. E non far guai, per una volta”

 

Le porte si chiusero, e dopo una dolce accelerazione, ve ne fu una seconda più decisa che portò in pochi secondi la metro all’alta velocità di viaggio, tanto che il vagone sembrò essere risucchiato in uno di quei tubi nella terra. Kim guardò il suo biglietto, colta dallo sconforto. Il suo posto era la poltroncina B12. avanzò a fatica fra il mare di gente finché non la trovò. Una volta seduta, si guardò attorno.

Il vagone era stracolmo. I posti del suo scomparto non erano tutti occupati, ma certo erano stati prenotati da persone che sarebbero salite a qualche fermata successiva. Nei due posti vicino al finestrino c’erano un signore di mezz’età e la moglie; visto che il viaggio era cominciato, il vetro era coperto: nelle transmetropolitane i vetri si “oscuravano” automaticamente un istante prima della partenza, e cioè una lastra di metallo li copriva dall’esterno per evitare danni ai vetri durante il viaggio. Ogni volta che la metro giungeva nei pressi di una stazione, le “persiane” si risollevavano. In mancanza di un qualsiasi panorama da guardare, i due si erano immersi nella lettura; lui di un libro e lei di una rivista. Da come erano vestiti, dovevano essere agricoltori benestanti venuti a Petra per incontrare i loro acquirenti, forse con lo scopo di stabilire un nuovo contratto di fornitura.

Kim girò lo sguardo sul resto del vagone. Un giovane turista dall’altra colonna di poltroncine sembrò distogliere lo sguardo proprio mentre lei si voltava a guardarlo. Era ben vestito, forse apparteneva alla bassa nobiltà, perché si era accontentato di prenotare un posto solo invece di tutto un vagone com’erano solite fare le celebrità. Un soprabito grigio avvolgeva la sua figura alta e slanciata, e un paio di occhiali da sole firmati nascondevano i suoi occhi. Aveva i tratti del viso decisi, un pizzetto nero e le labbra sottili. Aveva l’aria annoiata di chi deve affrontare un lungo viaggio senza aver nulla con cui ammazzare il tempo. Anche Kim aveva molta strada da fare, ma non avrebbe certo avuto il tempo di annoiarsi.

 

La metro si avvicinava alla prima fermata. Kim con decisione si alzò portando con sé l’unica valigia. Si fece rapidamente strada tra le persone che si erano alzate per prepararsi a scendere, e aprì la porta che dava nell’intercapedine che collegava i vagoni.

Il rumore della metro che attraversava le viscere della terra si fece martellante, perché nessuno si preoccupava di isolare acusticamente l’intercapedine. Veloce Kim aprì la porta che le stava di fronte e si ritrovò nel vagone successivo. La fermata era ormai prossima, perché le lastre di metallo che oscuravano i finestrini durante il viaggio si stavano ritirando. Una brusca spinta in avanti indicò che la metro si era fermata. Kim proseguì disinvolta nella fiumana di gente che scendeva finché non si ritrovò davanti alle porte aperte che davano sulla banchina, mentre riecheggiava l’ultimo avviso dall’altoparlante della stazione: “Stazione centrale di Petra. La transmetro interregionale per Lastoasis è in partenza sul binario…”

Tranquillamente Kim scese dalla metro. Subito dopo le porte si chiusero, e i vetri si oscurarono. Restò a guardare finché la metro fu visibile, dopodiché, sempre stringendo la valigia, lasciò la banchina.

-III-

Fuori della stazione il sole era accecante. Quelle prime ore del mattino erano così belle che facevano venir voglia di gridare alla vita. La città era piena di vita, e il cielo era così sereno che faceva venire voglia di fare una scorrazzata in flyscooter… ma con un sospiro Kim si rassegnò all’idea che per un bel pezzo non avrebbe più solcato i cieli. Prese invece un pullman e tornò nella sua periferia, dove sapeva di poter incontrare Ada.

