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Autore: Varekai    15/05/2006    5 recensioni
Solo una breve storia scritta qualche tempo fa e che solo ieri mi sono ricordata di aver scritto. La storia di un ragazzo che ama correre con la sfortuna di essere nato mutante.
Genere: Drammatico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ricordo come accadde. Non ricordo quasi nulla di quel giorno. Sapevo che dovevo vincere quella gara, che dovevo correre come mai avevo corso. L’unica cosa che vedevo erano le strisce arancioni del percorso che dovevo seguire. Niente di più. Non vedevo il pubblico, non vedevo la mia famiglia che mi faceva il tifo, non vedevo gli altri corridori che tentavano di raggiungere il traguardo il più in fretta possibile.

Ho scelto lo sport perché non potevo scegliere nient’altro. Non amo lo studio. Ho un fisico prestante. Ho sempre amato correre. L’allenatore mi aveva detto che se vincevo quella gara si potevano aprire mille vie per me. Potevo correre come professionista. Mi aveva detto che c’erano dei signori di una grande società sportiva in cerca di nuovi talenti e che erano venuti anche per me. Vincere quella gara significava per me fare centro nella mia vita. Erano le parole dell’allenatore quelle che mi risuonavano in testa. “Devo vincere, devo vincere!”

Se nello sport è importante partecipare, io non sono uno sportivo. Io gareggio per vincere.

Il cuore mi batteva forte, per lo sforzo e l’emozione. Oh sì, come batte il cuore me lo ricordo sempre. Un martello dietro al petto, fa quasi male da quanto è forte. Sulla corsia per me ci sono solo io e il mio corpo. E’ il mio corpo quello che mi fa vincere, per questo ricordo così bene come stava il mio corpo. Il resto non è importante.

Avvertivo un dolore anche dietro la schiena, all’altezza delle scapole. Forte, fortissimo, una fitta. Ho pensato un crampo, il peggiore della mia vita. Ma il dolore non poteva fermare la mia corsa. “Corri! Vinci!” mi dicevo. E correvo. Nonostante il dolore e la fatica. Nonostante il cuore mi stesse implorando di smettere e la schiena mi facesse male, sempre di più. Il sudore cadeva dalla mia fronte come una cascata quando i ghiacci si sciolgono.

Ad un tratto, il traguardo. Era lì, che aspettava solo me. Una striscia bianca che mi separava dalla vittoria. La dovevo solo attraversare. Non so dove fossero i miei avversari, ma davanti a me la strada era libera.

“Gambe mie, non traditemi ora!Raccogliete le ultime forze!”

Dovevo correre più veloce che mai, lo scatto finale che mi avrebbe incoronato vincitore. Più veloce di quanto avessi corso durante tutta la gara. Odio dirlo, ma non ricordo quando attraversai quella striscia bianca. So solamente che, a pochi mentri dal traguardo, non sentii più la fatica delle mie gambe. Sentii che si muovevano più veloce e liberamente, mentre il dolore alla schiena si faceva allucinante. Penso che fu per quello che svenii. Non ricordo più nulla. Nulla, fino a quando non mi svegliai, pancia a terra, disteso oltre il traguardo. Una donna con gli occhi verdi mi stava inumidendo la faccia con un panno. Non avevo più la maglietta, ma ero stato coperto con una soffice coperta, che lì per lì mi sembrarono piume. Respiravo a fatica, mentre la donna mi sciacquava amorevolmente il viso. Il mio allenatore era lì. Non riuscivo a vederne il volto, ma ne avevo riconosciuto la corporatura.

“Ho… ho vinto?”ho chiesto con fatica

Mi ha risposto con un tono duro, che mai aveva usato con me, suo pupillo: “Se intendi vincere con raggiungere il traguardo prima degli altri si”

Ho sentito il cuore alleggerirsi.

“… ma se intendi vincere con il fatto che diventerai professionista, no.” Il cuore mi si è fermato quando ha detto, allontanandosi: “Non gareggerai mai più, sporco mutante!”.

Fu allora che compresi che quella coperta di piume veniva direttamente dal mio corpo. La disperazione più assoluta si impadronì di me. Una disperazione così assoluta che neanche le lacrime potevano aiutare. Ora penso che mi sarei suicidato se con me non ci fosse stata quella donna dagli occhi verdi. Appena ebbi modo di girare la testa, mi resi conto che tutto il campo era deserto. Solo me e lei, tolto l’allenatore che ormai era solo un puntino.

“Dov’è la mia famiglia?” ho chiesto alla donna con un filo di voce.

“Shh, non parlare”mi ha risposto la donna, con voce soave

“Cosa sono queste piume che ho addosso!”

“Sono ali. Ali vere, con cui sei arrivato al traguardo. Ti hanno portato loro”

Ho chiuso gli occhi. La donna mi ha messo una mano sulla guancia e me l’ha carezzata.

“Mi chiamo Jean Grey, ti posso aiutare. Non sono un’atleta, ma sono come te. Ti posso portare in un luogo in cui non ci sono pregiudizi per gente come noi. Con un po’ di impegno ti posso aiutare anche a correre di nuovo. Ma ti devi fidare di me”

“Io mi fido”

La donna, Jean, mi ha aiutato ad alzarmi. Le ali, se sono ali, mi creano difficoltà. Sono più pesante. Il dolore alla schiena è passato. Jean mi ha messo un braccio attorno al busto, sostenendomi.

“Ti dovrai abituare. Vieni, ti accompagno a casa”

E ci siamo allontanati verso gli spogliatoi.

  
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