La trovò subito infatti: seduta per terra, un cappello poggiato sul marciapiede, suonava la chitarra con impegno, circondata da un gruppo di passanti che ascoltavano in silenzio.

Rispettosamente Kim ascoltò tutta la canzone e, quando Ada ebbe finito, le mise nel cappello cinquanta crediti.

- Ehi Kim, siamo ricchi oggi, eh? Che succede? - , esclamò sorpresa la ragazza.

- Ti racconto tutto, amica mia, ma prima andiamo a mangiare.

Scelsero un locale senza troppe pretese, né troppo bello né troppo brutto, né troppo pieno né troppo

vuoto, in cui si poteva parlare in tutta tranquillità senza farsi notare. Sedute al tavolo più lontano da

occhi indiscreti, Kim mangiò più per compagnia che per fame, e attese che Ada finisse il pranzo.

Ebbe così il tempo di osservare bene quella ragazza, che si era rivelata così in gamba da meritare la sua fiducia. Portava sempre un berretto, una sorta di cuffia che le nascondeva tutti i capelli, tenuti cortissimi. Sopra a quel berretto metteva il cappello “delle finanze”, quando non le serviva. Molto esile, magra, né troppo alta né troppo bassa, nonostante praticamente non si vedevano quasi mai i suoi capelli, aveva un viso gradevole, i suoi occhi color ghiaccio non spegnevano l'aspetto vivace e intraprendente del suo viso,anche se molto pallido. Il suo abbigliamento era singolare: da che si erano conosciute, ossia poco dopo la fine della guerra, Ada aveva sempre indossato vestiti di fortuna. Anche se era una ragazza senza fissa dimora, non se la passava poi tanto male: era artista di strada e arrotondava le entrate facendo altri lavoretti, come quelli che svolgeva per Kim. Volendo, avrebbe anche potuto comprarsi dei vestiti nuovi, ma nel suo lavoro l’immagine era essenziale!

- Bene, a pancia piena si può parlare di cose serie - , disse Kim, quando Ada ebbe finito di mangiare.

- Prima di tutto devo riconoscere che hai fatto un buon lavoro: la torta era davvero prelibata.

- Ma tu non mi vuoi solo ringraziare… ne vuoi ancora! – intuì Ada con un sorriso sicuro.

Kim esitò. Quello che voleva proporle era una faccenda delicata e doveva trovare le parole giuste.

- Non sono ingorda. Infatti ne ho lasciata un po’ anche per te. Ma ho paura che quelle pesti sappiano dove l’ho messa e se la mangino tutta. Io non posso sorvegliare i miei monelli perché ho delle faccende da sbrigare…

- Insomma dovrei farti da baby-sitter?

- Sì. Non vorrei che i miei monelli in realtà siano pestiferi in mia assenza, ma se tu vedi chi si comporta male, una volta che ho sbrigato le mie faccende almeno potrò prendere provvedimenti. Se mi fai questo favore, ti darò una bella fetta di torta - , disse Kim strizzando l’occhio.

- E va bene, non mi dispiace fare da baby-sitter ai tuoi fratellini. Se ho bisogno, come faccio a chiamarti?

Kim si sporse verso Ada e abbassò il tono della voce fino a che fu un sussurro appena percettibile.

- Tieni questo orologio cerca-persone. Se schiacci questo tasto, il mio quadrante si illuminerà a intermittenza, e se io schiaccio il mio, si illumina il tuo. Il tasto a fianco è per farlo smettere, così – disse Kim interrompendo il contatto – altrimenti continua l’intermittenza finchè non si scarica. Quando una di noi lancia il segnale, vuol dire che dobbiamo incontrarci qui il prima possibile. Se il locale è chiuso ci troviamo qui fuori. Intesi?

E tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia.

- Certo, puoi fidarti! - , replicò la vagabonda.

 

Quando le due amiche si salutarono, Ada restò per un attimo a guardare Kim allontanarsi, e con un fil di voce sussurrò: “Povera Kim!”

   
 
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